lunedì 16 marzo 2020

Halabja, 16 marzo 1988



Halabja

L'Attacco chimico di Halabja (in curdo: Kîmyabarana Helebce) avvenne il 16 marzo 1988, durante la guerra Iran-Iraq. Armi chimiche furono utilizzate dall'esercito iracheno nella città curda di Halabja.

L'attacco fu realizzato con gas al cianuro per rappresaglia contro la popolazione curda che non aveva frapposto sufficiente resistenza al nemico iraniano. I morti furono circa 5000. I Curdi morti in totale furono più di 100.000.

In seguito a questa azione tra il 2007 ed il 2008 vennero processati per crimini contro l'umanità vari gerarchi del regime di Saddam Hussein (ma non quest'ultimo, all'epoca già impiccato per altri crimini), tra cui il comandante militare delle operazioni, Ali Hassan Abd al-Majid al-Tikritieh], che venne condannato a morte, sentenza eseguita il 25 gennaio 2010.
(wikipedia)

Tutto accadde durante la guerra Iraq-Iran, conosciuta da molti come guerra del Golfo (Persico). Il 16 marzo 1988 nella città di Halabaja - città di circa 70mila abitanti situata nel Kurdistan iracheno, a 240 km a nordest di Baghdad e a 15 km dal confine iraniano - il regime iracheno, guidato all'epoca dal dittatore Saddam Hussein, compì un orrendo massacro. Per diverse ore l'aviazione dell'Iraq bombardò le zone residenziali della città con un composto chimico letale - un miscuglio di iprite, acido cianidrico e gas neurotossici.

In quell'attacco persero la vita almeno 12mila persone, mentre i sopravvissuti dovettero lottare anche a distanza di anni contro diverse malattie e disturbi fisici (si registrò un'impennata di casi di cancro al colon, di problemi cardiaci e respiratori, di tumori della pelle e di problemi alla vista). Inoltre nell'area si riscontrarono diversi casi di malformazione genetica.

Nonostante oggi quest'episodio viene da tutti riconosciuto come un crmine contro l'umanità, all'epoca la comunità internazionale non mosse un dito contro l'Iraq - allora alleato degli Stati Uniti -, dimenticandosi di applicare le sanzioni previste dal capitolo 7 della Carta Onu, lo stesso usato dal governo britannico per ricevere dal Consiglio di sicurezza l'autorizzazione per intervenire in Siria. Il dipartimento di stato americano non perse tempo e il giorno dopo accusò l'Iran per quanto fosse accaduto, argomentazioni che vennero portate avanti anche dalla CIA per buona parte degli anni 90. L'agenzia di intelligence statunitense cambiò poi radicalmente versione qualche anno più tardi e citò spesso il caso Halabja per dimostrare il possesso di armi chimiche da parte del regime di Hussain e giustificare l'intervento militare.

Armi chimiche vennero usate dall'Iraq qualche mese più tardi, dopo che venne siglato l'accordo di cessare il fuoco con l'Iran. Il 25 agosto 1988, durante l'operazione "final Anfal", il regime iracheno attaccò la regione kurda del Baldian facendo largo uso di iprite e gas nervino. Gli attacchi andarono avanti fino al 9 settembre, quando il regime fu costretto a intettormpere la sua "soluzione finale" per le forte proteste internazionali. Durante quei giorni persero la vita numerosi civili; alcuni riuscirono invece a rifugiarsi nei territori vicini, per lo più in Turchia. Anche in questo frangente l'Onu non fece nulla per accorrere in aiuto della popolazione, perché "si trattava di una questione interna dello stato iracheno".

Per quale ragione quindi la comunità internazionale non ci sta pensando due volte a intervenire in Siria (nonostante non siano state ancora mostrate prove certe) mentre non fece quasi nulla per il caso curdo? Forse le Nazioni Unite hanno imparato molto dalle dure lezioni del passato, oppure i regolamenti internazionali e la Carta dell'Onu valgono veramente poco di fronte agli interessi strategici dei paesi del blocco Atlantico.




