mercoledì 4 marzo 2020

Diario virale - Wu Ming




I giorni del coronavirus a Bulåggna (22-25 febbraio 2020)

Le mascherine erano pantomima, non prevenzione. La maggior parte della gente lo aveva capito, oppure prevaleva il timore del ridicolo: era pur sempre una città che amava stare in ghingheri. Fatto sta che le mascherine si vedevano quasi solo sui giornali e sui siti dei giornali.
Nei primi giorni, si era trattato sempre di operatori sanitari, infermieri, gente che lavorava in ospedale, poi erano arrivate a valanga le foto dal presunto “shock value” (oooooh!): tizi con la mascherina davanti al Duomo di Milano o in altri luoghi famosi.
A Bologna, l’edizione locale di Repubblica mostrava ogni giorno foto di qualcuno che girava sotto i portici con la mascherina. Per la verità, era sempre un fagiano isolato, attorniato da altre e altri che non la indossavano e forse lo compativano.
Eppure Chiara, che lavorava in farmacia, ci raccontava di quante persone entravano e le chiedevano mascherine, dopo aver superato almeno cinque cartelli che avvisavano del loro esaurimento. Un conoscente si vantava di averne acquistate on line un pacco da dieci, per tutta la famiglia, già all’inizio di febbraio. Comprare la mascherina era un modo per sentirsi efficienti, pronti alla battaglia. Omologati e quindi più sicuri. Era il desiderio per un oggetto solo perché lo desiderano gli altri. Un mix di consumismo e paranoia. Very emiliano.
La mascherina era l’equivalente individuale, personal, delle «misure di prevenzione» imposte alla cittadinanza. Non c’era bisogno di indossarla davvero. Contava il gesto: come certi eroinomani che rimangono dipendenti dal buco, anche senza iniettarsi la roba. Tornato a casa, te ne dimenticavi, la imbucavi in un armadio e tanti saluti. Pura funzione apotropaica. Un talismano. Nel frattempo, proprio facendo la coda in farmacia, potevi esserti beccato il virus. La deterrenza produce quel che vorrebbe evitare.
Nel tardo pomeriggio del 23 febbraio avevamo perlustrato due quartieri – Navile e Porto – in cerca di mascherine. Da poche ore era arrivata l’ordinanza del governatore Bonaccini, tanto perentoria quanto ambigua nelle formulazioni, anche per via di un inquietante eccetera:
«Sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di aggregazione in luogo pubblico o privato, anche di natura culturale, ludico, sportiva ecc, svolti sia in luoghi chiusi che aperti al pubblico […]»
Non avevano scritto «politica e sindacale», ma nell’eccetera molti avevamo letto precisamente quello. «Il 29 c’è la manifestazione per Orso in Cirenaica», si diceva nelle mailing list. «Che faranno? Mandano la Celere a caricarci in quanto “untori”?»
L’ordinanza proseguiva:
«chiusura dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado nonché della frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore, corsi professionali, master, corsi per le professioni sanitarie e università per anziani ad esclusione dei medici in formazione specialistica e tirocinanti delle professioni sanitarie, salvo le attività formative svolte a distanza […] Sospensione dei servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura […] nonché dell’efficacia delle disposizioni regolamentari sull’accesso libero o gratuito a tali istituti o luoghi.»
I musei… ma non le biblioteche. Noi stessi, nei giorni seguenti, avremmo continuato a lavorare nella sala studio di una biblioteca di quartiere, piena zeppa di gente.
L’ordinanza era piena di nonsense e buchi, tanto che il giorno dopo una circolare applicativa avrebbe tentato di mettere toppe, col solo risultato di rendere la situazione ancor più contraddittoria e surreale.
Dicevamo della perlustrazione. La Bolognina era piena di gente. In Piazza dell’Unità si giocava a basket e si chiacchierava a capannelli, come sempre. Lì accanto, il supermercato Pam era aperto e affollato, come al solito. Nessuno faceva incetta nevroticamente, nessuno portava la mascherina. C’erano scaffali semivuoti, ma la domenica sera succede sempre.
