Dopo essere stata espulsa da Israele per la seconda
volta in tre anni, Susan Abulhawa ieri ha postato su Facebook il seguente
comunicato al festival della letteratura a cui non ha potuto partecipare.
Messaggio per il festival di letteratura palestinese Kalimat:
Vorrei esprimere la mia profonda gratitudine nei confronti del festival di
letteratura palestinese Kalimat, in particolare a Mahmoud Muna, e al Kenyon
Institute [istituto di ricerche britannico con sede a Gerusalemme, ndtr.] del
British Council per avermi invitata ed aver sostenuto le spese perché
partecipassi al festival di letteratura in Palestina di quest’anno.
Come ormai sapete tutti, le autorità israeliane mi hanno negato l’ingresso
nel mio Paese e di conseguenza non posso partecipare al festival. Mi addolora
molto non essere con i miei amici e colleghi scrittori per analizzare e onorare
le nostre tradizioni letterarie con i lettori e tra di noi nella nostra patria.
Mi addolora che ci possiamo incontrare ovunque nel mondo tranne che in
Palestina, il luogo a cui apparteniamo, da cui scaturiscono le nostre storie e
dove tutti i nostri viaggi alla fine ci conducono. Non ci possiamo incontrare
sul suolo che è stato fertilizzato per millenni dai corpi dei nostri antenati e
innaffiato dalle lacrime e dal sangue dei figli e delle figlie della Palestina
che quotidianamente lottano per lei.
Dopo la mia espulsione, leggo che le autorità israeliane hanno dichiarato
che mi era richiesto di “coordinare” preventivamente il mio viaggio con loro.
Questa è una menzogna. In effetti all’arrivo in aeroporto mi è stato detto che
mi era stato richiesto di presentare richiesta di visto per il mio passaporto
USA e che questa richiesta non sarebbe stata accettata fino al 2020, almeno
cinque anni dopo la prima volta che mi è stato negato l’ingresso. Hanno detto
che era mia responsabilità saperlo benché non mi fosse mai stata data nessuna
comunicazione di essere stata bandita. Poi hanno detto che la mia prima
espulsione nel 2015 era dovuta al fatto che avevo rifiutato di specificare loro
la ragione della mia visita. Anche questa è una menzogna. Questi sono i fatti.
Nel 2015 ero venuta in Palestina per costruire parchi giochi in vari
villaggi e partecipare all’inaugurazione di quelli che avevamo già costruito
nei mesi precedenti. Un altro membro della nostra organizzazione aveva
viaggiato con me. Lei risultò essere ebrea e le consentirono di entrare. Vari
funzionari israeliani che mi interrogarono mi fecero le stesse domande in forme
diverse nel corso di oltre 7 ore e mezza. Risposi a tutte, come dobbiamo fare noi
palestinesi se vogliamo avere una possibilità di andare a casa, anche solo come
visitatori. Ma non fui abbastanza ossequiosa, né ne ero capace in quel momento.
Ma ero sicuramente calma e – ciò che viene richiesto a tutte le persone
violentate – “civile”. Alla fine venni accusata di non aver cooperato perché
non sapevo quanti cugini avevo e quali fossero tutti i loro nomi ed i nomi
delle loro mogli. Fu solo dopo che mi venne detto che mi era stato negato
l’ingresso che alzai la voce e mi rifiutai di andarmene tranquillamente. Gridai
e confermo ogni cosa che gridai. Secondo “Haaretz” [giornale israeliano di
centro sinistra, ndtr.] Israele affermò che io “mi ero comportata con rabbia,
brutalità e volgarità” nel 2015 al [valico di frontiera del] ponte di Allenby
[tra Giordania e Cisgiordania, ndtr.].
Quello che dissi nel 2015 a chi mi interrogava, e che venne anche riportato
all’epoca da “Haaretz”, è che avrebbero dovuto essere loro ad andarsene, non
io; che sono figlia di questa terra e niente cambierà questo fatto; che la mia
stessa storia affonda nella terra e non c’è modo che essi possano sradicarla;
che per quanto essi evochino le favole mitologiche sioniste, non possono
rivendicare un simile lignaggio personale e familiare, per quanto desiderino di
poterlo fare.
