Quasi simile a un trapezio scaleno con un’area
immensa: il vertice
superiore destro quasi a sfiorare l’arcipelago tunisino di Kerkenna; quello
sinistro, la grande isola greca di Creta. Si
tratta della neonata Regione Marittima Lybia SAR, l’area di competenza
delle assai poco riconosciute e credibili autorità politiche e militari libiche
per gli interventi di ricerca, soccorso e salvataggio dei naufraghi e di tutte
le persone in situazioni di pericolo in mare. Un
immenso buco nero del Mediterraneo dove oggi possono affogare in tantissimi
perché mancano gli strumenti e i mezzi per intervenire efficacemente e in tempi
rapidi o perché con infame cinismo l’Europa ha scelto di non vedere, non
sentire e non parlare, affidando all’inaffidabile partner africano la sporca
guerra ai migranti e alle migrazioni. Una grande fossa comune sommersa
dove seppellire sotto le acque o rendere del tutto invisibili migliaia di
sorelle e fratelli in fuga dai crimini della globalizzazione (guerre, genocidi,
catastrofi ambientali, fame, ecc.).
L’inferno SAR di Tripoli su mandato del governo
italiano
Dallo scorso
mese di luglio, le “autorità” libiche, col supporto dell’Unione Europea, hanno
ufficialmente preso possesso di una grande area di mare antistante le proprie
coste per le operazioni di ricerca e salvataggio SAR (Search and Rescue). In quest’area è oggi Tripoli a
coordinare le risposte di pronto intervento alle richieste di soccorso,
oltre a assicurare il personale e i mezzi perché i migranti possano raggiungere
un “porto sicuro” (nei fatti, però, si tratta di una vera e propria
deportazione manu militari dei richiedenti asilo verso le città costiere e i
lager-hotspot sparsi in tutto il paese nordafricano).
La Libya Maritime SAR Region non è altro che
un’immensa riserva di caccia delle imbarcazioni dirette verso il sud Italia o
la Grecia con a bordo coloro che cercano protezione umanitaria e asilo nella sempre meno democratica
ed accogliente Unione europea. Le attività di identificazione e istituzione
della zona SAR sotto controllo libico erano state affidate nel 2016 dalla
Commissione europea alla Guardia Costiera italiana. Già nel giugno 2018 in
Italia era però trapelata la notizia che il Centro Nazionale di Coordinamento
del Soccorso Marittimo della Guardia Costiera di Roma (IMRCC) avesse “delegato”
alle autorità marittime libiche lo svolgimento delle funzioni competenti nella
zona SAR nazionale, con l’avviso che “i comandanti di nave che si trovano
in mare nella zona antistante la Libia, dovranno rivolgersi al Centro di
Tripoli ed alla Guardia costiera libica per richiedere soccorso”. Sino ad allora,
il controllo sulla sua zona SAR era stato esercitato in forma assai limitata
dalle unità fedeli al governo libico, con il coordinamento e il supporto
tecnico della Marina Militare Italiana.
A fine agosto, la ministra della difesa
pentastellata Elisabetta Trenta, nel corso di un’audizione in Commissione parlamentare, ha fornito i primi dati sulle operazioni
SAR condotte autonomamente dai libici. “Esse hanno consentito
nell’ultimo anno il recupero di circa
9.000 migranti in oltre 70 interventi”, ha dichiarato la ministra.
Dati che nonostante l’enfasi del governo appaiono assai poco significativi,
considerato il gran numero di rifugiati che attendono di lasciare la Libia per
l’Europa e che presumibilmente hanno già tentato in qualche modo di attraversare
il Mediterraneo (secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni –
OIM sono 662.000 i migranti presenti nel paese nordafricano, mentre 152.000
sono i richiedenti asilo registrati come tali dall’Agenzia dei Rifugiati delle
Nazioni Unite – UNHCR). I 9.000 migranti che Elisabetta Trenta dice essere
stati soccorsi dai libici sono comunque ben
al disotto del numero delle persone soccorse nelle stesse acque dalle tanto
vituperate organizzazioni non governative (ONG). Il tutto collide poi con quanto
denunciato a fine 2017 da Amnesty International; l’organizzazione
internazionale per la difesa dei diritti umani ha stimato infatti in circa
200.000 i migranti intercettati in mare dalla Guardia costiera libica e
successivamente “trasferiti” nei famigerati centri di detenzione del paese.
