Kalamazoo è una cittadina del Michigan, quel Michigan una volta parte del
polmone produttivo del paese e ora rusted, arrugginito. Qui si producevano
auto, carta e ricavati, mulini, chitarre – è qui che fu fondata la Gibson, poi
trasferitasi al sud – e corsetti. All’inizio
del Novecento, quando le “donne per bene” si strizzavano in bustini
stretti stretti per avere una silhouette alla moda, la
Kalamazoo Corset Company era l’impresa più grande della città e il più grande
produttore di corsetti da donna al mondo. Fu anche il luogo del primo
grande sciopero delle lavoratrici nella regione di Kalamazoo.
Al suo
apice, la fabbrica produceva un milione e mezzo di corsetti all’anno e
impiegava più di ottocento
lavoratori, per lo più donne. Producevano corsetti con piume di
tacchino, e il colpo di genio dell’imprenditore fu usarne l’ossatura per la
costolatura invece delle stecche di balena. Facilità di reperire il materiale,
grande disponibilità, prezzi bassi, persino un anticipo di pensiero ecologico.
Le linee di corsetti erano disponibili in molti stili diversi e richiedevano 40
operazioni specializzate di produzione.
Il 2 marzo 1912 inizia uno sciopero indetto dalla
International Ladies Garment Workers Union (ILGWU). Bassi salari, lunghe ore di
lavoro e condizioni insalubri. E molestie sessuali. Le lavoratrici si lamentavano
delle continue molestie sessuali da parte dei capisquadra maschi. Il sindacato
mandò da New York Josephine Casey e altri per aiutare a organizzare i
lavoratori. Casey, che aveva lavorato a Chicago come bigliettaia sui tram e
aveva poi costituito un’organizzazione sindacale delle bigliettaie e era
passata a occuparsi delle lavoratrici di corsetti, parlando durante
un’assemblea disse: «Questa è una lotta per i nostri diritti e resterò qui fino
alla fine».
Iniziarono i picchetti – le operaie si misero davanti la fabbrica con slogan e cartelli, le
tensioni aumentarono – e il proprietario ottenne un ordine del tribunale per
fermarli. A quel punto gli scioperanti iniziarono “silent picketing”, picchetti silenziosi, oppure si mettevano
a pregare insieme. Ottennero così l’attenzione dei quotidiani
nazionali per questo modo insolito di picchettaggio. Poi, iniziarono a boicottare i prodotti
della Kalamazoo Corset Company. Il 30 marzo un corteo di millecinquecento
manifestanti sfilò per le strade della città dando sostegno allo sciopero.
Ripresero i picchetti e diverse persone furono arrestate e imprigionate,
inclusa Josephine Casey. A giugno, il nuovo sindaco progressista Hays insieme
al reverendo Puffer presentarono una proposta di compromesso ai lavoratori e il
15 giugno 1912 il contratto fu approvato dal sindacato. Non c’erano aumenti
significativi di salario, ma per le lavoratrici che richiedevano un trattamento
“giusto ed onesto” fu una
vittoria.
Perché raccontare la storia del primo sciopero delle
lavoratrici dei corsetti a Kalamazoo? Perché quel “silent pickening” è stato
ripreso dalle lavoratrici dei McDonald’s in sciopero pochi giorni fa, sfilando
con dei nastri di carta adesiva che attraversavano la bocca su cui avevano
scritto #metoo. Perché questo è l’altro elemento che ricorda oggi lo sciopero
di Kalamazoo: il fatto che queste lavoratrici sono scese in sciopero per
aumenti salariali e contro le molestie sessuali sul lavoro.
Intanto,
quest’anno l’Emmy Award per la miglior attrice nella categoria “comedy” è
andato a Rachel Brosnahan per il suo ruolo in The Marvelous Mrs. Maisel. La
serie, prodotta da Amazon, ha trionfato portandosi a casa le cinque statuette
più importanti (miglior serie tv, miglior attrice protagonista, miglior attrice
non protagonista, miglior sceneggiatura e migliore regia) – ovviamente, nella
categoria “drama” ha fatto man bassa di statuette Game of Thrones. Ritirando il
premio e ringraziando collaboratori e amici, Rachel Brosnahan ha incoraggiato
le donne a votare: «Una delle cose che amo di questo show è che parla di una
donna che sta cercando una sua nuova voce. E questo è qualcosa che sta
accadendo in questo momento dappertutto in questo paese. E uno dei modi più
importanti per trovare e usare la nostra voce è votare. Se non sei registrata,
prendi il cellulare e fallo adesso, e poi porta un’amica a iscriversi».