Giusto il ristorante cinese, la sera prima, aveva un aspetto diverso. In un sabato normale, era impossibile trovare un posto a sedere senza aver prenotato. Invece, in tutto il locale, i clienti occupavano soltanto due tavoli.
In compenso i cinesi erano dappertutto, com’era normale in Bolognina, e nessuno che li scansasse o gridasse loro qualcosa. L’emergenza sanitaria non faceva diventare razzista o sinofobo chi non lo era. Semmai, faceva emergere un razzismo pre-esistente, che usava il virus come pretesto per sfogarsi.
Un tramonto di una bellezza da restare attoniti tingeva il cielo di scarlatto e carminio, per contrasto facendo sembrare nera la stazione vista dal ponte Matteotti, e trasfigurando tutto il mondo intorno. Il giorno dopo, avremmo rivisto quei colori su Repubblica on line, a far da sfondo per posti di blocco e gente in mascherina, come nella locandina di un film apocalittico di serie B.
A nord del ponte, la Bolognina; a sud, via Indipendenza saliva fino al Nettuno. Eravamo entrati in stazione ed era affollatissima, zero mascherine anche lì. Avevamo incontrato De Bellis, una vecchia conoscenza, e scambiato due chiacchiere sulla psicosi da coronavirus… ma intorno a noi non ce n’era traccia.
Normalità anche dentro il Despar della stazione, niente incetta, c’era chi comprava solo tre birre, un sacchetto di Fonzies… Intorno a piazza Medaglie d’oro i soliti bar, le pizzerie al taglio, le gelaterie… Tutto come di consueto.
Via Indipendenza, via dei Mille, Piazza dei Martiri, via Marconi… Là in alto, la sagoma scura di Villa Aldini. Moltitudine di corpi a passeggio. Bambine e bambini tornavano in costume da feste di carnevale, coi loro genitori.
Genitori tranquilli e sorridenti. Eppure, come appurato direttamente e da testimonianze altrui, le chat di genitori – il vero inferno del dark web contemporaneo – erano in preda alla pazzia, sature di un vero e proprio desiderio di fascismo profilattico, e di terrore per le sorti dei bambini.
L’allenatore di uno sport di squadra, per ovviare alla chiusura della palestra, aveva proposto ai ragazzini di trovarsi in un parco, visto il caldo primaverile. Una madre gli aveva risposto sottolineando il passaggio dell’ordinanza regionale che vietava l’aggregazione in luoghi pubblici e privati.
Eppure, in nessuna parte del mondo, nemmeno a Wuhan, risultavano morti minorenni, anzi, sembrava proprio che al nuovo virus i bambini fossero quasi immuni.
Forse anche chi rovesciava nelle chat quell’ansia e quella furia, dopo, per strada, si comportava da persona raziocinante. Anche quello era un gesto apotropaico. Uguale e contrario a quello di chi sosteneva che il virus era solo una barzelletta e sfornava calembours, si dava alla memetica spinta, cazzeggiava a getto continuo. Il cinismo e la paranoia vanno a braccetto, si nutrono della stessa sfiducia, dello stesso rifiuto per qualunque chiave di lettura del mondo. Senza chiavi, non entri più da nessuna parte. E se ti scappa da cagare, puoi solo cagarti addosso.
In ogni caso, se uno non avesse avuto lo smartphone, girando per le vie non si sarebbe accorto di nulla. Cosa dovevamo concluderne?
Forse che, almeno a Bologna, la paranoia era in gran parte confinata alla sfera mediatica-social.
A essere paranoica e ansiogena era stata per prima l’informazione mainstream. In seconda – ma rapidissima – battuta quel mood si era impossessato della classe politica, degli amministratori locali e di una minoranza di persone comuni. Sì, almeno da noi, sembrava proprio una minoranza: persone perlopiù attempate e sole, che credevano alla tv o a Facebook e si precipitavano in farmacia per accaparrarsi l’amuchina.
