domenica 22 marzo 2020

ricordo di Gianni Mura



Pantani trovato morto in un residence - Gianni Mura

14 febbraio 2004 – Marco Pantani ha cominciato a morire quella mattina del ’99, a Madonna di Campiglio. Non ha accettato la positività, non ha accettato niente di quello che gli capitava. Tanti altri corridori, invischiati nelle faccende dell’ematocrito, del doping, si sono fermati e sono ripartiti. Lui no. Lui, il re delle salite, si è specializzato nelle discese. Agli inferi, ai paradisi artificiali, a tutto quello che lo nascondeva all’opinione pubblica, ai giornalisti, ai giudici. Si è sempre più isolato, la sua fuga ha avuto distacchi crescenti. E ogni tanto, su questo o quel giornale, su questa o quella televisione, gli appelli: Marco, torna.
Appelli giusti, perché il ciclismo senza Pantani era ed è, così appare in questo momento tristissimo, una minestra assolutamente senza sapore. Un palcoscenico senza un prim’attore, con volenterosi caratteristi che però non riescono a dare una scossa al cuore del pubblico. Pantani ci riusciva benissimo, era la sua grande specialità. Pantani sulle salite era l’equivalente dell’acrobata senza rete. Un rituale, con cadenze quasi mistiche. La spoliazione, per esempio: via il berrettino, via la bandana, a un certo punto via anche gli orecchini. Era come un samurai. Ed erano gli altri a saltare per aria. Erano gli altri a non reggere il suo passo, che all’inizio sembrava quello sghembo, di un arrotino, lo zigzagare incerto di un aratro, ma più la salita assumeva pendenza più diventava una condanna, una specie di campana a morto per chi doveva inseguire e non ce la faceva assolutamente a tenere quel ritmo.
Un giorno, al Tour, gli avevo chiesto: «Perché vai così forte in salita?» E lui ci aveva pensato un attimo e aveva risposto, questo non riesco a dimenticarlo: «Per abbreviare la mia agonia». Ecco, pensando a questa frase ho fatto i calcoli: la sua agonia è durata qualcosa meno di cinque anni. Però è stata un’agonia. Pantani è stato troppo grande in bicicletta per accettare di essere piccolo, peggio di essere rimpicciolito per legge, di essere uno come tanti. Non era questa la vocazione, non era questo il suo destino. La sua vocazione era quella di svegliare le montagne, di essere paragonato a un fossile, Pantadattilo l’avevo battezzato un giorno, perché mi dava l’impressione di un animale preistorico, una specie di Godzilla su due ruote, qualcosa che rompe l’asfalto delle strade nuove, le regole del nuovo ciclismo (che l’hanno portato dove l’hanno portato, per inciso) e riporta ai tempi eroici, a quelli di Binda, o più ancora, più lontano, di Giovanni Gerbi detto il Diavolo Rosso, che somigliava nel fisico, nella pelata, a Pantani.
E questa pedalata di Pantani era un linguaggio universale, non a caso i francesi, con la loro puzza sotto il naso in fatto di ciclismo e non solo, l’avevano adottato. Saltavano sui tornanti del Galibier o del Plateau de Beille esattamente come i romagnoli, i bergamaschi, i liguri. Pantani era uno spettacolo, e chi l’ha visto, in quegli anni, soprattutto nel magico ’98, l’accoppiata Giro-Tour, non se lo può dimenticare. Era un corridore diverso dagli altri, come uno che vuole essere diverso. Anche questo soprannome di Pirata, che s’era scelto, quel cranio rasato a zero anche quando il sole dei Pirenei avrebbe raccomandato prudenza. Lo scalatore di Cesenatico, si usava dire. Ma i nonni venivano da Sarsina, un paese dell’Appennino romagnolo dove ancora ci sono le processioni per salvare gli indemoniati, e al loro collo si mette il collare di san Vicinio. Il paese di Plauto, anche, ma Pantani non aveva maschere. Aveva solo la sua faccia, normale, gli occhi profondi, un po’ liquidi, le orecchie larghe, a sventola. Da ragazzino, raccontava, andava sempre a scuola col coltello in tasca, «per difendere i più deboli». Non ho mai indagato oltre. Ha avuto tanti incidenti, in carriera: si è spaccato le gambe, si è rotto dappertutto, si è sempre rimesso in piedi.
