Più di un
paradosso attraversa la società. Il primo è sul versante dell’agenda politica,
dove il campo sembra interamente occupato dal conflitto fra chi si
schiera tout court con l’establishment europeo
e chi sembra opporsi appellandosi ad un sovranismo declinato in forma
identitaria e razzista. È un conflitto mediaticamente aspro, ma attraversato da
un filo rosso: nessuno dei contendenti mette in
discussione le politiche liberiste, lo scontro è solo sui luoghi del comando.
Anche
guardando verso il basso troviamo un paradosso: il
numero di donne e uomini che, quotidianamente agiscono lotte, pratiche ed
esperienze verso un diverso orizzonte non è mai stato così ampio come in questi
ultimi anni; contemporaneamente, questo insieme di donne e di uomini mai ha
inciso così poco sull’agenda politica.
Questo
secondo paradosso è frutto della storia dei movimenti sociali di questi due
decenni, che li ha visti vincere e perdere su almeno tre diversi terreni.
Il primo
avvenne con l’emersione a fine secolo del movimento altermondialista, che,
contro il modello liberista, osò affermare “Un otro mundo es posible”,
attraversando le strade della speranza a Porto Alegre e quelle del conflitto a
Genova. Quel movimento ha
messo in moto il mondo, ma ha poi subito una sconfitta sulla questione della
guerra, quando, nel febbraio 2003, la più grande manifestazione
globale mai realizzata -3 milioni solo in Italia- non riuscì a posticipare
neppure di un giorno l’attacco americano all’Iraq del marzo successivo.
Il secondo,
specifico della situazione italiana, fu la scelta di Rifondazione Comunista, di
posizionarsi, dall’internità ai movimenti sociali sino allora praticata,
all’approdo nel centro-sinistra, con la partecipazione al governo Prodi. Il fallimento di quell’esperienza segnò
la crisi, ancora oggi non reversibile, della cosiddetta “sinistra radicale”
come progetto politico e sociale.
Il terzo
terreno fu quello attraversato dalle
lotte territoriali che, nel caso dell’acqua, giunsero sino alla straordinaria
vittoria del referendum nel 2011, segnando con il paradigma dei beni comuni un
nuovo fronte di alternativa al pensiero unico del mercato. Un movimento che
riuscì a parlare all’intera società e vinse, ma che fu sconfitto dalla mancata
svolta sulle politiche di privatizzazione.
L’insieme di
questi percorsi, avendo costruito fortissime mobilitazioni, ma prodotto
risultati molto al di sotto delle aspettative, è stato prodromico all’attuale
disillusione sulla possibilità, non
tanto di praticare conflitti e pratiche diverse, bensì di farlo pensandole come
tappe di un cambiamento più generale.
Ma anche la
risposta, sinora vincente, data dal modello dominante a questo ciclo di lotte,
porta con sé un altro paradosso: grazie
alla trappola del debito, il capitalismo ha potuto parare gli attacchi al
pensiero unico del mercato, ma non ha potuto nasconderne l’intrinseca
fragilità; quella di un modello che, a soli 30 anni dalla “fine
della storia”, non può più porsi come orizzonte di benessere per la maggioranza
della popolazione, ma deve dominare senza consenso e puntando alla
rassegnazione.
Per uscire
da questi paradossi, occorre porsi una domanda: cosa
ingabbia oggi la discussione politica e sociale? L’accettazione
della narrazione dominante basata sulla trappola del debito e
sull’ineluttabilità delle politiche liberiste. È questo quadro a dare spazio
alle derive razziste e di guerra ai poveri a cui stiamo assistendo: perché
senza mettere in discussione il mantra “C’è il debito, non ci sono i soldi”
sarà impossibile arginare il conseguente “Se i soldi non ci sono, prima gli
italiani!”, che dà una risposta, semplicistica ma comprensibile, alla
frustrazione prodotta dalle politiche di austerità e alla perdita del senso di
appartenenza sociale.
Un primo percorso per riaprire l’orizzonte delle
possibilità è di conseguenza la contestazione della narrazione del debito, per
mettere finalmente le vite e i diritti delle persone davanti agli interessi
delle lobby finanziarie.
Un secondo
filone deve incidere sulla questione della
precarietà, oggi unico orizzonte di vita delle persone, che si
trovano sole sul mercato in diretta competizione fra loro: unire la lotta per
un reddito universale di base (ben altro rispetto alla farsa di Di Maio) a quella per una drastica riduzione
dell’orario di lavoro e per la socializzazione del lavoro necessario diventa
ineludibile per rompere la narrazione della differenziazione sociale
-italiano/straniero, giovane/anziano, precario/garantito- e aprire la strada a
un orizzonte condiviso.
C’è una
terza pista da percorrere, figlia del paradigma dei beni comuni, nell’epoca
della fine del movimento operaio (come soggetto politico) e della profonda modifica del ruolo dello
Stato e del “pubblico”: il mutualismo conflittuale, ovvero esperienze
concrete di riappropriazione del reddito e di una produzione diversa,
socialmente ed ecologicamente orientata, che si ponga come processo per la
nascita di istituzioni nuove
basate sull’autogoverno sociale.
Dentro
questo percorso di riorientamento dei movimenti sociali, elementi interessanti vengono suggeriti dalle
lotte ambientali e per i beni comuni,che dimostrano come nessun altro
modello sia possibile, se non superando la concezione estrattivista (di materie
prime e di valore finanziario) e dal movimento delle donne, che dimostra come,
senza una rimessa in discussione del patriarcato quale sistema di potere fra i
generi, le lenti con cui si osserva il mondo non potranno che essere
costantemente appannate.
Sono tracce su cui iniziare il cammino, sapendo che
oggi, date per acquisite tutte le analisi sul capitalismo come sistema
distruttivo della vita, occorre lanciare il cuore oltre l’ostacolo e provare a
costruire un’altra visione del mondo, capace, come fu nel secolo scorso, di parlare ai
cuori e alle menti delle persone, mettendole di nuovo in cammino a milioni in
ogni angolo del pianeta.
Perché
l’utopia può essere irraggiungibile, ma aiuta a camminare.
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