Uno dice
Italia, Europa, Occidente. E pensa alla libertà, alle libertà, alla democrazia,
ai diritti.
Uno pensa ai
risultati raggiunti in anni di lotte sociali, di conquiste civili, di sviluppo
del welfare. Uno pensa alla cultura. E persino al bello per il bello. Il bello
non funzionale che a sé stesso e alla gioia dello spirito. Uno pensa… Ma da
lontano.
Da lontano la
percezione del nostro Paese è ancora dorata e accattivante. Una specie
di sogno ad occhi aperti. In questa parte del mondo, l’Africa, smaliziati lo
sono ormai in molti. Sono in molti che sanno che raggiungere il sogno non è
permesso per vie legali, che si rischia di morire nel deserto. Oppure di essere
torturati e schiavizzati in Libia. Oppure, ancora di annegare nel Mediterraneo.
Quello che ancora non arriva – almeno non ai giovani con cui ho parlato – è
l’odio, il rancore, la cattiveria, la bugia.
Il degrado dell’Italia, dell’Europa, dell’Occidente non fa
ancora parte della narrazione popolare, rimane ancora un racconto tra
intellettuali. Il resto continua a sognare di un mondo civile, attento ai
bisogni, quelli dei suoi cittadini e nello stesso modo di coloro che arrivano
da altrove.
È dura – da questa
parte del mondo – accettare che non è così. Non è più così. È dura rispondere a
chi ti chiede come una sola persona possa tenere in scacco il Paese. E tu ti
ritrovi a pensare che “magari fosse così”. Non c’è mai una singola persona, non
esisterebbe mai una singola persona se dietro non ci fosse un pensiero profondo
e formato, se dietro non ci fosse una massa che la pensa allo stesso modo, se
non fosse stata la stessa società a crearlo, volerlo, acclamarlo.
Un tempo questa parte del mondo – l’Africa Sub-Sahariana
– era chiamato Terzo Mondo.
Un mondo di divisioni, contrasti, paure, odi tribali, ignoranza, bisogni,
povertà, mancanza di stato di diritto. Un mondo da ricostruire. Proprio come da
noi oggi dove tutto crolla.
Dove molto è già andato distrutto.
Dove le forze dell’ordine hanno ora la facoltà di
torturare, dove la scuola ha già da tempo, nella maggior parte dei casi,
abdicato – per mezzi e risorse (anche umane) – al ruolo di formare i giovani,
di sviluppare in loro uno spirito critico e indipendente. Dove l’educazione e
la conoscenza non sono più un merito, ma quasi una condizione di disagio
nel mare sporco dell’ignoranza crassa, e
della mancanza di istruzione sbandierate senza vergogna. Anzi, come una
medaglia.
Dove si decide, ci si diverte, si gioca sul corpo delle donne. (Nemmeno
in quel Terzo Mondo lì avveniva).
Dove la
povertà – a dispetto di annunci mirabolanti – avanza e continuerà ad avanzare
grazie a politiche fiscali, carenza di investimenti, privilegi delle caste,
decisioni insensate.
Dove ad avanzare è anche l’altro aspetto della
povertà, più dannoso ancora per un Paese e il suo futuro: la povertà di pensiero, di mezzi, di
capacità di guardare lontano.
È uno spirito
povero quello che soffia sul Paese, quello che si respira. Uno
spirito povero e maligno. Senza contenuto ma con tante parole insane. Il vuoto.
Oppure il pieno di niente. Un niente che
mette in pericolo tutto, il futuro come la democrazia.
Un Rapporto del 2017 a cura dell’Economist Intelligence Unit ha messo in luce
la recessione democratica che
sta interessando tutti i Paesi del mondo. Dei 167 Paesi 89 erano in regressione
democratica e solo 27 in progressione. Meno del 5% della popolazione mondiale
vive in “piena democrazia”. Attenzione, non riguarda solo l’Africa, o la Russia
o la Cina – campione di crescita economica e di distruzione ambientale e dei
diritti. Attenzione, perché gli elementi che generano il crollo della
democrazia, in Italia – che già nel Rapporto non era un Paese “pienamente
democratico” – ci sono tutti. E quelli che ancora non ci sono stanno arrivando
sotto forma di decreti, di normative e di autorizzazioni
morali – e di fatto – da parte di chi sta (s)governando il Paese.
Secondo Freedom House nel
2006 il 46% della popolazione mondiale viveva in Paesi in cui erano rispettate
e garantite la competizione politica, le libertà individuali e civili e
l’indipendenza dei media e dei giornalisti. Nel 2018 la proporzione
sarebbe scesa al 39%. Ad essere peggiorato non è il continente sub-sahariano.
Ad essere peggiorata è l’Europa, l’Occidente.
No, in Italia – per restare nel nostro Paese – non si
mettono in carcere i giornalisti. Non ancora. In Italia una classe dirigente da
quinta elementare ma eccellente nella comunicazione
viscerale dei social zittisce i media con la bugia, con le parole
grosse, con le campagne d’odio e di fake news. Ma non lamentiamoci, è il popolo che lo vuole. Al
popolo piace. Il popolo si eccita al rumore delle urla.
È questo il Terzo mondo. Non occorre un machete tra le
mani, abbiamo il taser. Non occorre uccidere o incarcerare i giornalisti
dissidenti. Abbiamo i social. Non occorre colpire gli intellettuali. Sono
talmente pochi che finiranno per estinguersi da soli. Non occorre che le istituzioni
internazionali ci diano il marchio di poveri e in bisogno, ci stanno pensando i
nostri capi – pardon capitani – ad affamarci sia culturalmente che
finanziariamente. E non importa che – facciamo l’ONU – lamenti che siamo in
guerra civile. Ufficialmente non è prevista guerra civile senza armi. Eppure,
ormai siamo armati fino ai denti.
Perso il
senso del bello, persa la cultura, la capacità di capire e accogliere, persa
l’idea della nazione e persa anche la gioia e l’allegria, l’Italia crolla. E quel Mediterraneo – per tornare
ai dialoghi avuti con giovani africani e dove il capriccio popolare ha
cominciato a mostrare la sua nullità – diventerà la sua dannazione.
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