C’è questa
questione che sta pesando nel sistema di voto americano – oltre a una generale
disaffezione – che si chiama gerrymandering.
Viene dalla fusione di due termini, quello di “Gerry” e di “salamander”.
Elbridge Gerry fu un governatore del Massachusetts (1812) che per garantirsi la
rielezione ridisegnò il collegio elettorale secondo “pezzi” di popolazione a
lui favorevoli e escludendo quelli a lui sfavorevoli. Le linee di tale collegio
erano così irregolari e tortuose, da farlo sembrare a forma di salamandra. Per
capire che effetti produce, basta pensare che nella seconda elezione di Obama,
in cui si votava anche per il rinnovo di una parte della Camera dei
rappresentanti, i democratici ottennero una strettissima maggioranza nel voto
popolare – 48,8 contro 48,47 – ma i repubblicani ottennero una maggioranza di
35 seggi. In Pennsylvania, Obama superò Romney di cinque punti ma, nonostante
il grosso vantaggio del loro presidente, i democratici vinsero soltanto 5 dei
18 seggi in palio, mentre i repubblicani ne conquistarono 13. E risultati
simili, ci furono in Ohio, North Carolina e Michigan. Non che questa pratica
appartenga solo ai repubblicani: è un potere delle assemblee legislative dei
singoli Stati. Obama si è più volte espresso contro il gerrymandering. L’unico
ostacolo al gerrymandering è il Voting Rights Act, una delle leggi fondamentali
contro la segregazione razziale, approvata nel 1965. In particolare, due commi
sono importanti: il primo obbliga gli Stati che hanno avuto un passato segregazionista
a sottoporre a revisione ogni modifica dei collegi elettorali, mentre il
secondo consente a ogni cittadino di appellarsi nel caso che un cambiamento dei
confini causi una diluizione del voto delle minoranze (dividendo, a esempio, un
quartiere a maggioranza afroamericana in vari collegi a maggioranza bianca).
Intanto, il 18 settembre le lavoratrici del
McDonald’s hanno indetto un giorno di sciopero contro le molestie sessuali sul
luogo di lavoro. Sono state coinvolte ben dieci città (Chicago, Kansas City,
St. Louis, Los Angeles, Miami, Milwaukee, New Orleans, Orlando, San Francisco e
Durham). A sostenerle, l’associazione Fight for $15 (la richiesta di paga
oraria minima), la Women’s March e altre.
Prima dello
sciopero erano state presentate 25 denunce di molestie alla Commissione per le
pari opportunità (EEOC), completamente ignorate dai vertici di McDonald’s. I’m not in the menu, Non sono nel menù,
è lo slogan utilizzato durante la protesta: le lavoratrici non sono merce in
vendita, “molestabile”. Nel manifesto di convocazione dello sciopero è
scritto:
«McDonald’s
vorrebbe essere una “azienda di hamburger progressista” – ma ha fallito
nell’affrontare l’accusa di molestie sessuali nei suoi punti vendita da parte
delle lavoratrici. Palpeggiamenti.
Commenti volgari. Proposte di sesso. E quando le lavoratrici hanno
denunciato i comportamenti inappropriati, la direzione non ha detto nulla – o,
ancora peggio, le ha licenziate e
si è vendicato. Siamo solidali con le lavoratrici che stanno lottando a livello
nazionale il 18 settembre e affermiamo:
È tempo
di applicare le regole dell’azienda che proibiscono le molestie sessuali.
È tempo di portare avanti corsi di formazione obbligatori per i dirigenti e i dipendenti sulle molestie sessuali.
È tempo di ascoltare i lavoratori e difendere i gruppi per assicurarsi che nessun* lavoratore/lavoratrice di McDonald’s subisca molestie sessuali sul posto di lavoro».
È tempo di portare avanti corsi di formazione obbligatori per i dirigenti e i dipendenti sulle molestie sessuali.
È tempo di ascoltare i lavoratori e difendere i gruppi per assicurarsi che nessun* lavoratore/lavoratrice di McDonald’s subisca molestie sessuali sul posto di lavoro».
Intanto,
altre due donne, Deborah Ramirez e Julie Swetnick, hanno accusato di molestie
sessuali, durante gli anni dell’high school, Brett Kavanaugh, il giudice
che Trump vuole alla Corte
Suprema. E giovedì Christine Blasey
Ford, la donna che per prima ha accusato Kavanaugh, è comparsa davanti
alla Commissione giustizia del Senato dicendo poche parole: «I am here today
not because I want to be. I am terrified – Sono qui oggi non perché lo voglia.
Io sono terrorizzata».
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