Morning sun breaks through the trees
Swaying gently on the morning breeze
Dappled shadows in the village square
Soft breeze blows away the chill night air

People gather in a dusty street
Stalls are opening, the old folk meet
Conversations on the morning air
Another day is dawning in Halabja village square

Children safe behind school yard gates
A few last stragglers arriving late
Teachers ready for another busy day
A time to study and a time to pray

Sweet, sweet breeze blows through the town
Gently flowing, makes no sound
Trickles silent beneath the doors
Like the sea laps against the shore

No bird song, no sound in the street
The school lies still, no clatter of feet
A sweet sweet fragrance hangs in the air
Deadly harvest in Halabja village square

A gift from France and the USA
Love and kisses from the UK
Soft skinned handshakes behind closed doors
Vultures gather to count the score

It’s got nothing to do with me
I cannot hear, I cannot see
It’s got nothing to do with me
It’s not on my TV

I’m the king of the castle and you’re the dirty rascal

A gift from France and the USA
Love and kisses from the UK
Soft skinned handshakes behind closed doors
Vultures gather to count the score


Mamma, sento l’odore delle mele! - Azad Berkendal 

Mamma, sento l’odore delle mele!
Halabja è il luogo in cui un bimbo corre e dice “dayê bêhna sêva tê” (Mamma, sento l’odore delle mele) e parla con sua madre per l’ultima volta.

Vi piace il profumo delle mele?
Ve lo chiedo in un altro modo: avete mai sentito un bruciore alla gola mangiando una mela? No? Allora ve lo racconto.
Trentadue anni fa, la mattina del 16 marzo 1988, il dittatore Saddam Hussein diede l’ordine di lanciare il gas al profumo di mele sulla città curda di Halabja. I curdi si svegliarono con l’odore delle mele, andarono in cucina con gioia e curiosità ma quando notarono che non veniva da lì aprirono le finestre e sentirono un odore buono e intenso che veniva da fuori. Uscirono tutti in strada e videro che c’erano anche tutti gli altri, con la stessa curiosità e gioia. Iniziarono a camminare velocemente per cercare di capire da dove provenisse questo buon profumo. Da una parte sentivano più forte e intenso l’odore delle mele mentre dall’altra si sentivano come se stessero bruciando. Ma a loro non importava e continuavano a camminare. Molti però iniziarono a correre. Correvano e correvano. Ma stavano anche bruciando. Questa volta iniziarono a correre verso le loro case. La combustione stava aumentando. Nel tempo si accorsero con paura che la loro pelle cominciava a diventare viola e a restringersi. Avrebbero dovuto raggiungere l’acqua il prima possibile. Quando si gettarono in acqua il loro corpo iniziò a sciogliersi come se stessero entrando in una piscina piena di acido. Ormai erano tutti morti senza capire da dove provenisse la morte. Sono morti bruciandosi e sciogliendosi. Senza fuoco e senza fumo, ma con urla e grida, senza capire cosa fosse successo.

