giovedì 19 marzo 2020

gli operai non si fermano mai

Tutti a casa. Tranne gli operai - Simona Baldanzi

I telefoni dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls) in tutta Italia sono infuocati. Improvvisamente si scopre che c’è una figura che rappresenta tutti i lavoratori prevista per legge per tutti i luoghi di lavoro e che deve essere consultata su tutti i rischi aziendali. Il Covid19 è un nuovo rischio, uno shock.  In un’assemblea provavo a definire lo shock della figura del Rls (prevista a partire dalla legge 626 del 1994, ma di cui si iniziava a far cenno nello Statuto dei lavoratori che a maggio compie 50 anni) nel mondo del lavoro:
«Bisogna riconoscere che il Rls è una figura shoccante. Lo è per i lavoratori, lo è per le aziende, lo è per le organizzazioni sindacali. È uno shock perché è una figura che per legge deve esserci e deve essere formato e ancora non se ne conoscono diffusamente le potenzialità. A questo, per tanti anni, non siamo stati abituati, perché, passatemela, il sindacalista classico non è questo, non c’è per obbligo, non è formato per forza».
L’emergenza generale per la diffusione del Covid19 fa conoscere massicciamente questa figura anche laddove non se ne era mai sentito parlare. Mette in luce anche le responsabilità per tutte le figure coinvolte a partire dal datore di lavoro, il Rspp (Responsabile del servizio prevenzione e protezione), il Medico Competente. Si capisce che il Documento di valutazione del rischio (Dvr) – il documento che valuta tutti i rischi anche questo obbligatorio per tutti – per alcuni settori ha sì il rischio biologico, ma non contiene il Covid19 e lo scenario che si sta creando soprattutto negli ultimi giorni, quindi bisogna correre ai ripari. Aggiornare il documento vuol dire valutare il rischio e predisporre le misure necessarie a contrastarlo. In fretta e con i cambiamenti di tutti i giorni dovuti ai decreti ministeriali e alle misure regionali, il mondo del lavoro si è trovato di fronte a una nuova minaccia sulla salute. Una minaccia diffusa, insidiosa e rapida su tutto il territorio, per il lavoro in aggiunta a polveri, gas, amianto, veleni e sostanze di ogni tipo, fatica, stress, turni, movimentazione di carichi, rischi di ogni forma vissuti quotidianamente. 
A Prato le antenne si sono drizzate da quando l’epidemia del Covid19 è esplosa in Cina. Nelle istituzioni e nei servizi di prevenzione c’era già un’attenzione molto alta. La comunità cinese pratese, come raccontato sulla stampa e come riconosciuto dai medici dell’ospedale Spallanzani che per primi si sono interfacciati con i due contagiati turisti cinesi, ha applicato da subito e con successo le misure di auto quarantena e di tutela come erano in vigore nel proprio paese. Nei luoghi di lavoro però l’allerta è arrivata solo adesso come in tutto il paese. Con l’idea che le merci non fossero portatori del virus, ci siamo come dimenticati che i luoghi di lavoro sono fatti anche di individui che si muovono, che vengono dalle zone rosse, che vivono a stretto contatto. Questa la dice lunga su come ha scavato in tutti il sistema economico in cui viviamo. Si temevano i cinesi e le merci cinesi, non temevamo noi stessi. Nella percezione del rischio abbiamo fatto esattamente come con le morti sul lavoro: «tanto non tocca a me, tanto non mi riguarda, tanto non possiamo farci nulla». 
Nella chat dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza della Cgil di Prato ci siamo scambiati dal 22 febbraio, all’indomani della notizia del caso di Codogno, indicazioni per la valutazione del rischio. Chi ha provato a muoversi subito nei luoghi di lavoro è stato denigrato. Anche all’indomani delle prime misure ministeriali o regionali, nei luoghi di lavoro si è minimizzato. «Gli Rls sono troppo previdenti, troppo rompiscatole, ci stiamo pensando a livello aziendale». «Sì, ora vediamo dove e come mettere i cartelli, come dare le comunicazioni, come ordinare saponi e soluzioni». «Non vi agitate, non fate entrare il panico fra i lavoratori». In barba agli articoli di legge che li vuole «coinvolti» sono stati isolati più del solito. 
La nostra chat si riempiva di documenti e indicazioni, così come le mailing list di Rls di vari settori italiani in cui sono inserita, per primi i ferrovieri. Leggevo richieste di incontro, lettere, segnalazioni, proposte. Certo l’emergenza è per tutti, fuori e dentro il lavoro ed è stata una rapida escalation, ma molti Rls si sono mossi per tempo e non si sono ascoltati e non si stanno ascoltando. Minimizzare, eludere, ritardare, non fare finché non siamo nel problema fin dentro il collo, scegliere fra salute e profitto. A questo siamo abituati, basti pensare a Taranto, alle acciaierie di Terni e Piombino, a Monfalcone, alla Strage di Viareggio, ai numerosissimi processi sulle morti sul lavoro che finiscono con nessun colpevole e sono in carico al dolore dei familiari e a pochi altri. Inutile sgolarsi a non farle chiamare morti bianche, a spiegare che la dicitura con cui si equivoca il bianco è «omicidi bianchi» e non le morti, perché si voleva denunciare che bianchi, non compilati, sono i responsabili quando invece poi se si studiano morti e infortuni le colpe e le responsabilità ci sono tutte e sono in carico all’organizzazione del lavoro.  
