In La société du spectacle [La società dello spettacolo], un libro che fin dalla
sua uscita nel 1967 è diventato un classico (vale a dire, un libro sempre contemporaneo), il pensatore francese Guy Debord
afferma che la vera catastrofe della società moderna non è un evento in arrivo, e nemmeno un processo in
corso (cambiamento climatico, ecc.), bensì un
tipo di relazione con il mondo: la
posizione di spettatore, la soggettività spettatrice.
In che
senso? Lo spettatore non entra in contatto con
il mondo. Lo vede di fronte a sé. Da un
“osservatorio” (lo spettacolo) che concentra lo sguardo: centralizza e
virtualizza, separa dalla diversità delle situazioni concrete che compongono la
vita. Lo spettatore è incapace di pensiero e di azione: si limita al giudizio
esteriore (bene/male), alle genericità e all’attesa. È una figura
dell’isolamento e dell’impotenza. Lo
spettatore di Debord non è stato affatto superato dall’”interazione” dei social
network: si è semplicemente trasformato nell’ “opinionista” dei nostri giorni,
che ha sempre qualcosa da dire su ciò che accade (sullo schermo), ma non ha
alcuna capacità di cambiare nulla.
Lo spettatore è una categoria astratta, non qualcuno in concreto. Per
esempio, è chiunque si relazioni con il mondo esprimendo opinioni sugli
argomenti mediatici, senza dare a sé stesso alcun mezzo adeguato per pensare o
agire al riguardo. Chiunque di noi può collocarsi nella posizione di spettatore
e chiunque può anche uscirne. Questo è ciò che ci interessa adesso. Come
uscirne?
Lo spettatore stregato
È appena
uscito in Argentina La brujería capitalista (Hekht
libros) [in italiano Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio era
uscito già nel 2016 per merito di Ipoc, con la bella prefazione di Stefania
Consigliere], un libro della filosofa Isabelle Stengers e dell’editore Philippe
Pignarre che ci permette di andare avanti su questi temi. Anche per strade
diverse da quelle di Guy Debord. Cosa voglio dire?
Per Debord, lo spettatore è un essere ingannato e
manipolato. Lo spiega
molto chiaramente nei suoi Commentari sulla società
dello spettacolo [Commentaires sur la société du
spectacle], il libro che ha scritto nel 1988. Stengers e Pignarre spostano tale
questione: non si tratta di bugie o di illusioni, bensì di “stregonerie”. Vale
a dire: il problema è che la nostra capacità di attenzione viene catturata e la
nostra forza di pensiero viene bloccata.Pertanto, l’emancipazione non
passa dall’avere o dal dire la Verità, ma dal generare “contro-sortilegi”:
trasformazioni concrete dell’attenzione, della percezione e della sensibilità.
Vediamolo
con più calma. Lo spettatore rimane intrappolato di continuo in quello che gli
autori chiamano “alternative infernali”. Per esempio: o si erigono recinzioni
alte e appuntite, o si verificherà un’invasione di migranti. O si abbassano i
salari e si smantellano i diritti sociali, o le imprese se ne andranno
altrove con il lavoro. Isolato
di fronte al suo schermo, lo spettatore è ostaggio dell’alternativa tra due
mali. Come sfuggire?
Non si
tratta di “critica”. Infatti, lo
spettatore può essere molto critico, assistere per esempio indignatissimo -come
noi tutti, oggi – allospettacolodella corruzione, godere nel veder
rotolare le teste dei potenti, ecc. Però questo non cambia nulla. Continuiamo
nella posizione di spettatori: vittime della situazione,
ridotti al giudizio morale, alla genericità (“sono tutti corrotti”, la
“colpa è del sistema”) e in attesa che qualcuno “risolva” il problema.
