mercoledì 18 marzo 2020

La ricerca è libera - Giuseppe Mingione




L’articolo di Andrea Ichino, apparso sul Foglio il 19 febbraio scorso, suscita non poche perplessità e, a tratti, rammaricato stupore. Il punto più discutibile del contributo di Ichino riguarda una sua concezione, secondo la quale, professori e ricercatori non dovrebbero essere liberi di fare ricerca su quello che interessa “solo a loro”, ma dovrebbero invece condurre le loro ricerche su tematiche che interessano alla gente, perché è la gente che paga i loro stipendi con le tasse. Questo argomento, che proposto al lettore medio in questi termini è ovviamente semplicistico, è però abbastanza populista da trovare periodicamente considerazione, e persino approvazione, presso certi pubblici a volte distrattamente liberisti, per usare una semplificazione terminologica. Questo argomento, in realtà, è confutato da qualche secolo di ricerca scientifica.

Non si contano infatti i casi in cui importanti innovazioni, con conseguenze decisive sulla vita quotidiana, sono avvenute casualmente per serendipity, o per collegamenti inaspettati tra campi distanti e a prima vista solo teorici, spesso generati dalle strambe curiosità di qualche singolo. D’altra parte, la locuzione curiosity-driven research non è stata coniata a caso, e descrive quella ricerca di base che ai docenti è dato diritto/dovere di compiere seguendo le loro inclinazioni e curiosità intellettuali. L’impresa scientifica ha sempre funzionato su questo patto fiduciario, e, bisogna ammetterlo, con un certo successo. Dal punto di vista storico poi, la ricerca ha sempre preso le mosse da problemi di interesse quotidiano. Ma è stato solo il dipartire da essi, con la costruzione di edifici teorici astratti e apparentemente poco concreti, che ha permesso di scoprire approcci diversi e più potenti, e di tornare ai problemi originali con una maggiore ricchezza di idee e di strumenti concettuali, e infine di affrontarli con successo. L’importanza di questo processo, complesso e stratificato, e quindi non riassumibile in un ciclo di valutazione burocratica e ministeriale di pochi anni, ci viene tristemente confermata proprio in questi giorni. Nell’ultimo mese e mezzo abbiamo assistito ad una esplosione di instant paper dedicati ai corona virus, che erano invece stati precedentemente meno considerati. Come mai? Facile rispondere. Adesso, ma solo adesso, interessano all’uomo della strada. Peccato che ci si arrivi un po’ tardi. Se questi virus fossero stati studiati di più prima, anche solo per mera curiosità, oggi sapremmo come affrontarli meglio, li conosceremmo di più, e maggiore conoscenza genera, come noto, meno panico. Per ulteriori dettagli si veda anche l’ottimo articolo di Luca Carra e Sergio Cima pubblicato su Scienzainrete il 21 febbraio scorso. È buona pratica, insomma, esplorare le direzioni suggerite dalla curiosità personale, anche se apparentemente lontane dalle applicazioni concrete. Dinanzi ad una realtà più vasta e ricca di sorprese di quello che possiamo immaginare, è nostro dovere non essere arroganti, cioè non credere di sapere a priori cosa interessi davvero o meno. Ichino pare vedere con preoccupazione un ritorno al principio costituzionale secondo cui: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. A dire il vero, non risulta che questo principio sia mai stato abrogato. In termini più o meno simili, esso vale in tutti i paesi dotati di un sistema universitario degno di questo nome, a partire dagli Stati Uniti, dove i fondi di ricerca sono assegnati dalla National Science Foundation previa valutazione fatta da panel di studiosi, non di studenti. L’improbabile eliminazione del suddetto principio di libertà – quello sì – segnerebbe l’uscita dell’Italia dalla comunità scientifica internazionale. Comunità nella quale la ricerca italiana è, nonostante sottofinanziamento e baronie, molto ben collocata, secondo ogni rilevazione basata su dati freddi piuttosto che su aneddoti social o di settore. Sulla bibliometria. Si tratta probabilmente dell’unico modo di effettuare valutazioni massive di strutture, dove lo strumento sia disponibile. Permette di prevenire disomogeneità di criteri e casualità di giudizio. Nella prossima valutazione il vincolo bibliometrico, in realtà, non ci sarà. Si lascerà spazio a scelte più soggettive di comitati i cui componenti saranno per di più selezionati essenzialmente tramite sorteggio, e non per il peso del loro curriculum. Ne uscirà a mio parere un’altra valutazione dai tratti discutibili. Nell’ultima valutazione, la bibliometria era stata usata, vero, ma su un arco temporale troppo ristretto. Le pubblicazioni di maggiore importanza risultano quasi sempre le più citate, ma solo dopo un certo numero di anni, necessario alla comunità per assorbirne il contenuto. Gli standard internazionali considerano di solito una decina di anni, non tre o quattro; non si capisce perché in Italia non siano stati seguiti. Personalmente, non ho mai dato troppo peso scientifico alle passate valutazioni, ma non sono il solo. L’idea iniziale della valutazione della ricerca, era buona. Fatti i primi passi, si è andati molto, troppo oltre, in un tumultuoso crescendo di valutazioni secondarie, di regole e parametri, di lacci e lacciuoli. L’università italiana si ritrova quindi preda di una burocrazia asfissiante e autoriproduttiva, che pretende di regolare ogni singolo attimo della vita professionale di chi ci lavora. Produrre carte, e poi “metterle a posto”, sembra essere la nuova mission. Chi per passione ha scelto di fare ricerca ha bisogno di tempo per pensare, per immaginare, per creare, con libertà e fantasia, anche e soprattutto nelle discipline scientifiche. Attualmente questo tempo viene spesso impiegato a riempire schede e questionari kafkiani, di non si sa quale valore scientifico o evidenza empirica, in uno scenario di incentivi che non avvantaggiano le persone di talento, ma quelle maggiormente versate nella burocrazia creativa. Scomodiamo Giuseppe Verdi, “Torniamo all’antico, sarà un progresso”.


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