A Madonna di Campiglio è stato come tagliato in due, non si è più rimesso in piedi. Ha accusato il mondo di accanimento nei suoi confronti, e forse un po’ aveva ragione. Ma lui era qualcuno di molto grosso, nell’acquario del ciclismo, e il pesce grosso fa più notizia. Questa, stanotte, è l’ultima volta che fa notizia, ed è una brutta notizia per quelli che nonostante tutto hanno continuato a volergli bene, quelli che, come me, si erano abbonati a una formula di comodo (lo considero disperso in Russia) per non ammettere fino in fondo l’inquietudine, il dispiacere. Da anni si sapeva delle cosiddette cattive compagnie, delle droghe non solo ciclistiche, dei privé delle discoteche, i carissimi amici che forse non erano tanto amici, ma chi si può assumere il diritto di andare a consigliare un disperato? Perché, sostanzialmente, questo era Pantani. In cima al mondo con la sua bici, e nessuno senza la sua bici, e poche le possibilità di tornare a essere qualcuno con quella bici. I tentativi li aveva fatti, anche all’ultimo Giro d’Italia, per quanta buona volontà ci avesse messo, aveva finito al quattordicesimo posto. Non era da lui.
Adesso, in un paragone probabilmente esagerato, dovuto all’ora tarda o al dolore, si può dire che Pantani senza bicicletta era come l’albatros di Baudelaire. Adesso, che non si sa di preciso come è morto, si può dire che raggiunge i ciclisti morti di malamorte, di morte strana: Pélissier steso a revolverate dall’amante, Pottier impiccato nel garage per una delusione d’amore, Robic ridotto a fare l’uomo-cannone al circo, e poi schiantatosi in auto in una curva, Ocaña che si è tirato una fucilata in bocca nelle sue vigne di Villeneuve-de-Marsan. Adesso si può dire, ma è tardi (è tardi per moltissime cose, è troppo tardi) che a Marco Pantani è venuto a mancare Pezzi, la sua stella polare e anche morale, l’unico che era riuscito a spronarlo, a fargli fare la vita del corridore, ad avere un’influenza su di lui anche da morto, tanto è vero che il Tour del ’98 Pantani lo aveva dedicato alla memoria di Pezzi. E tutti continuavano ogni tanto a dire Marco torna, ma non poteva tornare. Ormai si era isolato in un mondo suo, con delle regole sue.
Giravano leggende metropolitane, anzi romagnole: è sempre in palestra, sta pensando al body building. Io continuavo a darlo per disperso, sapevo che non sarebbe più tornato, e sapevo, anche se è facile dirlo adesso, che sarebbe finito male. Non così presto però, in questo modo no, non lo aspettavo. Se ne riparlerà, è inevitabile, si sta parlando di una morte che addolora tutti, che non si sa ancora a cosa attribuire, se a un gesto volontario, a un errore. Resta emblematico il nome dell’ultima scena, che non era una salita: le Rose. Sono fiori romantici. Altri osserveranno che è triste morire da soli la notte di san Valentino. Morire da soli è triste, comunque, in qualunque notte. E Pantani, negli ultimi anni, era un uomo molto solo, anche se attorno poteva avere tanta gente. Era la solitudine di chi non riesce più ad accettarsi così com’è, e nemmeno la vita che questo comporta.
Gli sia lieve la terra, al fondo di questa lunga discesa. Diventerà un mito, probabilmente. Come quelli che muoiono troppo presto, come quelli che non si sa perché muoiono. Avrei preferito vederlo invecchiare, e bere un bicchiere di Sangiovese con lui, da qualche parte sulle sue colline.


Pantani, 10 anni dopo. Mura: “Quando morì, pensai di lasciare Repubblica”

Con il menisco evaporato (“E’ a pezzi, strano per uno che dallo sport è stato lontano”) e le sigarette razionate (“Ormai, a un passo dalla crisi d’astinenza, prediligo solo quelle più importanti: al cesso, dopo il caffè, alla fine del pasto”) Gianni Mura non ha mai venduto fumo. Non firma appelli e rifiuta da sempre di iscriversi al Partito. A 68 anni, non ha cambiato idea: “Vorrei chiamarmi fuori dai due schieramenti che dalla morte di Pantani si danno battaglia con immutabili argomentazioni che non mi appartengono”.
Ce le espone?
Chi urla: ‘Cazzo, ancora ce la menate con questo drogato’ e chi risponde: ‘Lo hanno imbrogliato, era un angelo caduto dal cielo, vittima di un complotto cosmico’. Pantani aveva una grandissima umanità. Se lo sono dimenticati tutti.
