E’ stata vittima di una grave violenza eppure a pagare il conto,
almeno per ora, è proprio la famiglia al Rabi. I media palestinesi riferiscono
che lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno di Israele, ha revocato i
permessi per lavorare nello Stato ebraico al marito e a un parente stretto di
Aisha al Rabi, donna palestinese rimasta uccisa circa due settimane fa
nell’incidente d’auto causato dai lanci di pietre dei coloni israeliani contro
la sua automobile nei pressi di un posto di blocco militare a Nablus.
Una punizione che da un lato grava sulla famiglia dove ora
otto bambini sono orfani di madre e fa di Aisha la seconda persona uccisa nella
stessa casa, e dall’altro lascia impuniti i responsabili, i coloni israeliani,
ossia la rappresentazione più compiuta del sistema di occupazione della
Cisgiordania palestinese.
Lo Shin Bet prova a tutelare la propria immagine assicurando che le
indagini sono tutt’ora aperte e che “non verrà esclusa la pista di un atto di terrore
portato avanti dai coloni israeliani dell’area”. E giustifica il ritiro dei
permessi di lavoro ai familiari informandoli che sono dinieghi “temporanei”
vincolati alle leggi di Israele.
Il ritiro dei documenti per il marito di Aisha al Rabi, tra l’altro
anch’egli rimasto ferito e privo di coscienza nella sassaiola dei coloni contro
la sua auto, rappresenta una forma di derisione da parte delle autorità
israeliane e una legittimazione degli episodi quotidiani di abuso di potere
contro i palestinesi.
Nickolay Mladenov, coordinatore speciale delle
Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, ha condannato l’attacco
alla donna e al marito affermando che “i responsabili devono
essere subito assicurati alla giustizia. Urge smetterla
con il terrore e la violenza”. Invece secondo il ministro del turismo
d’Israele, Yariv Levin,
che ha commentato l’accaduto in un’intervista radiofonica, le ragioni del decesso della donna non sarebbero ancora comprovabili,
data l’assenza di una perizia del veicolo. Mettendo in
dubbio la pista di un’aggressione da parte dei coloni, il ministro ha
ipotizzato un semplice incidente d’auto poi strumentalizzato dalla famiglia
descritta come “tipi di persone vicine agli ambienti di sinistra che in maniera
ipocrita non fanno che incolpare lo Stato Ebraico”.
Ma quello che oggi risulta realmente ipocrita alla luce dei fatti, è che
dal 2015 la Knesset, il parlamento israeliano, condanni uomini, donne e bambini
palestinesi fino a 20 anni di carcere per il lancio di pietre “finalizzato
all’aggressione contro civili e forze dell’ordine”, additando di terrorismo
adulti e minori palestinesi in maniera indiscriminata, mentre i coloni israeliani sembrano poter utilizzare quella stessa
violenza in maniera legittima nelle aree di forte tensione. Inoltre
se un palestinese volesse dimostrare la sua innocenza dall’accusa di aver
lanciato sassi con l’intento voler ledere cose o persone incorrerebbe comunque
in una pena lunga fino a 10 anni di prigione.
Dal 2018, nel periodo compreso tra gennaio e aprile, l’Ufficio delle
Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari ha registrato più di
80 casi di violenze subite dai palestinesi dovute al lancio di pietre ad opera
dei coloni israeliani. Nel 25% dei casi viene documentato che
prendono di mira le persone in case e automobili, quando appaiono indifese. Invece non sono verificabili i procedimenti penali in corso dove i coloni
sono imputati per il lancio di pietre, per una evidente mancanza di uguaglianza
delle condanne per israeliani e palestinesi nei tribunali israeliani. Al
contrario è da notare ch dal 1° ottobre 2015, quindi allo scoppio dell’Intifada
di Gerusalemme, ad oggi più di 2500 minori
palestinesi sono stati imprigionati e il capo d’accusa più
comune nei loro confronti è il lancio di pietre.
E intanto l’esercito israeliano sperimenta quotidianamente contro i
palestinesi i prodotti dell’industria bellica nazionale eletta come la più
fruttuosa ed efficiente al mondo.
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