Difficile
pensare che non siano gli stessi campi detentivi la destinazione finale delle
persone che nella neo-costituita area SAR sono oggi “soccorse” dalle unità
libiche, quelle che, va ricordato, sono state fornite, equipaggiate, addestrate ed armate dai militari e
dalle forze di polizia italiani. Nei campi
di “prima accoglienza” gestiti dalle agenzie dell’Onu in
Tripolitania sono già giunti dal gennaio 2018 oltre 13.000 “migranti illegali”,
mentre solo nell’ultimo anno dall’aeroporto di Tripoli sono state rimpatriate
oltre 30.000 persone in fuga dall’Africa sub-sahariana. In Libia, il locale
Dipartimento per il controllo dell’immigrazione illegale gestisce direttamente
una ventina di centri d’accoglienza, mentre non è noto il numero dei centri non
ufficiali gestiti da soggetti privati, organizzazioni criminali o dalle stesse
milizie che si contendono il territorio. Comunque tutte strutture infernali dove omicidi, stupri,
torture e violazioni dei più elementari diritti umani sono all’ordine del
giorno, come testimoniano tragicamente i report delle maggiori organizzazioni
governative e delle ONG. Anche ai programmi di lagerizzazione e
detenzione dei migranti giunti in Libia non fanno mancare il loro sostegno le
autorità italiane. Qualche settimana fa il ministro plenipotenziario Matteo
Salvini ha riferito alle Camere che “grazie alla decisiva attività svolta dal
Governo italiano” è stato realizzato a Tripoli un centro destinato ad ospitare
entro la fine dell’anno sino ad un migliaio di persone. La struttura, bontà
italica, stando a Salvini sarebbe “dotata di cliniche, centri sportivi e
assistenza psicologica”. Sono pure al via alcuni costosi progetti di
(mala)cooperazione ie (mala)accoglienza migranti in Libia: il 15 luglio 2018, ad
esempio, è stato firmato a Bruxelles un accordo tra l’Agenzia italiana per la
cooperazione allo sviluppo (Aics) del Ministero Affari Esteri e la Commissione
europea che prevede lo stanziamento di 50
milioni di euro circa a favore di 24 municipalità libiche per l’assistenza ai migranti ivi ospitati e per
“rispondere ai bisogni primari della popolazione civile, come sanità,
educazione, acqua, energia e piccole infrastrutture”. Quasi la metà dei fondi
stanziati (22 milioni) saranno gestiti in
prima persona dalla Cooperazione italiana e da quelle ONG che si
sono rese disponibili a operare in Libia per l’implementazione dei centri
detentivi.
La delega
Ue-Italia delle operazioni SAR alla Libia all’interno di un’immensa area
marittima e lo scarsissimo numero (e le stesse caratteristiche tecniche) dei
mezzi aeronavali a disposizione delle autorità di Tripoli possono certamente
spiegare come mai, nonostante la riduzione delle partenze di imbarcazioni con
migranti, si sia assistito all’escalation
delle morti nel Mediterraneo centrale. Un
recente rapporto pubblicato dal ricercatore Matteo Villa dell’Istituto per gli
Studi di Politica Internazionale (ISPI) ha rilevato come il tasso di mortalità
dei migranti in mare nel settembre del 2018, in rapporto al numero delle persone
partite, sia stato il più alto mai registrato negli ultimi anni: il 19,1% di
chi è partito dalla Libia è risultato, infatti, morto o disperso. Sempre
secondo Villa, almeno 867 migranti sono morti o risultano dispersi negli ultimi
quattro mesi, da quando cioè il nuovo governo si è insediato a palazzo Chigi e
ha messo in pratica la chiusura
dei porti alle navi delle organizzazioni non governative e una
politica definita dal ricercatore di “deterrenza totale”. Sempre sul fronte dei
morti e dei dispersi in mare, prendendo in considerazione congiuntamente la
rotta tunisina e quella libica, lo studio elaborato da ISPI mostra come si sia
passati nel solo Mediterraneo centrale da una media di 3,2 morti al giorno nel
periodo che ha visto ministro dell’Interno Marco Minniti, agli 8,1 morti al
giorno da quando sono entrate in vigore le politiche di Matteo Salvini. E
ancora, nel settembre 2018 solo il 10% dei migranti partiti dalla Libia è
riuscito ad arrivare in Europa sano e salvo, mentre il 70% è stato intercettato
dalle motovedette libiche e riportato indietro nel paese nordafricano.