Non i tifosi
Pantani ha vinto una quarantina di corse, quante Merckx in una sola stagione. Ma sapeva accendere la fantasia come pochissimi altri. Durante il tour del ’98 l’Italia si bloccò. Le vecchiette in estasi, la gente accalcata al bar come negli anni 50. Se ancora, in quei sacrari verticali che sono le salite, la gente mette cartelli per ricordarlo significa che l’eco delle emozioni non si è spenta. Nei suoi confronti c’è una gratitudine che va oltre il rimpianto e la Pietas. È un riconoscimento costante, silenzioso, non appariscente.
Perché secondo lei?
Non conta solo vincere. Conta soprattutto come lo si fa. E Pantani, rispetto al suo microcosmo, era un alieno. Nel parlare e nella pedalata. Se lo osservi, manifesta un’inesausta stanchezza. Una sofferenza nutrita da pochi sorrisi e nessuna ombra di felicità, neanche sul traguardo. Non ho mai trovato ciclisti che per rilassarsi ascoltassero Charlie Parker, né scalatori che come lui dicessero: “Vado forte in salita per abbreviare la mia agonia”. Pantani era di quella pasta. E comunque, come lui non ne vediamo più.
Lei lo aveva soprannominato Fossile
O Pantadattilo. Un cardellino di 56 chili in mezzo alle aquile che portava fieramente pizzetto e baffi non diversamente dai primi ciclisti dei tempi eroici alla Petit-Breton. Entusiasmava perché scuoteva dalle fondamenta uno sport di ragionieri o, per essere più precisi, di grandi passisti che andavano forte a cronometro e in salita si limitavano a controllare. Pantani in salita tirava colpi pazzeschi. Non calcolava. Che gli andasse bene o male, giocava d’istinto. Dava retta a pochissime persone. Non distingueva gli amici veri da quelli falsi. Un vizio che alla lunga lo ha progressivamente avvicinato alla fossa.
A chi avrebbe dovuto dar retta?
A chi cercava di riportarlo in pista perché gli voleva bene e capiva che senza bici, Pantani era mutilato. C’era chi gli riempiva le notti di coca e donne a pagamento per scroccargli denaro o stordirlo. La sua fine, tristissima e molto dolorosa, tecnicamente è un suicidio lungo 5 anni. Con tentativi di riemersione e nuovi inabissamenti. Ed è soprattutto una storia di profonda e straziante solitudine. Se avesse avuto vicino uno come Luciano Pezzi, l’ex comandante partigiano che era stato con Gimondi e che a Marco fece firmare un contratto mentre era in stampelle parlando in romagnolo stretto, Pantani forse sarebbe ancora qui.
La avvertirono a pranzo
Ero con mia moglie, in ferie, senza computer. Mi chiamò un collega quasi omonimo, Aligi Pontani: “È morto Pantani”. Io di getto: “Che cazzo dici? Inventatene un’altra”. Poi dettai a braccio. Un quarto d’ora. L’articolo meno scritto della mia vita.
Lei su Pantani ha scritto molto
Anche se a lui è legato il momento più difficile del mio percorso, non ritiro una virgola. Dopo Madonna di Campiglio, quando venne trovato con l’ematocrito impazzito, venni investito dalle lettere. Il senso era: ‘E adesso, dopo averci aiutati a innamorarci di lui, come la mettiamo con la sua squalifica?’. Mi mandarono in crisi. In questo sempre più sputtanato mio mestiere, il rapporto di fiducia con il lettore è tutto. Pensai anche di lasciare Repubblica e il lavoro. Ne uscii riflettendo. Puoi avere i tuoi sospetti, ma se non hai le prove, non puoi sbattere i tuoi dubbi sul giornale. Avremmo dovuto disporre di provette e intercettazioni. Non le avevamo. Puoi andare a 200 all’ora in autostrada, ma se il Tutor non ti becca sei pulito.
Cosa è cambiato in 10 anni?
L’unica cosa nuova è che l’ultima disperata invocazione di Pantani: ‘Leggi uguali per tutti’, è stata inascoltata. Per qualcuno, un nome a caso Armstrong, si faceva un’eccezione. Per tenergli un bell’ombrello aperto sulla testa si scomodava L’Uci, L’unione ciclistica internazionale. Non Fracazzo da Velletri.


SCRIVERE PER RABBIA, MAGARI PER AMORE
(intervista di DAVIDE BERNARDINI )

Gianni Mura è senza dubbio una delle firme più prestigiose che il giornalismo italiano possa annoverare. Maestro di linguaggio e sensibilità, ci ha raccontato della sua carriera, del suo sport, del suo scrivere.