Si stava generando un grande paradosso: la Regione Emilia-Romagna disponeva la chiusura di (quasi) tutti i luoghi di cultura e socialità, quelli dove si sarebbe potuta elaborare insieme l’emergenza – scuole, musei, teatri, cinema – e vietava le manifestazioni con un «ecc», mentre la gente continuava ad ammassarsi nelle stazioni e nei luoghi del consumo.
I centri commerciali e i supermercati funzionavano as usual. Quel pomeriggio Jadel era stato all’Ikea e riferiva del sempiterno marasma di corpi che avanzavano a serpentone, tra camerette di bimbi virtuali e tinelli abitati da spettri di famigliole. Bruno era passato all’Ipercoop Lame: piena zeppa. Nelle palestre – le vedevi attraverso le vetrate che davano sui passeggi – ci si allenava come al solito: si sudava, ci si respirava l’alito a vicenda, ci si spogliava e si faceva la doccia negli stessi vani.
Sia chiaro, non stiamo dicendo che dovevano chiudere anche quelli: al contrario, facciamo notare che lo scopo dell’ordinanza non era la profilassi. Stante quella situazione, che profilassi vût mâi fèr?
Le strombazzate chiusure erano sanitariamente inutili, com’era stato inutile bloccare i voli, mettere posti di blocco sulle strade, far camminare avanti e indietro poliziotti e militari in mimetica.
L’Italia era stata l’unico paese europeo a bloccare i voli dalla Cina. Null’altro che teatro, oltreché un contentino agli idioti e mestatori che sbraitavano: «Chiudere le frontiere!» Un provvedimento facilissimo da capire, ma di nessuna utilità, anzi, controproducente.
A ogni epidemia si facevano le stesse cose, col pilota automatico, e ormai c’erano studi su studi a dimostrare che non servivano o facevano proprio danni.
Nel 2003, in piena epidemia di SARS, il Canada aveva sperperato oltre 7 milioni di dollari in controlli di passeggeri in arrivo… senza trovare un solo contagiato. Quei soldi, avevano concluso gli autori di uno studio apparso sulla rivista scientifica Emerging Infectious Diseases, sarebbe stato meglio investirli direttamente nella sanità.
Sei anni dopo, in pieno allarme da influenza «suina», l’Australia aveva fatto la stessa cosa: aveva militarizzato otto aeroporti e controllato quasi due milioni di passeggeri in arrivo o di ritorno nel Paese. Il tutto per identificare solo 154 persone che forse avevano l’influenza in forma lieve. Anche in quel caso, a detta di chi aveva analizzato la vicenda, si erano sprecate preziose risorse, sottraendole alla sanità.
Lo stesso sfoggio di inutilità si era avuto con l’aviaria, con Ebola e, in Cina negli ultimi due mesi, con lo stesso Covid 19.
Pure in Italia stavamo assistendo a un gigantesco sperpero di soldi pubblici, spesi in militarizzazione, posti di blocco e pattugliamenti vari anziché usati per potenziare la sanità pubblica – indebolita da trent’anni di «aziendalizzazione», tagli, esternalizzazioni – per renderla in grado di affrontare un acuirsi della crisi.
Anche l’efficacia sanitaria dei “lockdown” territoriali, cioè delle quarantene di massa, era messa in discussione da diversi studi. Per quanto fosse controintuitivo, alcune ricerche sembravano dimostrare che i lockdown delle zone ad alto rischio aumentavano il numero di contagi e l’estensione dell’epidemia.
No, la profilassi – almeno quella in senso stretto – c’entrava poco, come con le mascherine.


Bulåggna brancola nel buio delle ordinanze (26-28 febbraio 2020)

Tra i modi di dire felsinei, il nostro preferito era sempre stato: «As vadd di can caghèr di viulén».
Nel loro Dizionario bologneseGigi Lepri e Daniele Vitali lo rendevano con: «Succedono cose inaudite». Letteralmente, però, si vedevano «cani cagare violini». E in quei giorni di virus cagavano liuti, violoncelli, contrabbassi, pronti a suonare melodie stridule.
Dopo la prima puntata del nostro Diario virale, avevamo ricevuto decine di racconti, testimonianze, aneddoti sullo sfascio che l’ordinanza di Bunazén stava causando nel mondo del lavoro.