E Tripoli è ancora il nostro bel suol d’amor
Intanto l’Italia continua a recitare la parte
di piccola potenza neocoloniale in terra libica. Dall’inizio del gennaio 2018, la presenza delle
forze armate italiane è stata potenziata in uomini, mezzi e funzioni
nell’ambito della Missione bilaterale di assistenza e supporto (MIASIT) al
Governo di accordo nazionale di Fayez Serraj. La “nuova” missione, secondo il
portavoce della Difesa, ha l’obiettivo di “rendere l’azione di assistenza e
supporto in Libia maggiormente incisiva ed efficace, sostenendo le autorità
libiche nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel
rafforzamento delle attività di controllo e contrasto dell’immigrazione
illegale, dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, in armonia con
le linee di intervento decise dalle Nazioni Unite ”. Stando a quanto
riferito alle Camere dalla ministra Trenta, la “Missione bilaterale di
assistenza e supporto in Libia ha lo scopo di fornire assistenza e
supporto al Governo di intesa nazionale libico ed è frutto della
riconfigurazione, in un unico dispositivo, delle attività di supporto sanitario
e umanitario previste dall’Operazione Ippocrate e di alcuni compiti di supporto
tecnico e di manutenzione a favore della Guardia costiera libica rientranti
nell’Operazione Mare Sicuro”. L’assistenza militare italiana a favore delle
autorità di Tripoli si è sviluppata sin dalla fine della guerra USA-NATO del
2011. Attualmente sono schierati nel
paese africano 400 militari con 130 mezzi terrestri e un velivolo aereo;
a Misurata è operativa la missione “sanitaria” dell’Esercito con un ospedale da
campo con 30 posti letto (ex Operazione Ippocrate), mentre la Marina opera ad
Abu Sittah, il porto militare di Tripoli, dove coordina le operazioni della
Guardia costiera libica equipaggiata con motovedette donate dall’Italia. Tra le
novità più rilevanti della partnership italo-libica 2018 spicca l’invio di
istruttori e consiglieri militari per addestrare le milizie fedeli al governo
per un costo fino al 30 settembre di 35 milioni di euro. La scelta della Difesa
è caduta sugli istruttori del 2°
Reggimento San Marco, unica unità specializzata nelle operazioni di
interdizione marittima con capacità assalto ogni tempo. Il contingente inviato
in Libia è composto da 151 fanti di Marina e da due unità cinofile
addestrate alla difesa delle installazioni e alla ricerca esplosivi. Intanto
proseguono in Italia e nel paese africano le attività addestrative della
“nuova” Guardia costiera libica: sino ad oggi sono già stati “formati” oltre
220 addetti. Presso il Comando della Marina Militare di Brindisi sono stati avviati
invece i corsi d’indottrinamento anfibio per il personale della marina libica
addetto alla gestione delle frontiere e dell’immigrazione ed alla lotta al
traffico di migranti, a seguito di un accordo tecnico firmato il 23
novembre 2017 tra il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione
Internazionale (MAECI) ed il Ministero della Difesa. I corsi hanno
una durata di sei settimane e vedono il personale libico impegnato in
esercitazioni presso la sede della Brigata Marina San Marco e in
alcune aree addestrative limitrofe (Torre Cavallo, Massafra, San Vito dei
Normanni, ecc.). Ulteriori attività “formative” per le forze armate libiche
sono in corso presso le installazioni della Marina militare nell’isola de La Maddalena, Sardegna.
Nel porto di
Tripoli si alternano periodicamente le navi ausiliarie della Marina Militare
italiana destinate alle “attività di ripristino dell’efficienza di mezzi navali
libici” avviate nel luglio 2017 e che hanno già consentito di riparare sei
unità della Marina e tre della Guardia costiera libiche, “consentendo di
incrementare la capacità della forze marittime nel contrastare i traffici
illeciti e la tratta di esseri umani nelle aree di propria responsabilità”. La
manutenzione delle motovedette della Guardia costiera viene realizzata da un
gruppo di tecnici a bordo della nave officina della Marina Militare Caprera.
