Mentre scrivo, ricordo le molte volte in
cui ho dovuto sedermi in una stanza in cui gli Europei discutevano della loro
profonda colpa per le atrocità commesse contro le loro comunità ebraiche.
Ricordo altresì i molti momenti estremamente dolorosi in cui mi sono
sentita completamente invisibile durante le discussioni sul razzismo, sul
colonialismo, sulla giustizia sociale e sui diritti dei rifugiati e dei
migranti. Il battito accelerato del mio cuore che mi sopraffaceva insieme agli
innumerevoli ricordi di terrore e di dolore, un grido trattenuto che desiderava
disperatamente una risposta: perché non c’è alcun sentimento di colpa nei
nostri confronti dato che i Paesi europei alimentano e permettono il terrorismo
israeliano contro i Palestinesi? O noi non contiamo come persone? Che ne è
della questione dei rifugiati Palestinesi, il problema di più lunga data nella
nostra storia moderna?
Vorrei poter scuotere la coscienza delle
persone e affrontarle ponendo loro davanti un secolo di complicità che, se
avessero riconosciuto, avrebbe loro causato una durissima sensazione di
colpevolezza nei confronti dei Palestinesi. La situazione era, è e continuerà ad
essere cupa fino a quando non verranno intraprese azioni concrete per fermare
(non per alleviare) le gravi ingiustizie che per tutti i 70 anni di
occupazione coloniale israeliana e di apartheid sono avvenute e avvengono
alla luce del giorno e davanti agli occhi di tutto il mondo.
Fino ad allora, i desideri irrealizzati
dei nostri nonni che sono morti mentre si aggrappavano fino all’ultimo respiro
al loro diritto al ritorno, vi perseguiteranno. Le vite dei molti pazienti che
sono morti per malattie minori dovute alla chiusura dei valichi e ai posti di
blocco, vi perseguiteranno. I sogni dei nostri bambini. Le grida delle madri
palestinesi. Gli anni rubati ai nostri prigionieri politici. Le foto di tutte
le nostre vittime, giovani e vecchie. Le gocce di sangue che scorrono da ogni
persona ferita. Gli arti amputati. Gli ulivi sradicati. Le case demolite. I
ricordi custoditi in ciascuno dei loro angoli. Le terre deserte. Gli occhi
insonni che aspettavano da tempo l’alba della libertà. I corpi uccisi che sono
rimasti sanguinanti fino a quando non sono stati prosciugati del loro sangue.
Il corpo senza vita di Malak Rabah Abu Jazar, una ragazza palestinese di Gaza
che le onde del mare hanno spinto verso le coste turche dopo una fallita fuga
dalla prigione a cielo aperto di Gaza verso una vita più sicura. Tutto ciò vi
perseguiterà, e ignorarlo è a nostro pericolo.
Lungo la recinzione che separa Gaza, una
folle enorme si confronta ancora con i cecchini israeliani che si nascondono
dietro i cumuli di sabbia e nelle loro jeep militari, andando avanti e indietro
a seconda del livello di forza letale che Israele stabilisce si debba
utilizzare contro di loro. La Grande Marcia del Ritorno di marzo è
arrivata al suo settimo mese, con il campo più volte trasformato in una drammatica
scena di spargimenti di sangue e di repressione, il tutto documentato dalla
stampa locale e dalle persone sul campo, che vogliono ricordare al mondo
le orribili ingiustizie subite dai Palestinesi e spingere a favore di
azioni che potrebbero porvi fine.
Mentre queste atrocità continuano
impunemente, il discorso dominante dei media occidentali sta trasformando
questi eventi orribili in uno spettacolo che distoglie l’attenzione
dall’ingiustizia che i Palestinesi vivono sotto Israele e dalle loro legittime
rivendicazioni, e comunque ogni notizia viene sempre preceduta da una
dichiarazione dell’esercito israeliano atta a giustificare i suoi crimini . Se
i media sono riusciti a desensibilizzarvi, ricordatevi che se si
accumulassero tutte le lacrime di tutte le famiglie che hanno avuto
almeno un membro ucciso, mutilato, annegato o imprigionato, quel fiume di
lacrime sommergerebbe la terra.
Nonostante questo lungo processo di
disumanizzazione, demonizzazione e pacificazione, e la conseguente repressione
israeliana, i manifestanti non si scoraggiano e continuano a manifestare
lungo la barriera. Per loro, la scelta rimane tra un inferno vivente o
una morte dignitosa. Vogliono disperatamente che il mondo metta a nudo
i crimini di Israele. Esprimono l’urgenza di una soluzione politica che
non si limiti ai confini di Gaza e alla fine dell’assedio, ma che comprenda la
richiesta del Diritto al Ritorno.
I Palestinesi chiedono anche una
competente leadership che sappia investire in questa resistenza popolare e nei
suoi sacrifici. Le chiedono di correggere il percorso che gli accordi di pace
di Oslo del1993 hanno contrassegnato con divisioni interne e marginalizzazione
delle questioni fondamentali della lotta anticoloniale, a favore di una
delirante autonomia su territori strutturati da bantustan (dove i Palestinesi
sono a tutti gli effetti funzionari dell’occupazione israeliana).
I Palestinesi si stanno sacrificando per
ricordare agli attori interni ed esterni che la nostra lotta anti-colonialista
riguarda la liberazione, non l’indipendenza. Questo era, è e continuerà ad
essere la natura della nostra lotta, nonostante quelle mani maledette che
tentano di ridefinirla e di distorcerla.
Shahd Abusalama è una studentessa della Sheffield Hallam University con
dottorato di ricerca sul cinema palestinese, nata e cresciuta nel campo
profughi di Jabalia, nella parte nord di Gaza, in Palestina. È artista,
attivista, autrice del blog My Eyes e co-fondatrice della Hawiyya Dance Company
con sede a Londra. Seguila su Twitter all’indirizzo @ShahdAbusalama.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù”
Invictapalestina.org
Fonte:
https://mondoweiss.net/2018/10/palestinians-holocaust-survivors/?fbclid=IwAR03q5TxicbInjN7RQDmNs0oQ9LCB82RCCuxvkdIgKHxTltj8xlC49gDpws
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