La settimana prima c’era stato lo sciopero degli edili, con manifestazione a Milano. Il 25 febbraio un’impresa di costruzioni romagnola, visto che i suoi lavoratori avevano partecipato al corteo, li aveva avvertiti con un sms che erano tutti in quarantena per quattordici giorni, e dovevano fare il tampone altrimenti li metteva in cassa integrazione.
Nelle aziende di alcune province, Confindustria voleva imporre ai dipendenti di riempire questionari invasivi, per appurare se erano entrati in contatto con «qualcuno che è stato in Cina/zone italiane attenzionate e presentava sintomi come tosse e/o febbre» o se avevano avuto rialzi di temperatura «oltre 37.2°». In alcuni call center si misurava la febbre ai dipendenti in entrata.
Il padronato, insomma, coglieva l’occasione per aumentare il controllo aziendale sui lavoratori. La Cgil aveva dovuto precisare:
«non è obbligatorio compilare nessun questionario proposto dall’azienda o altri enti che non siano quelli preposti (Dipartimento di Igiene Pubblica dell’Ausl);
l’autocertificazione che alcune imprese stanno richiedendo è illegittima oltre che essere una falsa tutela per i lavoratori […] Dobbiamo evitare che le aziende, fuori dalle procedure definite dalle Autorità competenti, in modo unilaterale prendano iniziative che possono creare allarmismo e panico e ledere i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.»
Alcune aziende usavano il coronavirus per imporre ferie forzate ai dipendenti, in modo da fargliele smaltire tutte – a febbraio! – e averli a disposizione per il resto dell’anno.
Vodafone aveva indetto la chiusura nazionale «ad esclusione delle attività di vendita, supporto vendita […] presidi del Customer Care, Security Operations Center e Network Operations», obbligando i lavoratori degli altri comparti aziendali – anche quelli delle zone non toccate dall’emergenza – a utilizzare le proprie ferie. Tentativo bloccato dalla Cgil di Bologna.
Una lavoratrice interinale era stata allontanata dal luogo di lavoro solo perché il marito lavorava in un’azienda del modenese dove il padrone era risultato positivo al virus.
– Solo dopo l’intervento del sindacato han tirato il culo indietro!
Di storie così ce n’erano uno sbanderno.
Tutto questo mentre il Garante per gli scioperi rivolgeva «un fermo invito» ai sindacati perché evitassero le astensioni collettive dal lavoro fino al 31 marzo.
Quindi, niente scioperi per più di un mese, proprio mentre i lavoratori subivano uno dei peggiori attacchi degli ultimi decenni.
In teoria non si potevano convocare nemmeno le assemblee sindacali, ma la Cgil le aveva fatte comunque, minacciando denuncia ai sensi dell’articolo 28 se i padroni avessero cercato di impedirle.
Ogni vertenza era comunque bloccata, dato che lavoratori e sindacalisti dovevano occuparsi dell’emergenza. Anche perché l’Inps dell’Emilia-Romagna aveva deciso di chiudere, mentre tutte le attività collegate – Caf e patronati – gestite dai sindacati restavano aperte al pubblico e assorbivano tutto il lavoro in più.
L’emergenza che toccava affrontare non era quella del virus, ma quella generata da ordinanze e circolari attuative, che ormai facevano epidemia per conto loro. Scollegate una dall’altra, da regione a regione, e recepite in misura diversa da comune a comune, con direttive applicative che si susseguivano a distanza di 24 ore, per rammendare i buchi che le direttive precedenti avevano prodotto.
A Bologna si toccavano picchi di ridicolo. «Bologna non si ferma», aveva detto il sindaco Merola mentre chiudevano musei, cinema e teatri, saltavano festival e fiere…
Restavano aperte le biblioteche. Proprio nelle biblioteche scrivevamo il Diario virale.
In quella più grande, Sala Borsa, frequentata da migliaia di utenti al giorno, l’amministrazione dispensava i dipendenti comunali dai contatti col pubblico. Precauzione che però non valeva per i lavoratori ausiliari della coop appaltatrice, i quali evidentemente potevano essere esposti al virus, purché mandassero avanti la baracca. [Su questo cfr. la precisazione nei commenti, N.d.R.]