L’unità svolge anche compiti di coordinamento tra le forze navali libiche e
quelle italiane ed europee per la ricerca e soccorso (SAR). Relativamente alle
attività della nave Caprera, lo scorso mese di maggio l’ammiraglio Donato
Marzano, Comandante in Capo della Squadra Navale, aveva spiegato che
l’imbarcazione “fornisce il contenitore (computer, radio, capacità satellitari)
che consente agli ufficiali libici di gestire le loro navi” che poi si
interfacciano per le operazioni SAR con il Centro di Coordinamento del Soccorso
Marittimo italiano. “Noi stiamo consentendo ai libici di esercitare il comando
e controllo sulle navi che stanno andando per mare e li aiutiamo a coordinarsi
autonomamente con l’MRCC italiano”, aveva aggiunto Marzano. “L’obiettivo finale
è fare in modo che i libici gestiscano la propria aerea SAR come Stato
sovrano, con un proprio Libyan MRCC, la cui realizzazione vede il sostegno
dell’Unione europea”. Per la cronaca, la nave-officina
Caprera è quell’imbarcazione che un mese fa la troupe televisiva de
Le Iene ha scoperto essere stata utilizzata per effettuare il contrabbando di
circa sette quintali di sigarette.
Come abbiamo
visto, alcune delle attività di addestramento del personale militare libico in
funzione anti-migrazione e di supporto tecnico alla Guardia Costiera e alla
Marina Militare nazionale, viene svolta nell’ambito di Mare Sicuro, l’operazione avviata
dalle forze armate italiane nel marzo 2015 e che prevede lo schieramento di un
dispositivo navale con missione di presenza, sorveglianza e sicurezza marittima
nel Mediterraneo centrale. Le unità d’altura incluse nel dispositivo aeronavale
operano in un’area di mare di circa 160.000 km quadrati, “assicurando la tutela
degli interessi nazionali, la protezione delle linee di comunicazione e delle
navi commerciali in transito, la protezione delle fonti energetiche strategiche
e la sorveglianza dei possibili movimenti delle formazioni jihadiste, ecc.”.
Anche Mare Sicuro ha visto quest’anno
una crescita del numero degli effettivi e dei mezzi impiegati rispetto al 2017: da 700 a 745 militari e da cinque a
sei navi, mentre sono sempre cinque i velivoli aerei per una spesa complessiva
nei primi nove mesi del 2018 di 63,4 milioni di euro (66,78 milioni il costo
dell’operazione in tutto il 2017). Alle attività connesse con l’Operazione Mare
Sicuro nel “controllo e contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di
esseri umani, in supporto alle attività di ricerca e soccorso in mare (SAR)”
partecipano con sempre maggiore frequenza gli equipaggi del 41° Stormo Antisom
dell’Aeronautica Militare di stanza nella base siciliana di Sigonella, con il nuovo
pattugliatore marittimo ognitempo P-72A.
A ciò si
aggiunge la fornitura alle forze armate libiche di mezzi navali da impiegare
per la guerra ai migranti e alle migrazioni. L’onnipresente
ministro Salvini ha reso noto che l’Italia fornirà presto alla Guardia costiera
di Tripoli 12 motovedette, in aggiunta alle 10 già donate l’anno scorso dal
governo Gentiloni-Minniti, anche se in realtà, queste ultime erano già
state consegnate al regime di Gheddafi dall’allora governo Berlusconi e, dopo
il conflitto del 2011, erano state oggetto di riparazioni nei cantieri navali
di Italia e Tunisia. Le unità destinate alla Libia dal governo Conte-Salvini
potrebbero essere le piccole “Classe 300” attualmente schierate a Pantelleria e
Lampedusa: anche esse dovrebbero operare dal porto di Abu Sittah dopo uno
specifico addestramento del personale locale da parte italiana. Nell’ultimo anno è stato ampliato anche
l’intervento della Guardia di Finanza a favore della Guardia costiera libica:
il numero degli addetti militari è passato da 25 nel 2017 a 35 nel 2018, a cui
si aggiunge un mezzo navale, per un costo complessivo di 1,6 milioni per l’anno
in corso. Nel 2017, le operazioni della Guardia di Finanza in Libia e le
riparazioni delle motovedette poi girate ai libici avevano comportato una spesa
di quasi 3 milioni di euro.