Cosa sta succedendo adesso? Dopo le ultime misure nazionali dilaga il tutti a casa, ma il tutti a casa non vale per tutti. Non tutto il mondo del lavoro può stare a casa con telefono e computer. Il decreto intima che ci si può spostare solo per necessità e per comprovate esigenze lavorative. Le comprovate esigenze lavorative chi le misura? Al momento non stiamo interrompendo tutto ciò che può fermarsi e non è misura essenziale per la sopravvivenza, anche se la Lombardia, sia come istituzioni che come sindacati confederali lo stanno richiedendo, così come a livello nazionale si sta chiedendo un rallentamento generale. 
Le segnalazioni che ho ricevuto negli ultimi due giorni sono solo un piccolo spaccato: 
§  squadre di elettricisti che ritornano dalla Lombardia, qualcuno si mette in quarantena, qualcuno va in giro perché tutti fermi non si può;
§  falegnami che sono senza mascherine e loro che le usano sempre per proteggersi dalle polveri di legno che sono cancerogene non ne trovano più;
§  commesse a cui viene chiesto di non mettere mascherine o guanti o cartelli di allerta perché scoraggiano le vendite;
§  negozi e bar o uffici e sportelli dove non si rispettano distanze e affluenza;
§  farmacie dove non sta bene mettere cartelli con scritto «mascherine e soluzione igienizzante terminata» perché devono entrare comunque e compreranno altro; 
§  misure igieniche non rispettate in diversi contesti lavorativi (aponi? Soluzioni? Igiene? Li avete mai visti certi bagni o spogliatoi nei capannoni?);
§  campi base con lavoratori che vivono in promiscuità e con la provenienza dei trasfertisti come si fa? 
§  fisioterapisti, assistenza agli anziani, produzione alimentare o tessile in catena come fanno a mantenere le distanze?
§  Commerciali, manager, vetrinisti mandati in giro per i negozi anche se venivano dalle zone rosse o limitrofe ai focolai;
§  Timore a segnalare casi sospetti o motivare chiusure (reparti/ negozi) per lavoratori messi in quarantena;
§  Trasporti in tilt con ferrovieri, autisti, corrieri che chiedono perché e come dobbiamo muoverci/ proteggerci?
Senza poi contare il caos di chi è già fermo e non sa cosa succederà, fra  autocertificazioni fatte compilare in modo improprio fra i datori di lavoro, decurtazioni di stipendio già comunicate, ferie o malattie forzate, riduzioni di organico e decisioni unilaterali senza passare da consultazione sindacale. Molte lavoratrici e lavoratori starebbero anche a casa, chiamano perché pretendono attenzione alle misure e alla salute, chiedono come fare, hanno paura sia dei contagi che del rimanere col culo a terra, hanno figli a casa per via della scuola e anziani o malati a cui portare la spesa. Tutta questa grande misura eccezionale di prevenzione che stiamo mettendo in campo non può essere solo sulle spalle delle lavoratrici e dei lavoratori della sanità pubblica e di tutto il personale coinvolto massicciamente nell’emergenza (chiamiamoli lavoratori non eroi, perché eroi ci deresponsabilizza; chiamiamoli lavoratori perché stanno dentro un sistema pubblico che si è voluto smantellare negli anni e non sui miti o in cielo o da altri pianeti). Questa emergenza non la possono pagare i più deboli, non la possono pagare gli operai, i precari, i lavoratori in appalti, chi non ha nessuna garanzia o supporto in ogni settore, gli ultimi.
Il sostegno al reddito per chi non lavora e per chi è costretto a casa è il primo dispositivo di protezione individuale universale che sta mancando, proprio come le mascherine e altri Dpi che sono carenti un po’ ovunque. 
L’ultimo film che ho visto al cinema prima della chiusura totale di tutte le sale è stato Snowpiercer dentro la rassegna dedicata al regista coreano premio Oscar, Bong Joon-Ho. Mentre tutto il mondo è ricoperto da una coltre di ghiaccio per una nuova era glaciale procurata dalle azioni degli umani, gli ultimi sopravvissuti viaggiano ormai da 17 anni su un treno. Il treno è autosufficiente e suddiviso in vagoni.  Vagoni che descrivono bene la suddivisione in classi e come si svolge la vita in condizioni di limitazione suprema. 
I morti nelle rivolte delle carceri avvenute in tutta Italia per le restrizioni ai colloqui in seguito al diffondersi dell’epidemia mi hanno ricordato terribilmente certe immagini del film. Sento spesso l’espressione, «sembra di essere in un film» o «surreale» per descrivere la sensazione di irrealtà in cui ci troviamo. La donna che cerca di reprimere la rivolta sul treno cerca di spiegare così la divisione in classi: 
«Voi vi mettereste una scarpa in testa? Naturalmente non lo fareste mai. Le scarpe non sono fatte per la testa, le scarpe appartengono ai piedi e in testa si mette il cappello. Il cappello sono io, voi siete le scarpe, io appartengo alla testa, voi a piedi. Così è, questa è la realtà». 
Ecco oggi ci affidiamo alle teste degli scienziati, ci impegniamo a rispettare le direttive dell’Organizzazione mondiale della salute, ci atteniamo ai decreti ministeriali e regionali, siamo ligi al dovere, al senso di responsabilità e al bene comune provando a sottrarre sempre più spazio al virus. Però lo lo riusciamo a fare davvero solo se ci ricordiamo che la locomotiva del paese la mandano avanti lavoratrici e lavoratori. Chi da sempre chiede salute e sicurezza nel lavoro e prima la salute, ora e nel futuro non può essere considerato solo una scarpa.
da qui