La circolare applicativa della regione non disponeva la chiusura dei centri sportivi, ma la sindaca di un comune della cintura aveva deciso di chiuderli lo stesso. Così i dipendenti So.Ge.Se delle piscine di quel comune erano rimasti a casa, mentre quelli delle piscine di altri comuni continuavano a lavorare. Quella gente doveva spendere giorni di… cosa? Malattia? Ferie? Cassa integrazione?
Con le scuole chiuse, gli insegnanti percepivano comunque lo stipendio, ma i servizi di pulizia e mense erano in gran parte esternalizzati, e quei lavoratori erano senza paga. Idem i lavoratori del privato sociale, spesso impiegati nel sostegno alla didattica. Per loro i sindacati avevano chiesto il fondo d’Integrazione salariale, la vecchia “cassa integrazione”. Un sussidio noto per i suoi cronici ritardi e comunque ridotto del 20/30% rispetto allo stipendio. In realtà, i servizi svolti da quei lavoratori erano già pagati, già a bilancio, perché le cooperative che li fornivano avevano vinto bandi pubblici. Non ci sarebbe voluta chissà quale organizzazione per far arrivare quei soldi subito nelle tasche dei lavoratori. Dove invece non c’era un baiocco che inzuccasse con quell’altro.
I lavoratori delle coop sociali o delle piattaforme di servizi a domicilio – come l’accompagnamento di disabili e malati, la formazione e aggiornamento sui luoghi di lavoro, ecc. – si vedevano cancellato ogni appuntamento e di conseguenza i guadagni di intere settimane.
L’intero settore dello spettacolo era stato scaraventato in una crisi senza precedenti. Le imprese coinvolte non potevano sostenere i costi della chiusura, così finivano per chiedere ai lavoratori di rinunciare allo stipendio, o al posto di lavoro stesso. Il rischio della chiusura definitiva di piccoli teatri e cinema era altissimo.
Non solo: tutti i luoghi di lavoro ad alta concentrazione di personale o di pubblico erano a rischio. Ogni azienda bloccata dall’ordinanza si ritrovava ad affrontare il problema senza avere ricevuto la minima indicazione su come comportarsi.
Le disdette nel settore alberghiero e turistico arrivavano a raffica, sui giornali si parlava di un calo del 40% a livello nazionale. Tutte le fiere bolognesi erano state rimandate a maggio. Anche le forniture iniziavano a scarseggiare e molte aziende dovevano mettere in cassa integrazione i dipendenti perché impossibilitate a proseguire la produzione.
I sindacati gestivano l’emergenza caso per caso, azienda per azienda, cercando di non far perdere giornate di stipendio e chiedendo l’attivazione degli ammortizzatori sociali straordinari alle amministrazioni e al governo, che invece baccagliavano di «zone rosse» da isolare. L’insipienza di una classe dirigente selezionata in peggio da anni di retoriche populiste e tecnocratiche risultava in tutta la sua evidenza.
Anche l’accavallarsi di competenze amministrative e governative faceva danni, dimostrando che gli ambiti non erano chiari a nessuno.
Un lavoratore del modenese, malato di polmonite e positivo al coronavirus, era stato invitato dai medici a non recarsi all’ospedale, per non rischiare di infettare altri pazienti, e a farsi assistere a casa; ma il Prefetto era intervenuto per imporre il ricovero, nonostante il precedente dell’ospedale “bomba” di Codogno.
Il governatore delle Marche, benché nella sua regione non risultasse nemmeno un contagiato («ma abbiamo avuto casi al confine, a Cattolica»), aveva decretato la chiusura delle scuole. Il governo centrale aveva impugnato il provvedimento, talmente peregrino da illuminare la peregrinità degli altri. «No a iniziative autonome dei governatori», aveva tuonato il premier ConteIl TAR gli aveva dato ragione.
Lo stesso Conte ora parlava espressamente di «rischio recessione» e chiedeva di abbassare i toni.

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