Nelle scorse
settimane, gli specialisti dell’Aeronautica
Militare si sono incaricati della fornitura di ricambi e
dell’assistenza tecnica a favore degli avieri libici per rimettere in
condizioni di volo i cargo militari C-130H “Hercules” basati nell’aeroporto di
Mitiga, lo stesso che è stato recentemente al centro di violenti scontri tra
opposte fazioni. Di particolare rilevanza quanto accaduto invece a fine 2017,
quando un team di istruttori e mezzi terrestri italiani è stato inviato nel sud
del paese per addestrare le guardie di confine. Contemporaneamente il Comando
operativo interforze dello Stato Maggiore della Difesa e il genio
dell’Esercito, in coordinamento con il Dipartimento centrale dell’Immigrazione
e il supporto finanziario dell’Unione europea, hanno effettuato i primi
sopralluoghi a Ghat, nella
Libia sud-occidentale al confine con Algeria, Niger e Ciad, in vista di una
prossima missione multinazionale UE e/o NATO nella vasta regione del Fezzan,
particolarmente interessata dalle principali rotte migratorie africane e dove
le centrali d’intelligence occidentali avrebbero segnalato la presenza di
“miliziani dello Stato Islamico”. Nel corso della missione a Ghat, i militari
italiani avrebbero individuato le infrastrutture da riadattare in caserme dove
addestrare le guardie di frontiera libiche per presidiare i cinque valichi
“utilizzati dai trafficanti di esseri umani”. Ancora una volta è il ministro
Matteo Salvini a spingere sull’acceleratore per implementare il progetto
suddetto: in un suo recente intervento, ha auspicato la creazione di una
missione boots on the ground nelle aree ai confini sud della Libia sotto la
direzione NATO, con tanto di veri e propri hotspot
per migranti da collocare in corrispondenza delle frontiere
esterne. L’ipotesi vedrebbe il favore del Pentagono e dello stesso presidente
USA Donald Trump che vorrebbero poi estendere l’intervento e i campi-lager
anche in Niger, Mali, Ciad e Sudan.
In Tunisia e Niger le nuove (dis)avventure
neocoloniali in territorio africano
Parallelamente sta crescendo l’impegno militare
italiano in Tunisia, anch’esso
in nome della lotta all’immigrazione “irregolare” e al traffico di migranti. Il
23 luglio 2018, la ministra della difesa Elisabetta Trenta si è recata in
visita a Tunisi per “accrescere il supporto al controllo degli spazi
marittimi e la gestione delle emergenze”, così come riportato dalla nota
stampa del ministero. “Per l’anno in corso la commissione bilaterale
italo-tunisina ha messo sul tavolo diverse attività: operazioni militari e di
sicurezza, con un’enfasi particolare orientata alla sicurezza
marittima in termini di condivisione delle informazioni, della conoscenza
dell’ambiente marino e di prevenzione e di gestione degli incidenti in mare”.
Nell’ambito della cooperazione militare bilaterale, va segnalato che a fine
ottobre 2017 si è tenuta nelle acque settentrionali del paese africano
l’esercitazione congiunta Oasis 17 di ricerca e soccorso marittimo
(SAR), sorveglianza e controllo del traffico mercantile, contrasto alle
attività illegali via mare e ricerca e rimozione di ordigni rinvenuti sul
fondale marino, interoperabilità e integrazione multinazionale delle due forze
armate.
In Tunisia,
l’Italia dovrebbe prendere parte dai primi mesi del 2019 ad una nuova missione
multinazionale sotto il comando della NATO finalizzata a “costituire un comando
interforze per la contro insurrezione e la lotta al terrorismo”. Previsto
l’invio di una task force di 50-60 unità, con funzioni similari a quelle già in
atto in Libia: addestramento, consulenza, assistenza e supporto delle forze
armate e di sicurezza tunisine, in particolare nelle attività di controllo
delle frontiere. Previsto anche l’invio di un mezzo aereo, mentre il costo
annuale dell’operazione dovrebbe sfiorare i 5 milioni di euro. Il governo di
Tunisi è divenuto uno dei più attivi partner della NATO; in particolare ha
partecipato a numerose esercitazioni dell’Alleanza atlantica nel Mediterraneo,
mentre tanti ufficiali tunisini sono ospiti dei corsi di “formazione” del NATO
Defense College di Roma. “Parte vitale della partnership tra la NATO e le forze
armate della Tunisia è l’Allied Joint Force Command – JFC Naples, il Comando
congiunto con sede a Lago Patria, Napoli”, spiega il portavoce delle forze
alleate.