Gianni Mura nasce a Milano il 9 ottobre 1945. Appassionato di medicina, archeologia e musica, si affaccia al mondo del giornalismo sportivo non ancora ventenne. Ha iniziato a La Gazzetta dello Sport, anche se il quotidiano al quale è più legato rimane La Repubblica. Ha scritto anche per L’Occhio, Epoca, Il Corriere dell’Informazione. Le sue rubriche, sportive ma anche culinarie, hanno fatto la storia del giornalismo italiano e sono innumerevoli, così come i premi che gli sono stati conferiti durante tutta la carriera. Autore, tra l’altro, di due romanzi (Giallo su giallo Ischia), Gianni Mura è a tutti gli effetti uno dei più importanti giornalisti sportivi del secondo Novecento.


Allora, partirei dal presente: di cosa si occupa oggi Gianni Mura?
90% sport, 10% ristoranti.
Ciclismo e calcio sono i due sport che ha sempre seguito: tra i due, dopo decenni di onorato servizio, quale preferisce e perché?
Attualmente il ciclismo, senza dubbio. Per un periodo si sono contesi lo scettro di sport da me preferito, ma alla lunga il ciclismo ha prevalso per una serie di motivi: per i paesaggi che attraversa, per la possibilità di spaziare che regala alla scrittura, soprattutto perché almeno nelle corse a tappe si corre giorno dopo giorno e quindi le critiche di qualsiasi genere vengono azzerate. C’è subito la chance di rifarsi, di vendicarsi, di dare battaglia. E, al di là dell’aspetto meramente lavorativo, mi appassionano anche pallavolo e atletica leggera.
Quando entrò in Gazzetta, quindi oltre cinquant’anni fa, cosa si aspettava e come immaginava questo mondo?
Avrei di gran lunga preferito Il Corriere della Sera, non lo nego. L’occasione che La Gazzetta dello Sport mi stava dando in quel momento la vedevo come una buona gavetta che mi sarebbe tornata utile più avanti. Sicuramente non pensavo di diventare Gianni Mura: non che non ci credessi, attenzione, è che non mi interessava minimamente, non me ne curavo. Mi davo da fare per scrivere meglio possibile e basta. La mia carriera universitaria durò due mesi, mi resi conto che avrei imparato più sul campo che in cinque anni di esami. E alla fine mi affezionai all’ambiente, alla vita di redazione, all’archivio. Venivo pagato per scrivere e a me sembrava un sogno perché avrei scritto anche gratis, sui muri. Ho avuto la fortuna di vivere un’epoca d’oro del giornalismo italiano, piena di grandi maestri che insegnavano volentieri il mestiere. Di quei giorni conservo ricordi bellissimi.
Il suo percorso come giornalista nasce da liceale, quando viene segnalato per la spiccata capacità nello scrivere bene: con la scuola di oggi, sarebbe ancora possibile?
A malincuore, no. Anzi, direi che è vivamente sconsigliato. C’è un analfabetismo di ritorno pazzesco. Nel giornalismo, ad esempio, è scomparsa la figura del correttore di bozze e io lo trovo profondamente sbagliato.
Cos’ha significato, per lei, raccontare sport in un certo modo all’interno di un quotidiano e quindi “spalla a spalla” con tematiche politiche, economiche, sociali? E’ stato un percorso tortuoso?
Allora, prima di tutto si è rivelata azzeccata la linea che decisi di adottare quand’ero ancora alle prime armi: piedi per terra, chi vince non è una divinità, lo sport è importante ma è soltanto una parte del tutto e della nostra vita. Ritornando alla domanda: da parte mia, non c’è mai stato nessun complesso di inferiorità. E questo è dovuto alle esperienze extrasportive che ho maturato nel corso degli anni, ad esempio a Epoca. Quando si parla di carta stampata, le ho fatte tutte. Quindi, per concludere, direi che non ho sofferto questa convivenza.
Come veniva considerato, dal lettore, il giornalista sportivo cinquant’anni fa e come viene considerato oggi?