Suppongo che possa suonare volgare a orecchie sioniste essere posti di
fronte all’autenticità della condizione dei palestinesi in quanto autoctoni
nonostante l’esilio, e affrontare la loro apocrifa, sempre cangiante narrazione
colonialista.
A quanto pare la mia mancanza di deferenza e la scelta di non accettare
tranquillamente la decisione arbitraria di un illegittimo guardiano della mia
patria nel 2015 vennero associate al mio nome e, questa volta dopo il mio
arrivo il 1 novembre, segnalate per la mia immediata espulsione.
La vera volgarità è che alcuni milioni di europei e altri stranieri vivono
ora in Palestina mentre la popolazione indigena vive o in esilio o sotto il
crudele giogo dell’occupazione israeliana; la vera volgarità sta nelle file di
cecchini che circondano Gaza, che prendono attentamente la mira e sparano a
esseri umani assolutamente indifesi, che osano protestare contro il loro
imprigionamento collettivo e contro la miseria che gli viene imposta; la vera
volgarità sta nel fatto di vedere i nostri giovani a terra sanguinanti, gettati
nelle prigioni israeliane, privati di un’educazione, dei viaggi,
dell’istruzione o di una qualche possibilità di stare pienamente al mondo; la
vera volgarità è il modo in cui hanno preso e continuano a prendere tutto da
noi, come ci hanno strappato il cuore, rubato tutto, occupato la nostra storia
e calpestato le nostre voci e la nostra arte.
In totale Israele mi ha incarcerata per 36 ore. Non ci è stato consentito
di tenere nessun apparecchio elettronico, penne o matite nella cella del
carcere, ma ho trovato il modo per avere entrambi – perché noi palestinesi
siamo pieni di risorse, astuti e troviamo la nostra via verso la libertà e la
dignità con ogni mezzo possibile. Ho foto e video dall’interno di quel terribile
centro di detenzione, che ho preso con un secondo telefono nascosto sul mio
corpo, ed ho lasciato loro qualche messaggio sui muri dal letto sporco che mi
hanno dato per sdraiarmi. Suppongo che troveranno volgare leggere “Palestina
libera”, “Israele è uno Stato di apartheid”, o “Susan Abulhawa è stata qui e ha
introdotto di nascosto nella sua cella questa matita.”
Ma la parte più memorabile di questo calvario sono stati i libri. Quando
sono arrivata al carcere avevo due libri nel mio trolley e ho avuto il permesso
di tenerli. Alternativamente leggevo entrambi, dormivo e pensavo.
Il primo libro era un saggio molto erudito dello storico Nur Masalha,
“Palestina: una storia di quattromila anni.” Avevo previsto di intervistare Nur
sul palco sulla sua epica rivisitazione della storia millenaria dei palestinesi
raccontata non da narrazioni con motivazioni politiche, ma dalla narrazione
archeologica e di altre discipline. È la storia di un popolo, che abbraccia le
confuse e molteplici identità delle popolazioni native della Palestina dall’Età
del Bronzo fino ad ora. In una cella di sicurezza israeliana, con cinque altre
donne, tutte dell’Europa dell’Est e ognuna di loro con la propria sofferenza
individuale, i capitoli del libro di Nur Masalha mi hanno portata attraverso il
passato pluralistico, multiculturale e multireligioso della Palestina, distorto
e cristallizzato da invenzioni moderne di un antico passato.
L’amara ironia della nostra condizione non mi era sfuggita. Io, figlia
della terra, di una famiglia radicata da almeno 900 anni sulla terra e che ho
passato la maggior parte della mia infanzia a Gerusalemme, ero stata espulsa
dalla mia patria dai figli e dalle figlie di recente arrivo, venuti in
Palestina qualche decennio fa con una filosofia di darwinismo razzista di
origine europea, che invocava leggende bibliche e diritti di proprietà concessi
dalla divinità.