Nelle aree di confine con la Libia, le forze armate
tunisine hanno già realizzato un profondo fossato di circa 200 km da Ras Jedir
a Dahiba, per ostacolare le incursioni di uomini e mezzi dal paese confinante
e, ovviamente di migranti. Secondo quanto trapelato in Germania lo scorso anno, il governo di
Angela Merkel avrebbe finanziato Tunisi per realizzare nella stessa area di
frontiera un sistema di sorveglianza elettronico e osservazione mobile “contro
le incursioni degli estremisti e dei migranti”, per un valore complessivo di 16
milioni di euro. Questo progetto sarebbe anche supervisionato dalle forze
armate USA, in particolare dalle unità di US Army Africa (USARAF), il Comando
per le operazioni dell’esercito statunitense nel continente africano di stanza
a Vicenza. US Army Africa ha pure stretto un rapporto di collaborazione con il
Centro di formazione d’eccellenza dell’esercito della Tunisia, con scambi di
personale e corsi nel paese africano e nelle maggiori installazioni
dell’esercito statunitense in Veneto e in Germania.
Sempre in merito all’intervento militare neocoloniale anti-immigrazione dell’Italia nel continente africano, da segnalare che il 20 settembre 2018 è definitivamente partita la “Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger – MISIN”, con area geografica di intervento allargata anche a Mauritania, Nigeria e Benin, e che prevede inizialmente una presenza nel paese di 120 militari (Esercito, Aeronautica e Arma dei Carabinieri), per poi giungere a 470 entro la fine dell’anno, più 130 mezzi terrestri e due mezzi aerei. Il Governo Conte (era però stato il precedente governo Pd a guida Gentiloni a programmare l’intervento MISIN) ha autorizzato formalmente la missione “al fine di incrementare le capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area e il rafforzamento delle capacità di controllo del territorio da parte delle autorità nigerine e dei Paesi del G5 Sahel (Niger, Mali, Mauritania, Ciad e Burkina Faso). L’operazione MISIN verterà principalmente nell’addestramento delle forze di sicurezza locali (forze armate, gendarmeria nazionale, guardia nazionale e forze speciali) e per “concorrere alle attività di sorveglianza delle frontiere e allo sviluppo della componente aerea”. Rilevante per comprenderne finalità geostrategiche e catene di comando, il fatto che le unità italiane opereranno inizialmente all’interno della base militare USA realizzata alla periferia della capitale Niamey.
Sempre in merito all’intervento militare neocoloniale anti-immigrazione dell’Italia nel continente africano, da segnalare che il 20 settembre 2018 è definitivamente partita la “Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger – MISIN”, con area geografica di intervento allargata anche a Mauritania, Nigeria e Benin, e che prevede inizialmente una presenza nel paese di 120 militari (Esercito, Aeronautica e Arma dei Carabinieri), per poi giungere a 470 entro la fine dell’anno, più 130 mezzi terrestri e due mezzi aerei. Il Governo Conte (era però stato il precedente governo Pd a guida Gentiloni a programmare l’intervento MISIN) ha autorizzato formalmente la missione “al fine di incrementare le capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area e il rafforzamento delle capacità di controllo del territorio da parte delle autorità nigerine e dei Paesi del G5 Sahel (Niger, Mali, Mauritania, Ciad e Burkina Faso). L’operazione MISIN verterà principalmente nell’addestramento delle forze di sicurezza locali (forze armate, gendarmeria nazionale, guardia nazionale e forze speciali) e per “concorrere alle attività di sorveglianza delle frontiere e allo sviluppo della componente aerea”. Rilevante per comprenderne finalità geostrategiche e catene di comando, il fatto che le unità italiane opereranno inizialmente all’interno della base militare USA realizzata alla periferia della capitale Niamey.