Prima era tutto più semplice. E anche valido, credo. Ogni quotidiano aveva le sue firme di prestigio, personaggi famosi e dai contenuti importanti. E noi giornalisti eravamo davvero l’unico tramite esistente tra gli sportivi e l’opinione pubblica. Adesso c’è questa competizione coi social: siamo arrivati al punto che tanti del settore scrivono in un certo modo proprio per accontentare questo pubblico, di modo che risparmi loro il massacro. Oggi, il più bravo è il più veloce, e una bella fetta di colpa da questo punto di vista ce l’hanno i siti dei giornali. E’ una lotta sul filo dei secondi. E chi se ne frega se nella notizia si trova scritto “anno scorso” con l’h: è stato il più veloce, quindi va bene così.
Che rapporto ha con la tecnologia e con la televisione, tanto da fruitore quanto da ospite (nel caso della seconda ovviamente)?
Non sono un mostro televisivo, me ne rendo conto. Nemmeno per la radio, a dir la verità, ma tra le due la preferisco. Proprio per questi motivi, mi rintano nel mio cantuccio e scrivo. Non voglio e non m’interessa fare la vergine immacolata: in televisione qualche volta ci sono stato. Solo in alcuni programmi, però. Dove c’è la possibilità di parlare, senza assilli, ricordando magari qualche episodio del passato. La maggior parte di quelli odierni, invece, punta a far contento il tifoso. E a me non sta bene, quindi non ci vado. Per quanto riguarda la tecnologia, sono davvero poco pratico. Quando si parla di social network e web, penso soltanto a una cosa, ché poi è una speranza: che la rivoluzione tecnologica non finisca per rivoluzionare anche il modo di pensare di chi scrive. Sarei contento se andasse così, mi basterebbe.
Il fatto che il web abbia esteso la possibilità di improvvisarsi giornalisti è necessariamente un male?
Assolutamente no, ma tendenzialmente sì. Mi spiego. Molti ragazzi, più o meno giovani, mi fanno avere dei loro pezzi: per un consiglio, magari un parere. E alcuni di loro sono davvero bravi. Una cosa, però, va detta: scrivere un qualcosa dal salotto di casa non significa, sempre, fare giornalismo o essere giornalisti. Se mi faccio un uovo al tegamino, non è detto che sia uno chef. Il problema, secondo me, è che tutti vogliono essere qualcuno o qualcos’altro, e invece va a finire che nessuno è nessuno.


“Gianni Mura al Tour è la miglior importazione dall’Italia dopo Coppi” (Jean Louis Le-Touzet, Libération)
Come valuta il giornalismo sportivo italiano su carta, ad oggi?
In generale, la tendenza mi sembra quella di scrivere per la curva dello stadio: poca, pochissima critica e invece tanta pancia, enfasi. Quando, il lunedì mattina, vado a comprare il giornale, vorrei che qualcuno mi spiegasse perché tizio ha vinto e caio ha perso senza dover obbligatoriamente tirare in ballo l’arbitro, e al di là della cronaca dell’evento. Rispetto a qualche decennio fa, direi che il servizio è notevolmente peggiorato.
Dove si parlerà di sport, che sia ciclismo o calcio, tra vent’anni?
Mi auguro sulla carta stampata, ma ne dubito fortemente. Dal mio punto di vista, bisognerebbe ripensare il modo di fare giornali. Una rivoluzione delle menti pensanti, ecco. Io, ad esempio, eliminerei una buona parte della politica che appesantisce diverse pagine della prima parte di ogni quotidiano. Più inchieste e report, per dirne una, sarebbe già qualcosa. Più fuori che dentro alla redazione, ecco. Quando avviai io, i direttori mandavano in giro a consumarsi le suole delle scarpe e guai a tornare senza una storia. Oggi, invece, sono soltanto gli occhi e i polpastrelli a consumarsi. Non serve l’eccezionalità a tutti i costi e il lettore vuole sentirsi civilmente rappresentato.
In un’intervista racconta che la critica avanzata più volte nei suoi confronti è stata quella della esagerata moralità. Mi viene in mente l’episodio che pochi mesi fa vide coinvolto Nainggolan e quel famoso video che postò sui social. Ora, indignarsi ed ergersi a professori o maestri è altrettanto deprecabile: ma com’è possibile che sport ed etica/morale siano attualmente così divisi? Come si è arrivati a questo? Perché la normalità fino a qualche decennio fa era incarnata (o si avvicinava molto) da modelli come Zoff e Scirea mentre oggi si lascia passare tutto come se niente fosse?
