lunedì 22 ottobre 2018

Paradossi, movimenti e politica - Marco Bersani



Più di un paradosso attraversa la società. Il primo è sul versante dell’agenda politica, dove il campo sembra interamente occupato dal conflitto fra chi si schiera tout court con l’establishment europeo e chi sembra opporsi appellandosi ad un sovranismo declinato in forma identitaria e razzista. È un conflitto mediaticamente aspro, ma attraversato da un filo rosso: nessuno dei contendenti mette in discussione le politiche liberiste, lo scontro è solo sui luoghi del comando.
Anche guardando verso il basso troviamo un paradosso: il numero di donne e uomini che, quotidianamente agiscono lotte, pratiche ed esperienze verso un diverso orizzonte non è mai stato così ampio come in questi ultimi anni; contemporaneamente, questo insieme di donne e di uomini mai ha inciso così poco sull’agenda politica.
Questo secondo paradosso è frutto della storia dei movimenti sociali di questi due decenni, che li ha visti vincere e perdere su almeno tre diversi terreni.
Il primo avvenne con l’emersione a fine secolo del movimento altermondialista, che, contro il modello liberista, osò affermare “Un otro mundo es posible”, attraversando le strade della speranza a Porto Alegre e quelle del conflitto a Genova.  Quel movimento ha messo in moto il mondo, ma ha poi subito una sconfitta sulla questione della guerra, quando, nel febbraio 2003, la più grande manifestazione globale mai realizzata -3 milioni solo in Italia- non riuscì a posticipare neppure di un giorno l’attacco americano all’Iraq del marzo successivo.
Il secondo, specifico della situazione italiana, fu la scelta di Rifondazione Comunista, di posizionarsi, dall’internità ai movimenti sociali sino allora praticata, all’approdo nel centro-sinistra, con la partecipazione al governo Prodi. Il fallimento di quell’esperienza segnò la crisi, ancora oggi non reversibile, della cosiddetta “sinistra radicale” come progetto politico e sociale.
Il terzo terreno fu quello attraversato dalle lotte territoriali che, nel caso dell’acqua, giunsero sino alla straordinaria vittoria del referendum nel 2011, segnando con il paradigma dei beni comuni un nuovo fronte di alternativa al pensiero unico del mercato. Un movimento che riuscì a parlare all’intera società e vinse, ma che fu sconfitto dalla mancata svolta sulle politiche di privatizzazione.
L’insieme di questi percorsi, avendo costruito fortissime mobilitazioni, ma prodotto risultati molto al di sotto delle aspettative, è stato prodromico all’attuale disillusione sulla possibilità, non tanto di praticare conflitti e pratiche diverse, bensì di farlo pensandole come tappe di un cambiamento più generale.

Ma anche la risposta, sinora vincente, data dal modello dominante a questo ciclo di lotte, porta con sé un altro paradosso: grazie alla trappola del debito, il capitalismo ha potuto parare gli attacchi al pensiero unico del mercato, ma non ha potuto nasconderne l’intrinseca fragilità; quella di un modello che, a soli 30 anni dalla “fine della storia”, non può più porsi come orizzonte di benessere per la maggioranza della popolazione, ma deve dominare senza consenso e puntando alla rassegnazione.
Per uscire da questi paradossi, occorre porsi una domanda: cosa ingabbia oggi la discussione politica e sociale? L’accettazione della narrazione dominante basata sulla trappola del debito e sull’ineluttabilità delle politiche liberiste. È questo quadro a dare spazio alle derive razziste e di guerra ai poveri a cui stiamo assistendo: perché senza mettere in discussione il mantra “C’è il debito, non ci sono i soldi” sarà impossibile arginare il conseguente “Se i soldi non ci sono, prima gli italiani!”, che dà una risposta, semplicistica ma comprensibile, alla frustrazione prodotta dalle politiche di austerità e alla perdita del senso di appartenenza sociale.
Un primo percorso per riaprire l’orizzonte delle possibilità è di conseguenza la contestazione della narrazione del debito, per mettere finalmente le vite e i diritti delle persone davanti agli interessi delle lobby finanziarie.
Un secondo filone deve incidere sulla questione della precarietà, oggi unico orizzonte di vita delle persone, che si trovano sole sul mercato in diretta competizione fra loro: unire la lotta per un reddito universale di base (ben altro rispetto alla farsa di Di Maio) a quella per una drastica riduzione dell’orario di lavoro e per la socializzazione del lavoro necessario diventa ineludibile per rompere la narrazione della differenziazione sociale -italiano/straniero, giovane/anziano, precario/garantito- e aprire la strada a un orizzonte condiviso.
C’è una terza pista da percorrere, figlia del paradigma dei beni comuni, nell’epoca della fine del movimento operaio (come soggetto politico) e della profonda modifica del ruolo dello Stato e del “pubblico”: il mutualismo conflittuale, ovvero esperienze concrete di riappropriazione del reddito e di una produzione diversa, socialmente ed ecologicamente orientata, che si ponga come processo per la nascita di istituzioni nuove basate sull’autogoverno sociale.

Dentro questo percorso di riorientamento dei movimenti sociali, elementi interessanti vengono suggeriti dalle lotte ambientali e per i beni comuni,che dimostrano come nessun altro modello sia possibile, se non superando la concezione estrattivista (di materie prime e di valore finanziario) e dal movimento delle donne, che dimostra come, senza una rimessa in discussione del patriarcato quale sistema di potere fra i generi, le lenti con cui si osserva il mondo non potranno che essere costantemente appannate.
Sono tracce su cui iniziare il cammino, sapendo che oggi, date per acquisite tutte le analisi sul capitalismo come sistema distruttivo della vita, occorre lanciare il cuore oltre l’ostacolo e provare a costruire un’altra visione del mondo, capace, come fu nel secolo scorso, di parlare ai cuori e alle menti delle persone, mettendole di nuovo in cammino a milioni in ogni angolo del pianeta.
Perché l’utopia può essere irraggiungibile, ma aiuta a camminare.

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