Prima, sono bruciati i miei capelli, poi i miei occhi.
Il mio corpo si è sciolto lentamente.
Sono morto senza capire quale fosse il motivo e da dove provenisse la morte.
Sono diventato una manciata di cenere e la mia cenere è stata soffiata in aria.
Il veleno chimico è una cosa talmente terrificante che non appena viene a contatto con il tuo corpo ti brucia, ti impedisce di respirare, ti scioglie come il burro trasformandoti in cenere. Non è possibile che tu muoia senza dolore. La tua pelle si brucia e si scioglie pian piano, lentamente, facendoti morire con un dolore che non puoi nemmeno immaginare. Ti spareresti in testa, se potessi, per non soffrire così tanto.
Un veleno con un buon odore di mela.
Un veleno profumato fu un massacro di un popolo.
Un veleno con cui fu pianificato l’obiettivo di uno sterminio, specialmente di bambini, e così il loro futuro.
Un veleno che ha trasformato 5mila vite in cenere.
La maggior parte dei morti ad Halabja furono dei bambini. Come sempre, in tutte le guerre, proprio come in altri massacri, muoiono bambini. Gli Stati capitalisti dovevano portare democrazia, sicurezza e pace nei paesi autoritari in cui c’è la dittatura, ma come sempre danno precedenza ai loro interessi producendo armi chimiche e veleno, fregandosene della vita umana. Sono stati proprio questi Stati capitalisti a mettere il veleno nelle mani del dittatore Saddam. Loro, volendo, possono vedere, sentire e controllare tutto il mondo ma non hanno voluto sentire e ascoltare le urla e il grido della morte terrificante del popolo curdo. Non hanno voluto sentire perché in quel momento erano impegnati a pianificare altri massacri e genocidi in altri paesi.
Il capitalismo ha sempre sacrificato vite umane e sta uccidendo il nostro pianeta.
Il cambiamento climatico non è più una cosa del futuro, non è più dovuto alla natura ma è dovuto al capitalismo e a ciò che producono i capitalisti: gli oceani si stanno alzando, gli uragani stanno diventando sempre più potenti, le foreste stanno bruciando, le persone muoiono a causa di ondate di caldo, siccità, inondazioni e carestie. Simili eventi meteorologici estremi stanno diventando rapidamente la regola, non l’eccezione.
Sono stati gli stessi capitalisti a bruciare migliaia di bambini piccoli con gli occhi piccoli ad Hiroshima. Furono loro a uccidere centinaia e migliaia di persone in Vietnam. Furono loro che hanno silenziosamente sostenuto il massacro di 800mila persone in Ruanda avvenuto in cento giorni. Non potevano sentire quelle urla. E furono sempre loro a massacrare 5mila curdi in un modo crudele donando il gas-veleno a Saddam.
Ora i bambini di Halabja stanno dando un messaggio di pace al mondo tenendosi per mano con i loro fratelli di Hiroshima, Ruanda, Vietnam e invocando l’umanità: “Il 16 marzo 1988 ad Halabja l’umanità fu lasciata senza fiato e bruciata. È nostro onore ricordare, non dimenticare e raccontare a coloro che non lo sanno. È un onore per l’umanità.” [anonimo, preso da Twitter, originale in lingua turca]


Il massacro dei curdi di Halabja è un monito all’odio di oggi - Martino Pedrazzini

Ci sono colline verdissime e panorami che ricordano l’Irlanda!” E ancora: “Le montagne sono innevate e sembra di stare tra le Alpi!” Così dicevano…
I quasi cinquanta gradi dell’ora di pranzo, le immense distese di erba ingiallita dal sole e i rarissimi alberelli solitari paiono descrivere una realtà ben diversa. I miei amici sono venuti qui a dicembre e io con loro sono tornato a giugno. Sembrano due luoghi diversi, ma siamo nello stesso posto. Siamo ad Halabja, nel Kurdistan iracheno al confine con l’Iran, in quella che un tempo veniva chiamata Mesopotamia. Una terra che ha visto sorgere civiltà gloriose, che è stata teatro di guerre, di violenze e di persecuzioni, ma anche una casa accogliente per molti popoli dalle culture e dalle religioni più disparate.
Halabja è una città curda semi-sconosciuta che ha malauguratamente vissuto un solo brevissimo momento di celebrità. Il 16 marzo 1988 la popolazione della città fu brutalmente bombardata dall’aviazione irachena, vennero usate armi chimiche di ogni genere. Con i gas sprigionati nell’aria vennero uccise 5000 persone e più del doppio vennero ferite e molte rese per sempre invalide.
Per non dimenticare quel massacro è stato costruito un museo. E noi, bruciati dal sole, è lì che stiamo andando. Prima di arrivare al museo passiamo dal cimitero, un posto mai bello dove andare, ed è lì che ti arriva il primo pugno nello stomaco. È un grande cimitero in leggera salita fatto da sole lapidi, con alcuni monumenti funebri contenenti alcune parole di ricordo e il numero di morti sepolti in quella parte del campo. Sono solo lapidi. Una lapide per famiglia. Su ogni lapide sono riportati i nomi di madri e padri, di figlie e figli, di fratelli e sorelle. Alcune con un solo nome e altre con sei, sette o otto nomi… Intere famiglie sterminate!
Poco tempo per ragionare e usciamo, avvicinandoci al museo. Lo si vede in lontananza, dietro le case e in fondo alla strada. Ha una forma che è diventata il simbolo della città: l’unione del fumo dell’esplosione di una bomba e di due mani protese verso il cielo in preghiera. È un simbolo che ricorre nelle associazioni locali e nei luoghi istituzionali, è il simbolo di una tragedia impossibile da dimenticare e che è necessario tenere viva nella memoria collettiva. Dal cancello principale c’è una lunga via alberata che conduce al museo circondato da bandiere del Kurdistan iracheno. Sulla destra della strada sono tenuti dei vecchi carri armati degli anni ‘80 e uno di quei maledetti aerei da bombardamento. Tutto attorno alla piazza del museo c’è un verde giardino ben curato e una statua.
La statua raffigura un uomo che sta facendo una fotografia. E non appare chiaro da subito che cosa stia fotografando. Lo capisco solo quando giungiamo alla piazza del museo, quando i cespugli e gli alberi permettono la vista. Di fronte all’entrata è posta un’altra statua, il secondo pugno allo stomaco: è una donna che, riversa a terra, abbraccia il suo bambino. Quell’uomo è il primo giornalista che arrivò ad Halabja dopo il bombardamento, il primo che documentò la tragedia.
Davanti ai nostri occhi sembra ricostruirsi quel momento. Inizio a pensare che l’avvicinamento al museo sia fatto apposta in questo modo: entri piano piano, vedi alcune cose e inizi a farti delle domande, ti chiedi che significhi la forma del museo e cosa stia fotografando quell’uomo… Le risposte però non rientrano neanche nelle più remote stanze del tuo cervello.