Mi è venuto anche in mente che tutti i palestinesi – indipendentemente
dalla nostra condizione, ideologia o luogo della nostra incarcerazione o esilio
– siamo per sempre uniti in una storia comune che inizia con noi e viaggia
verso l’antico passato in un posto sulla terra, come le molte foglie e i molti
rami di un albero che portano ad un unico tronco. E siamo anche uniti dalla
sofferenza comune vedendo gente da ogni parte del mondo colonizzare non solo lo
spazio fisico della nostra esistenza, ma anche i suoi luoghi spirituali,
familiari e culturali. Penso anche che traiamo forza da questa infinita,
inguaribile ferita. Da lì scriviamo le nostre storie, e cantiamo là anche le
nostre canzoni e le nostre dabke [musica e danza popolare mediorientale,
ndtr.]. Ricaviamo arte da questo dolore. In questo posto raccogliamo fucili e
penne, videocamere e pennelli, lanciamo pietre, facciamo volare aquiloni e facciamo
balenare la vittoria e i pugni alzati.
L’altro libro che ho letto era l’acclamato, affascinante romanzo di Colson
Whitehead “The Underground Railroad” [La ferrovia sotterranea, Sur, 2016]. È la
storia di Cora, una ragazza nata in schiavitù da Mabel, la prima schiava
scappata dalla piantagione Randal. In questo racconto immaginario Cora scappa
dalla piantagione con il suo amico Caesar, il loro risoluto cacciatore di
schiavi, Ridgeway, sul cammino lungo la ferrovia sotterranea – una metafora
della vita reale resa in una vera ferrovia nel romanzo. Il trauma generazionale
di una inconcepibile schiavitù è tanto più devastante in questo romanzo in
quanto è raccontato realisticamente dal punto di vista dello schiavo. Un’altra
incurabile ferita collettiva di un popolo messa a nudo, un passato comune
atrocemente potente, anche una sede della sua potenza, una sorgente delle sue
storie e delle sue canzoni.
Ora sono tornata a casa mia, con mia figlia e i nostri amati cani e gatti,
ma il mio cuore non lascia mai la Palestina. Quindi, sono là, e continueremo ad
incontrarci nei panorami della nostra letteratura, arte, cucina e in tutti i
tesori della nostra cultura comune.
Dopo aver scritto questo comunicato, ho appreso che la conferenza stampa si
è tenuta a Dar el Tifl [collegio femminile e organizzazione benefica di
Gerusalemme, ndtr.]. Ho vissuto lì i migliori anni della mia infanzia,
nonostante la separazione dalla mia famiglia e le condizioni a volte difficili
che dovemmo affrontare sotto l’occupazione israeliana. Dar el Tifl è l’eredità
di una delle donne più ammirevoli che abbia mai conosciuto – Sitt Hind el
Husseini. Mi ha salvata in vari modi più di quanto penso si rendesse conto, o
di quanto io abbia compreso all’epoca. Salvò
molte ragazze. Ci riunì da tutti i mille pezzi della Palestina. Ci diede cibo e rifugio,
ci educò e credette in noi e a sua volta ci convinse che valevamo qualcosa. Non
c’è un luogo più appropriato di Dar al Tifl per leggere questa dichiarazione.
Voglio lasciarvi con un altro pensiero che mi è venuto quando ero in
carcere, ed è questo: Israele è spiritualmente, emotivamente e culturalmente
piccolo nonostante i lunghi fucili che punta contro di noi – o forse proprio a
causa di questi. È a loro stesso discapito che non possono accettare la nostra
presenza nella nostra patria, perché la nostra umanità rimane intatta e la
nostra arte è magnifica e vitale, e non stiamo andando da nessuna parte se non
a casa.
Su Susan Abulhawa
Susan Abulhawa è autrice del romanzo best seller internazionale “Mornings
in Jenin” (Bloomsbury, 2010) [“Ogni mattina a Jenin”, Feltrinelli, 2006) –
www.morningsinjenin.com – e fondatrice di “Playgrounds for Palestine” [Parchi
giochi per la Palestina] – www.playgroundsforpalestine.org.
(traduzione di Amedeo Rossi)
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