Usciamo dalla posizione di spettatori quando
torniamo capaci di pensare e di agire. E torniamo capaci di pensare e agire producendo
quello che gli autori chiamano una “presa” o un “appiglio”. Vale a dire uno
spazio di pensiero e di azione a partire da un problema concreto. In quel
momento non siamo più di fronte a uno schermo, esprimendo opinioni e in attesa,
ma siamo coinvolti in una “situazione di lotta”. Oggi
come ieri, sono queste situazioni di lotta che creano nuove
impostazioni, nuovi potenziali e mettono la società in movimento.
Senza
pensiero né creazione è impossibile che ci sia alcun sostanziale cambiamento
sociale e il male (la corruzione o quant’altro) prima o poi riprodurrà i suoi
effetti. In questo senso, mentre blocca il pensiero e la creazione, la società
dello spettacolo è una società ferma, un ciclo infinito degli stessi problemi.
Situazione di lotta
Non si apre una situazione di lotta perché si sa, ma
proprio al fine di sapere. Non si crea una situazione di lotta
perché abbiamo preso coscienza o aperto finalmente gli occhi, ma per
pensare e aprire gli occhi in compagnia. La lotta è un apprendistato,
una trasformazione dell’attenzione, della percezione e della sensibilità. Il
più intenso, il più potente.
Gli autori
forniscono diversi esempi; per esempio, la lotta dei farmaci anti-AIDS. Nel
2001, 39 imprese farmaceutiche mondiali, sostenute dalle loro associazioni
professionali, hanno aperto un procedimento contro il governo sudafricano che
garantiva la disponibilità a costi moderati dei farmaci per l’AIDS.
L’alternativa infernale allora diceva: o ci sono brevetti e prezzi alti, oppure
è la fine della ricerca. Il progresso ha un prezzo e un costo.
Ma le
associazioni di malati di AIDS escono dal loro ruolo di vittime e politicizzano
il problema che li colpisce: ricerca, disponibilità dei farmaci, diritti degli
ammalati, rapporto con i medici. Pensano, creano, agiscono. Suscitano nuove
connessioni con associazioni umanitarie, altri ammalati, imprese farmaceutiche
sensibili, Stati favorevoli come il Brasile, ecc. Perché la mappa di una situazione di lotta (gli
amici e i nemici) non è mai chiara prima di essere aperta, è la lotta che la
ridisegna. Non c’è un “soggetto politico” a priori, la situazione di lotta lo
crea.
L’alternativa
infernale perde forza e gli
industriali finiscono per ritirare la loro richiesta. Non perché gli
interessati abbiano opposto loro delle buone argomentazioni critiche, ma perché
hanno creato una nuova realtà: nuove legittimità, modi di vedere,
sensibilità, alleanze. In una situazione di lotta, ci dicono gli
autori, le diagnostiche critiche sono “pragmatiche”, vale a dire, inseparabili
dalla questione delle strategie e dei mezzi adeguati. In definitiva, dalle alternative infernali si esce
solamente “attraverso il mezzo”: attraverso situazioni concrete, per mezzo di
pratiche, dalla vita.
Possiamo
pensare, in questo stesso senso, alle lotte degli ultimi anni: dalla PAH a YO
SÍ Sanidad Universal, passando per i movimenti dei pensionati e delle donne.
Una situazione di lotta è l’ “intellettuale” più potente: non solo descrive la
realtà, ma la crea, suscitando nuove connessioni, problematizzando nuovi
oggetti, inventando nuovi enunciati. In effetti, gli intellettuali-portavoce
(nuovi e vecchi) sorgono molte volte in assenza di situazioni di lotta, per
rappresentare coloro che non pensano.
Senza situazioni di lotta non c’è pensiero. Senza
pensiero non c’è creazione. Senza creazione siamo intrappolati nelle
alternative infernali e spettacolari. La rappresentazione si separa
dall’esperienza sociale. Rimangono solo i giudizi morali, le generalizzazioni e
l’attesa. Il brusio quotidiano dello spettacolo mediatico e politico, così come
dei nostri social network.