Infermieri: eroi o carne da macello ?

Radio Onda Rossa, assemblea radiofonica
Ascolta le testimonianze degli infermieri dagli ospedali romani.

E’ morto Diego, un soccorritore del 118 di Bergamo
È morto di Covid 19
A darne l’annuncio i soccorritori di ADL Cobas Lombardia della Sanità.
Diego, lavorava sull’ambulanza a Bergamo, aveva 45 anni e una figlia, Diego era un lavoratore preparato, un soccorritore che ha sempre utilizzato i dispositivi di protezione individuali, non era anziano e non aveva altre malattie.
Diego era uno dei 700 operatori sanitari, medici, infermieri, soccorritori, oss che già sono stati contaminati.
Nel nome di Diego chiediamo come operatori della Sanità misure straordinarie di Protezione per tutti i soccorritori e gli operatori sanitari, che dovrebbero indossare sempre i dispositivi di protezione integrali da Covid 19.
Chiediamo che tutte le cliniche private convenzionate mettano a disposizione posti letto per contagiati da covid 19.
La cosa che ci preoccupa di più è la leggerezza con cui si abbandonano le lavoratrici ed i lavoratori al loro destino mettendo davanti gli interessi di confindustria.
Siamo preoccupati come operatori del settore dell’intesa tra Governo, Sindacati confederali e confindustria, siglata proprio oggi, un’intesa sbilanciata troppo sul profitto e che mette al secondo posto la salute dei lavoratori e delle lavoratrici.
Non saranno certo mascherine e guanti a salvare dal contagio i lavoratori e le lavoratrici, bisogna chiudere adesso e istituire subito un reddito di quarantena, fermare tutte le produzioni, non è necessario in questo momento a combattere la lotta al covid 19.
I padroni insieme alla complicità dei sindacati confederali possono rimandare il loro profitto a quando avremo sconfitto il corona virus.Ma adesso dovete rimanere a casa tutti, altro che guanti e mascherine.
Oggi piangiamo Diego ma finita l’emergenza faremo i conti sicuri di avere al nostro fianco chi oggi ci chiama angeli
Riccardo Germani
Portavoce ADL Cobas
operatore Sanitario



USB: a Roma personale degli ospedali senza dispositivi di protezione o “difeso” da stracci antipolvere. Smentite le chiacchiere di Speranza
Formalmente a Roma va tutto bene, bollettini tranquillizzanti dallo Spallanzani e dalla Regione. La realtà dice altro, parla di un sistema sanitario in grande difficoltà prima ancora che si manifesti l’atteso picco dei contagi. La Federazione romana dell’Unione Sindacale di Base sta raccogliendo informazioni e denunce dalle varie realtà.