Entriamo. La prima sala del museo è una raccolta di foto e di racconti della cultura curda: foto di vestiti tipici e di feste tradizionali, foto della vita agricola e delle manifestazioni dei lavoratori, foto di personaggi illustri e di uomini e donne del popolo. “A te che entri, non dimenticare! Non è stato un semplice atto di guerra, ma una vile repressione di un popolo, lo sterminio programmato del diverso”. Procediamo nella seconda stanza e qui i pugni allo stomaco sono continui e ancora più forti, da far venire le lacrime agli occhi. Qui è ricostruito l’ambiente che poteva apparire a chi fosse entrato ad Halabja nel ‘88, subito dopo il bombardamento. Corpi senza vita a terra. Due bimbi con il volto insanguinato appoggiati contro il muro. Calcinacci e detriti sulla strada. Un pickup, la cui fuga è stata fermata, pieno di corpi accatastati nel cassone. Animali esanimi e il terreno bruciato. Un uomo che stava infornando il pane. E silenzio, nessuno che riesce a dire una parola. È una ricostruzione e i muri sono dipinti, ma quei corpi in rilievo, come una Pompei irachena, sono terrificanti, puoi solo immaginare il terrore delle vittime e lo sgomento dei sopravvissuti. Non puoi dire una parola, tutto perde di significato.
Ci lasciamo alle spalle la distruzione e entriamo in una sala circolare, lì sul muro sono riportati i nomi delle vittime. In un ambiente nero saltano agli occhi le scritte bianche in alfabeto arabo, che sembrano trasportate verso l’alto nel cono che forma la struttura del museo. Sono un’infinità di nomi ed è lì che 5000 diventa un numero reale, è lì che puoi intuire le dimensioni della tragedia. Procediamo nella quarta stanza dove ci sono foto e video: fatti da lontano durante il bombardamento e nei giorni successivi in città e negli ospedali. Non penso che sia possibile descrivere adeguatamente le sensazioni, ma l’incredulità si mischia al desiderio di guardare per non dimenticare e la tristezza si mischia alla rabbia. Ogni foto, ogni video, ogni intervista ti prende a pugni con ancora più violenza di prima. Vuoi voltare lo sguardo e se riesci a non farti scalfire è solo perché tutto quello che stai vedendo è inconcepibile e cerchi di difenderti. Quella stanza e quelle testimonianze sono questo, ma anche molto altro. Se non sei del tutto insensibile è una crescita di coscienza del proprio ruolo di fronte alle sofferenze umane, è il desiderio di non veder mai più succedere cose simili. Non è solo un ricordo è anche una riflessione sul presente. E così assumono un senso ulteriore le foto della fuga da Halabja affiancate e quelle degli yazidi del Sinjar in fuga dall’Isis nel 2014, così come le foto dei bambini costretti a migrare e a morire sulle nostre coste oggi come allora.