Che la gente pensi
Oggi vediamo crescere un po’ ovunque movimenti
ultraconservatori. Come combatterli? La soggettività alla quale si rivolgono
tutti questi movimenti è la soggettività spettatrice e vittimista: ”il popolo
sofferente”. La vittima critica ma non intraprende un processo di cambiamento;
ritiene qualcun Altro colpevole di tutti i suoi mali; delega le sue forze ai
“salvatori” in cambio di sicurezza, ordine, protezione.
Oggigiorno, ascoltiamo persone di sinistra dire:
contendiamo il vittimismo alla destra. Facciamo come Trump o Salvini, ma con
altri contenuti, più “sociali”. È una nuova alternativa infernale: fare come la
destra affinché la destra non cresca. Un modo di riprodurre la catastrofe che, come
dicevamo all’inizio, è inscritta nella stessa relazione da
spettatore e da vittima con il mondo.
Nel 1984, a
una domanda su che cos’è la sinistra, il filosofo francese Gilles Deleuze
rispondeva: “La sinistra ha bisogno che la gente pensi”. A questo punto mi pare
l’unica definizione valida e l’unica uscita possibile. Non contendere alla
destra la gestione del risentimento, della paura e il desiderio di ordine,
ma uscire dalla posizione di vittime. Che la gente pensi e
agisca, come si è fatto durante il 15M, l’unico sbarramento contro la deriva a
destra che ha funzionato per anni in Spagna.
Dobbiamo
smettere di ripetere che “la gente” non sa, che la gente non può, che non ha
tempo né lucidità per pensare o agire, che non può apprendere o produrre
esperienze nuove, che può solo delegare e che l’unica discussione possibile –
tra quelli “edotti”, chiaro, tra quelli che non sono “la gente” – è su quali
modi di rappresentanza sono migliori di altri. C’è molta destra nella sinistra.
Bisogna che la gente pensi: non dobbiamo convincerla
o sedurla, considerarla come “oggetto” delle nostre pedagogie e strategie.
Dobbiamo aprire processi e spazi dove affrontare insieme i nostri problemi,
tessere alleanze insperate, creare nuovi saperi. Dobbiamo imparare a vedere il
mondo con i nostri occhi, essere i protagonisti del nostro stesso processo di
apprendistato.
Pensare è
l’unico contro-sortilegio possibile. Implica andare oltre ciò che si sa e
inizia con l’assumere un “non sapere”, rischiare di dubitare o vacillare.
È l’arte di liberare l’attenzione dalla sua cattura e rovesciarla nella propria
esperienza. Mettere il corpo, esattamente
quello che manca alla posizione di spettatore, di salottiero, di commentatore
della politica, di polemista nei social.
Di sicuro
abbiamo bisogno di una nuova poetica politica. Per esempio, di una parola nuova
per parlare di lotta, che associamo in modo molto rapido alla mobilitazione,
all’agitazione attivista, a un processo separato della vita, ecc. Dobbiamo
reinventare ciò che è lottare. In realtà, una lotta è un regalo che ci facciamo: l’opportunità di cambiare,
di trasformarci mentre trasformiamo la realtà, di cambiare pelle. Non ce ne
sono tante.
Una situazione di lotta non è alcun cammino di
salvezza. La vede così solo lo spettatore, che si mette in relazione con tutto
dall’esterno. Da dentro, è una trama infinitamente fragile, molto difficile da
sostenere e alimentare.Ma è anche
quel regalo. L’occasione di imparare, assieme ad altri, di cosa è fatto il
mondo che abitiamo, di metterlo in tensione e di metterci in tensione, di
metterlo alla prova e metterci alla prova. Per non vivere e morire da idioti,
cioè, come spettatori.
(Articolo pubblicato su eldiario.es e su Rebelión con il titolo Tener necesidad de que la gente piense
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo)
Illuminante. Verissimo. Grazie. Lo rilancerò nel mio blog. Buona giornata.
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