Flotte UE e NATO in guerra contro i migranti
Il 20 giugno
2016 il Consiglio Europeo ha rinforzato il mandato di EUNAVFOR MED, la
forza aeronavale dell’Unione europea attivata per monitorare il Mediterraneo
centrale e concorrere alle operazioni di blocco dei flussi di migranti dalle
coste nordafricane all’Italia e alla Grecia. Alla soprannominata Operazione Sophia sono stati
aggiunti altri compiti di supporto: l’addestramento della Guardia costiera e
della Marina militare libica; lo scambio di informazioni e intelligence con il
governo di Tripoli; il “contributo all’embargo marittimo delle armi dirette alla Libia”
in accordo alla risoluzione delle Nazioni Unite 2292 del 2016. Oggi sono 26 i Paesi dell’Unione europea
che contribuiscono alla missione, il cui mandato scade formalmente alla
fine dell’anno, ma che prevedibilmente sarà prorogato almeno sino al dicembre
2019. L’Italia fornisce il contributo maggiore alla missione con 470
militari, un mezzo navale e due mezzi aerei; il Quartier Generale di EUNAVFOR
MED – Sophia è situato inoltre all’interno dell’aeroporto militare di Roma
Centocelle, mentre dal 1° febbraio 2018 l’unità da trasporto anfibio “San
Giusto” ha assunto il compito di nave-comando dell’operazione. A
consolidare il ruolo chiave del nostro paese nelle attività aeronavali UE anche
l’utilizzo dello scalo di Sigonella come Forward Operating Base (Base Operativa
Avanzata) di EUNAVFOR MED. Dalla grande stazione aeronavale siciliana (già a
disposizione delle forze armate USA e NATO) operano infatti gli assetti
stranieri impiegati dall’Operazione Sophia e provenienti da Danimarca, Francia,
Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Lussemburgo, Olanda, Polonia, Portogallo,
Spagna e Svezia. Al personale del 41° Stormo dell’Aeronautica Militare italiana
di Sigonella sono state assegnate le funzioni di “supporto di tutte le
operazioni a terra di accoglienza e ricovero degli equipaggi, dal rifornimento
di carburante, al servizio meteorologico, al controllo del traffico aereo, alla
sicurezza delle infrastrutture”. Dal
settembre 2013, tra gli assetti internazionali operativi a Sigonella ci sono
pure i contingenti aerei di Frontex/Triton, con lo scopo di coordinare il
pattugliamento delle frontiere degli Stati membri e “favorire gli accordi per
la gestione dei migranti”. Sempre per monitorare le acque del
Mediterraneo e le imbarcazioni con migranti in rotta verso le coste dell’Italia
meridionale, a partire del marzo 2014 l’Aeronautica Militare ha rischiarato a
Sigonella alcuni velivoli a pilotaggio remoto “Predator” provenienti dalla base
aerea di Amendola (Foggia); per gestire le operazioni dei droni, il 10 luglio
2017 è stato attivato nella base siciliana il 61° Gruppo Volo AMI. Questi
velivoli si interfacceranno con l’AGS (Alliance Ground Surveillance), il
sistema di sorveglianza terrestre in via di implementazione da parte della
NATO, basato sui droni-spia “Global Hawk” di ultima generazione. Nella stazione
di Sigonella saranno installati il comando e i cinque droni AGS, più le
componenti dell’Alleanza che si dedicheranno alla manutenzione dei velivoli,
all’analisi e diffusione dei dati raccolti e all’addestramento del personale
multinazionale operativo.
I mezzi
impiegati nell’operazione EUNAVFOR MED/Sophia si coordinano con le
attività delle unità NATO presenti nel Mediterraneo. In particolare per
“assicurare maggiori sinergie e sfruttare le peculiarità di ciascuna organizzazione”,
è stata avviata la partnership con la NATO Sea Guardian, l’operazione
varata al summit dell’Alleanza Atlantica di Varsavia del luglio
2016 e operativa dal novembre dello stesso anno grazie a dieci paesi alleati
che forniscono unità navali, aerei e sottomarini. Sea Guardian è
un’operazione “altamente flessibile” con un ampio spettro di compiti: dalla
sorveglianza degli spazi marittimi di interesse, al contrasto al “terrorismo
marittimo”, alla formazione a favore delle forze di sicurezza dei paesi
rivieraschi. “Oltre a queste attività, le forze navali
possono effettuare attività di interdizione, tutela della libertà di
navigazione, protezione delle infrastrutture marittime sensibili e contrasto
alla proliferazione delle armi di distruzione di massa”, spiegano i portavoce
della NATO. Non ultimo, ovviamente, l’obiettivo di rafforzare la cooperazione
con l’Unione Europea contro l’immigrazione “irregolare”. Il 20 giugno scorso,
il comando della missione europea EUNAVFOR MED/Sophia e il Comando marittimo