Il museo sta per finire, c’è un’ultima stanza, che dopo tutti i pugni nello stomaco pare fatta apposta per far ritornare gradualmente a quello che è il nostro mondo. Si viene trasportati alle settimane dopo il bombardamento: a Baghdad è morto un uomo che aveva denunciato la barbarie del regime di Saddam, sono presenti le foto e la corda che hanno usato per fingere che si fosse suicidato; in Europa, negli Stati Uniti e nel mondo le pagine dei giornali iniziano a riempirsi di articoli sul bombardamento di Halabja, lì ci sono le pagine dei giornali, giornali che parlano della strage, che iniziano a fare la stima delle vittime.
Ma se i giornali ne avevano parlato, com’è possibile che nessuno ricordi nulla di tutto ciò? Fuori dal museo mi porto l’enorme tristezza e lo sgomento e la rabbia nei confronti di un mondo che permette certe tragedie e che immediatamente le dimentica. Ma anche il desiderio di far conoscere questa storia, di mantenere viva la memoria e di continuare a denunciare la barbarie e la violenza che, nonostante il silenzio, questo popolo e molti altri nel mondo subiscono ancora oggi. Ci allontaniamo, pensierosi e ammutoliti. Raggiungiamo le macchine e ritorniamo alla sede del NWE, l’associazione che ci ospita.

Sotto uno splendido pergolato che ci ripara dal sole cocente scopriamo che il NWE ha vari progetti sociali rivolti soprattutto alle donne: donne della città, ma anche dei vicini campi profughi, donne irachene, ma anche siriane e iraniane, donne curde, arabe e dei numerosi gruppi etnici e religiosi che popolano l’area. Ha una radio che tratta gli argomenti più vari: dalle questioni di salute a quelle della gestione della città, dallo sport alle notizie locali. La radio è gestita dalle donne dell’associazione che fanno da speaker, da tecniche dell’audio e si occupano della programmazione dell’intero palinsesto. Ci sono progetti ambientali per la riqualificazione dei terreni resi improduttivi dalle sostanze tossiche del bombardamento e progetti per l’educazione ad un utilizzo moderato della plastica.
Mentre parliamo, ci vengono presentate alcune delle volontarie e delle insegnanti che organizzano la scuola di inglese e i corsi di musica per i bambini e le bambine. Al tavolo di fronte al nostro un gruppo di mamme assieme ad altre donne stanno imparando a lavorare a maglia per prodursi i vestiti di cui necessitano o che poi potranno vendere. Halabja dopo l’88 ha vissuto altre guerre, negli anni ‘90 e negli anni 2000, ha vissuto da vicino l’espansione dell’Isis e ha accolto migliaia di profughi in fuga. Qui in questo momento assaporiamo la voglia di ricostruire e di ricreare una convivenza pacifica, giusta ed egualitaria, rispettosa delle diversità dei singoli e attenta alle necessità delle persone più deboli e in difficoltà. Qui ora respiriamo una bella aria, un’aria che sembra essere l’antitesi di quei gas di trenta anni fa. Non più morte, ma vita.

Questo articolo è frutto di un viaggio a Halabja avvenuto a giugno 2019 da parte di sette attivisti e attiviste del Servizio civile internazionale (SCI) e del Coordinamento italiano sostegno donne afgane (CISDA). Al loro ritorno hanno dato vita a Halabja stories, un progetto che ha come scopo quello di preservare la memoria del bombardamento e di sostenere le attività del NWE finanziando iniziative e coltivando l’amicizia tra Italia e Iraq con l’invio di volontari e volontarie in campi di lavoro. Halabja stories è anche una mostra itinerante che toccherà diverse città italiane.