Non bastasse lo scandalo dei medici di base, che a oggi non hanno ricevuto lo straccio di un presidio anticontagio pur rappresentando il primo filtro territoriale, molti ospedali sono a corto di mascherine, non solo FFP2 e FFP3, ma anche di semplici protezioni chirurgiche.
Al Sant’Eugenio hanno ricevuto una fornitura di panni antipolvere riadattati con forbici ed elastici a mascherine di fortuna; la dirigenza, a ragione, ne ha vietato l’uso ma qualche primario sostiene che il personale non ha bisogno di mascherine. L’aria nel nosocomio dell’Eur è pesante: 2 dei 12 operatori del Dea si sono infettati e c’è forte preoccupazione per i prossimi giorni.
Al San Giovanni per avere una (1) mascherina bisogna firmare, mancano le protezioni anche all’Umberto I e non va meglio negli altri ospedali del territorio.
USB si chiede che fine facciano le tanto sbandierate maxi-forniture di mascherine, anche certificate, dall’Italia e dall’estero, e perché il ministro della Salute Roberto Speranza si ostini a dichiarare che “la priorità per affrontare l’emergenza è difendere il nostro personale sanitario che sta facendo un lavoro straordinario in queste ore. Il modo migliore per farlo è garantire prima di tutto a loro i dispositivi di protezione individuale”. Stando a quel che accade a Roma, ma anche in altre parti d’Italia, le affermazioni del ministro sembrano chiacchiere in libertà.
Unione Sindacale di Base – Federazione di Roma
14 marzo 2020


INFERMIERI MINACCIATI DI LICENZIAMENTO SE INFORMANO I GIORNALISTI DELLA REALE SITUAZIONE NEI REPARTI
Spett. quotidiani,
l’associazione avvocatura degli infermieri ha ricevuto migliaia di segnalazioni scritte e firmate da infermieri che lavorano in strutture pubbliche diffuse in tutto il territorio anche se, perlopiù, dalla Lombardia, Lazio, Basilicata, Campania e Sicilia, lamentando uno stato di abbandono e di emarginazione, prevalentemente per l’assenza totale di mascherine e minacce di licenziamento se gli infermieri dovessero informare i giornalisti d quello che accade in questi servizi.
La situazione è grave soprattutto perché si rastrellano infermieri dai servizi estranei alla degenza per gettarli, senza alcuna formazione e screening, nei reparti ad alto rischio infettivo e senza dotarli delle più elementari presidi di sicurezza.
In molte occasioni sono stati obbligati, con ordini di servizio scritti, ad utilizzare una singola mascherina chirurgica per una settimana, destinate al macero, e diversi sono, quindi, risultati positivi al tampone.
A Torino, addirittura, gli infermieri in isolamento attendono, con ansia, l’esito del tampone in quanto i reagenti chimici sono terminati.
Non si tiene neppure conto delle situazioni familiari e quindi anche infermieri con neonati vengono minacciati se non si gettano nel girone dell’inferno, ovviamente senza alcuna minima protezione.
Sul nostro sito www.aadi.it alla sezione news potete fin d’ora leggere le diffide inviate (se ne aggiungeranno altre, Salerno, l’ospedale Grassi di Ostia, Lavinio, ecc.) dove abbiamo scritto, senza remore, quello che succede.
La cosa ancora più grave è che si impedisce agli infermieri di denunciare l’infortunio, qualora si infettino in servizio, a favore di una semplice malattia; in questo modo le aziende non risponderanno del danno differenziale da infortunio colposo.
Questo non è il modo di procedere e trattare chi si sta sacrificando per il benessere collettivo e da questo Governo, che si dichiara attento e civile, non ce lo aspettavamo; siamo profondamente delusi.
Per questi motivi si elogiano spesso solo i medici compiacenti e si fanno parlare nelle trasmissioni televisive create ad hoc solo loro; se parlassero gli infermieri che lavorano in prima linea certamente verrebbe fuori la verità.
Vi invito, quindi, ad esaminare le nostre diffide così da diffondere la verità e onorare il sacrificio di migliaia di infermieri che si stanno abnegando anche per voi.
Dott. Mauro Di Fresco
Associazione avvocatura degli infermieri
12 marzo 2020


Morire di lavoro: Samuel Remel come Reuf Islami, Paolo Guarino e tanti altri - Vito Totire

L’infortunio mortale a Carpi ci ricorda che… è impossibile dimenticare il 21 marzo 2002 a Bologna: da Samuel Remel a Reuf Islami, una strage infinita.
Il coronavirus sta mettendo la sordina ad altri disastri. Invece occorre sempre essere vigili.