alleato della NATO hanno indetto una conferenza su Shared Awareness and
De-confliction in the Mediterranean, per rafforzare la collaborazione “tra le
numerose organizzazioni militari e civili che devono affrontare il fenomeno
migratorio in mare”. Per conseguire un ruolo sempre più flessibile in campo
politico-militare e geostrategico in quello che è ormai definito il
Mediterraneo allargato (dal mar Mediterraneo vero e proprio all’Europa
orientale e a buona parte del continente africano e del Medio oriente), il 15
febbraio 2017 i ministri della Difesa dell’Alleanza hanno deciso di costituire
presso l’Allied Joint Force Command – JFC Naples l’Hub NATO per il Sud. “Il
centro operativo nella base di Lago Patria-Napoli dal dicembre 2017 ha come
obiettivo principale quello di comprendere e coordinare le risposte alle sfide
strategiche che l’Alleanza deve affrontare sul fronte sud”, ha spiegato il
segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg. “L’Hub per il Sud non
coordinerà grandi operazioni militari, ma si occuperà di raccogliere
informazioni, migliorare la comprensione della situazione e coordinare le
attività nell’area”. In pratica, un pool di un centinaio di analisti
internazionali avrà il compito di studiare le minacce enfatizzate dalla nuova
pianificazione avanzata dell’Alleanza per il fronte meridionale, quali
“il terrorismo, la destabilizzazione, la radicalizzazione, le migrazioni,
l’inquinamento ambientale e i disastri naturali”, agendo contemporaneamente
“come centro di coordinamento per la collaborazione tra i comandi NATO e le
organizzazioni governative e non governative internazionali che si occupano di
sicurezza”.
A enfatizzare il ruolo di analisi e intervento
contro i flussi migratori nel Mediterraneo sono ancora gli alti comandi della
NATO preposti alle operazioni sul fronte meridionale. “La nostra è una piattaforma di
informazioni condivise con esperti di aspetti militari, economici e sociali”,
ha spiegato in un’intervista a La Repubblica (6 settembre 2017), l’ammiraglio
statunitense Michelle Howard, sino allo scorso anno alla guida del Joint Force
Command Naples. “L’idea di metter su questa struttura risale già a due anni fa,
ma ha avuto una accelerazione per due fattori: il fenomeno della migrazione di
massa e la dichiarazione del ministero della Difesa USA di un impegno maggiore
della NATO sul fronte del terrorismo (…) Con due operazioni navali, la NATO dà
già supporto ai flussi migratori di massa a Turchia e Grecia, senza dimenticare
l’Operazione Sophia, che ha garantito soccorso e anche accoglienza. Ma è ovvio
che un proficuo scambio di informazioni può facilitare la gestione dei flussi
migratori e, nel contempo, pure aiutare a distinguere chi fugge da situazioni
di pericolo da chi, invece, viene con cattivi propositi”. Se già non fossero evidenti
le finalità di guerra globale contro le migrazioni del nuovo Hub NATO per il
Sud, meglio allora riportare un passaggio di un’altra intervista rilasciata
dallo stesso ammiraglio Howard all’agenzia di stampa Adnkronos (3 settembre
2017): “Il Sud è anche il fronte delle grandi migrazioni, materia che per la Ue
è di fortissimo interesse, ma quando ti occupi di salvare le persone in mare,
quello è solo un sintomo del problema”, ha spiegato l’allora comandante di JFC
Naples. “Quello che vogliamo fare è arrivare alle cause ultime che
spingono le persone ad emigrare, comprendendo esattamente che cosa succede, in
modo da poter iniziare a lavorare su misure di prevenzione”.
In nome della guerra santa al binomio
terrorismo-migrazioni in Libia e nell’Africa sub-sahariana, le forze aeree
statunitensi e relativi contractor operano già da alcuni anni con aerei spia (con pilota e senza pilota),
dalle basi aeree di Sigonella e Pantelleria e talvolta dagli scali aeroportuali
di Catania-Fontanarossa e Trapani-Birgi). Durante gli ultimi combattimenti
registrati a Tripoli e nel suo aeroporto internazionale, i media hanno
registrato le evoluzioni aeree di un drone statunitense con compiti di
intelligence, sorveglianza e ricognizione, molto probabilmente uno degli MQ-9
“Reaper” dell’US Air Force operativi da Sigonella a partire dal 2011 anche per
operazioni di attacco con missili aria-terra. Ancora una prova questa della
trasformazione della stazione aeronavale siciliana in capitale mondiale dei
droni, ma come abbiamo visto, anche di capitale europea della sporca guerra ai
migranti del XXI secolo.
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