Simboli e massacri. Che cosa resta oggi della Srebrenica irachena - Adriano Sofri
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Halabja, Kurdistan iracheno. Sono andato a Halabja, tardi, dopo anni che frequento il Kurdistan. Non so quanti di voi conoscano questo nome: del resto si è sempre in ritardo di qualche genocidio. A Halabja (è facile da pronunciare, “Halàbgia”, in curdo si dice “Helebce”, o “Helewce”) dovrebbe suonare come Srebrenica (pronuncia “Srèbreniza”). Halabja è successa nel 1988, il 16 marzo: 29 anni fa oggi. Aveva circa 17 mila abitanti allora. Un paesone povero, a 70 km da Suleimanyah, al confine con l’Iran, alle pendici dei monti di Hawraman, uno dei paesaggi più belli del Kurdistan iracheno e iraniano. Era l’ultimo anno di otto della guerra Iran-Iraq e Saddam, che conduceva una intima guerra speciale tesa a liquidare i propri sudditi curdi, fece bombardare dal cielo per ore Halabja con gas micidiali. Fra i 3.500 e i 5.000, la gran maggioranza bambini e donne, morirono quel giorno in un’agonia straziante. Le cantine che la gente si era abituata a usare come rifugi dai frequenti bombardamenti dell’uno e dell’altro fronte si trasformarono in camere a gas. Qui non ci fu lo smaltimento dei corpi. I pochi coraggiosi fotografi li trovarono, ammucchiati gli uni sugli altri, o crollati lungo una fuga vana, a piedi o su carri e furgoni che non avevano avuto il tempo di muovere. Trovarono una Pompei di umani e animali – i primi a crollare erano stati gli uccelli del cielo e gli animali domestici, sotto gli occhi dei bambini.
C’è un’immagine sopra tutte che è diventata il simbolo di quel giorno, una madre supina sopra il proprio piccolo, come se lo proteggesse ancora, morti l’una e l’altro. E’ diventata una scultura ripetuta nella città e nel giardino del monumento al genocidio e del museo, ancora povero, che custodisce nomi e cose e memorie. Oggi Halabja è una città di forse 150 mila abitanti, con una giovane donna sindaco, è diventata capoluogo di una provincia – la quarta, dopo Erbil, Suleimanyah e Dohuk, senza contare la controversa Kirkuk – ha una sua università. E’ stata tradizionalmente, molto più delle altre province curde, una culla di formazioni islamiste, come l’Ansar al Islam del farabutto Mullah Krekar che l’Italia stava per farsi estradare dalla Norvegia. E’ ancora molto povera e paesana, a confronto con le altre, e anche i suoi memoriali sentono il bisogno di una manutenzione migliore, soprattutto le fosse comuni del cimitero. Nelle case si tengono piatti di mele, e mele vengono distribuite dai suoi giovani nelle strade di Suleimanyah, perché i gas di “Ali il Chimico”, il famigerato Ali Hassan-al-Majid, il cugino di Saddam specializzato in quest’arte, spandevano dapprincipio un forte odore di mela dolce. A distanza di una generazione e oltre, la gente di Halabja soffre ancora le conseguenze di quel veleno, soprattutto nelle malformazioni neonatali, nella diffusione dei tumori e nelle malattie della pelle. E ha sofferto a lungo di una sensazione di abbandono e di misconoscenza, nei confronti della stessa più vasta comunità curda. Il mondo è stato restio a riconoscere il programma genocida che si è accanito su Halabja e ha colpito per anni la regione curda dell’Iraq, devastando migliaia di villaggi, svuotando città della loro popolazione, usando i gas. A Halabja avvenne qualcosa di specialmente odioso. L’occidente, le cui fabbriche europee avevano a lungo fornito a Saddam gli ingredienti del suo arsenale chimico, e soprattutto gli Stati Uniti, che sapevano tutto ma avevano allora nell’Iran di Khomeini il proprio nemico principale, vollero sostenere in piena malafede che i gas fossero opera dell’Iran. Anni dopo una lugubre ironia volle che quando si preparava la guerra all’Iraq i gas di Halabja venissero rievocati in America e ora attribuiti a Saddam, per rafforzare la decisione dell’intervento. Nel museo di Halabja ho incontrato una coppia di americani, mormoni dello Utah, volontari di una organizzazione umanitaria. Nella città ci sono segni di fratellanza italiana, anche con Marzabotto. Non so se si sia mai stabilito un legame con Srebrenica: sarebbe giusto.


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