Nella patria di Bernardino Ramazzini (Carpi) si sono bevute tranquillamente dosi di amianto certamente da evitare. E martedì 10 marzo 2020 si è consumata l’ennesima tragedia, questa volta ai danni di un lavoratore immigrato ghanese, SAMUEL REMEL.
Pare di essere tornati alle origini delle analisi marxiste sulla «accumulazione capitalistica primitiva». Alcuni comparti lavorativi infatti hanno visto attecchire forme di effettivo neoschiavismo (logistica, agricoltura, gig-economy, ma anche nel telelavoro e nel mitico smart-working). In effetti il padrone sfrutta chi può e come può (per come gli viene consentito dalla complicità dei “decisori politici”). Statisticamente il dislivello di potere gioca a sfavore degli immigrati tuttavia il “filo conduttore” non è il colore della pelle ma lo sfruttamento.
Si pensi a Paolo Guarino di 65 anni, morto in un cantiere edile a San Benedetto del Tronto (ne ha dato notizia «il manifesto» del 19 febbraio). Immigrato pure lui ma dal salernitano. Morto per un infortunio che pare identico, nella dinamica, a quello di Reuf Islami.
Le ultime fredde statistiche Inail (che pure, per le note ragioni, sottostimano il “fenomeno”) parlano di incremento di mortalità occupazionale fra i lavoratori nati fuori dall’Italia.
Nonostante lo sbandieramento propagandistico e quotidiano di “scelta green” e/o “industria 4.0”, algoritmi, “internet delle cose” eccetera l’operaio ghanese faceva manutenzione su ingranaggi che lo hanno ucciso.
DA DECENNI – O DA SECOLI? – SI SA CHE LA MANUTENZIONE VA FATTA SU IMPIANTI FERMI. Ma rallentare non si può…
Reuf e Paolo Guarino lavoravano in scavi non puntellati!
Non serve “intelligenza artificiale” per prevenire queste morti sul lavoro! Bastano e avanzano le semplici capacità cognitive umane!
Se queste minime misure vengono violate – paradossalmente anche nella patria di Ramazzini – vuol dire che la pelle dell’operaio, a prescindere dal colore, NON VALE NULLA.
Torna ancora in mente Reuf Islami, operaio “clandestino” ucciso dalla omissione di misure di sicurezza in lavori edili IL 21 MARZO 2001 in via Ranzani a Bologna, nell’ambito di una attività di subappalto connessa a lavori pubblici.
E’ penosa l’attività di rimozione che il Comune di Bologna sta portando avanti sull’omicidio di Reuf Islami (**). Accolta in parte la nostra proposta di “ricordare” l’evento, la commissione toponomastica avrebbe optato per la apposizione di una targa senza intitolare a Reuf un toponimo; ma poi della targa il Comune di Bologna si è vergognosamente dimenticato (benché un assessore di turno abbia sostenuto che la targa era un problema di costi).
In verità l’assetto territoriale del luogo dell’omicidio è cambiato: quella che era una piccola e angusta area chiusa sbocca ora in una via aperta. Dunque l’ipotesi di intitolare la strada a Reuf torna di attualità.
E’ quello che noi ancora oggi rivendichiamo, senza l’illusione di voler affermare i diritti dei lavoratori attraverso la toponomastica ma quantomeno rigettando amnesie politiche e ipocrite rimozioni.
Noi metteremo fiori virtuali per Reuf il 21 marzo ed esprimiamo solidarietà ai familiari e compagni di Samuel perché la sua morte – lo sosterremo come parte civile nell’inevitabile (auspichiamo) procedimento penale – pur se non è risarcibile con il denaro almeno costi cara ai responsabili.
PER IL 21 MARZO CHIEDIAMO UN GESTO CHIARO DA PARTE DEL SINDACO DI BOLOGNA: SULL’OMICIDIO DI REUF NON CONSENTIAMO AMNESIE.,
NEL PROSSIMO DOCUMENTO-COMUNICATO FAREMO UN APPELLO PER ORGANIZZARE IN TUTTE LE PROVINCE (O TERRITORI SUBPROVINCIALI) ISTRUTTORIE PUBBLICHE CONTRO GLI INFORTUNI MORTALI E PER IL DIRITTO ALLA SALUTE NEI LUOGHI DI LAVORO.
(*) Vito Totire per il coordinamento di AEA (Associazionre esposti Amianto), del circolo Chico Mendes e del Centro Francesco Lorusso


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