Nainggolan bel giocatore, peraltro, ma personalmente andrei a cena fuori con Zoff e Scirea tutta la vita. Le cause sono tante: le regole ci sono ma vengono vilipese, per i furbi conta soltanto vincere e quindi tutto è lecito, se fai notare qualcosa del genere ti etichettano subito come moralista e buonista. Nonostante l’età, mi stupisco ancora quando leggo notizie del tipo: killer uccide tre persone e poi chiede scusa alle vittime. Cosa vuol dire tutto questo? Uno chiede scusa se calpesta un prato, in situazioni del genere uno deve appellarsi al perdono, e forse nemmeno basta. C’è una realtà distorta e pericolosa, direi. Prima venivano considerati di più anche gli sconfitti e le vittime, per dirne un’altra. Delle accuse di moralismo, sinceramente me ne frego. Io uno sportivo lo giudico anche in base a quello, è un aspetto che va di pari passo con la prestazione. Altrimenti, in base a cosa dovrei giudicarlo? Al taglio di capelli?
Cos’è il Tour de France con una metafora.
Per i francesi è la festa di luglio. Per me è l’avventura di un mese, l’esperienza che più di ogni altra si avvicina alla chanson de geste.
Cosa manca al Giro d’Italia per colmare questo famoso gap nei confronti del Tour? E’ così importante colmarlo?
Il Giro d’Italia è già bello di suo e non dovrebbe curarsi così tanto del Tour de France, che continuerà ad essere più importante e grande perché è nato prima e grazie all’abilità dei francesi nel saper vendere meglio il loro prodotto. Quella al gigantismo è una corsa senza senso, puramente economica peraltro. E non c’è da stupirsi se nei prossimi anni questi eventi partiranno da Pechino o Washington, tanto con gli aerei che ci sono oggi… E io li boicotterò finché non arriveranno in Francia e Italia, anche se mi daranno ancora del moralista.
Se non avesse avuto il calendario calcistico da rispettare, avrebbe seguito anche le classiche e il Giro?
Certo, quando ero più giovane e libero da obblighi calcistici seguivo classiche, Giro, Tour e Vuelta. L’età anagrafica, adesso, non mi viene in contro; e poi a maggio ho ancora il campionato, la Champions League. Non è che il Giro mi stia sulle palle, è che in quel mese devo necessariamente seguire altri eventi. L’unico mese libero è luglio, e io lo passo al Tour de France.

Tre nomi: Sagan, Aru e Nibali. Che idea ha su questi atleti e personaggi, estremamente diversi l’uno dall’altro ma molto particolari?
Sagan non assomiglia a nessun altro ed è un gran campione: lo dimostra il fatto che il Tour dello scorso anno, dopo la sua ingiusta squalifica, ha perso molto. Nibali merita rispetto, se l’è conquistato sulla strada. Vince poco ma vince benissimo, mi piace perché inventa la corsa senza affidarsi particolarmente a radiolina e ammiraglia. Una prolunga del vecchio ciclismo, aggiungerei. Aru, intanto, è una novità perché un sardo non era mai arrivato a questi livelli: discorso da estendere anche a Nibali, ovviamente, e questo dà un’idea di come la geografia del ciclismo sia cambiata. Gli manca ancora qualcosa, però: a volte è lui, a volte la squadra. E’ un bel corridore, fermo a cronometro ma capace di scatti interessanti in salita: deve centrare quel successo che lo elevi a campione.
L’Italia, dal secondo dopoguerra fino al termine o quasi del millennio scorso, ha potuto contare su artisti, intellettuali, giornalisti, cantautori e se vogliamo anche politici di grande spessore e rilevanza. A cos’era dovuta questa abbondanza di talento, unicità e carisma, secondo lei?
Dal punto di vista ciclistico, si potrebbe dire che l’Italia aveva molti corridori forti. Penso agli anni sessanta: Adorni, Gimondi, Motta, Zilioli, Bitossi, Taccone, e altri ancora, gente che vinceva tanto al Giro quanto al Tour. Quasi ogni regione aveva il suo, per dire. In generale, erano tempi diversi sotto tutti i punti di vista. Benessere, stimoli, ma anche l’educazione impartita dai genitori e il recente passato ancora fresco: tanti sono stati figli della guerra, e qualcosa comunque rimane e condiziona gli eventi futuri.
Come si può fare del buon giornalismo (sportivo ma non solo) in un paese in crisi (economica, politica, identitaria) come l’Italia di oggi?
Le condizioni attuali influiscono eccome, ci mancherebbe, però è bene che si sappia che si potrebbe fare del buon giornalismo anche in un contesto peggiore dell’attuale. Linguaggio e sensibilità, ad esempio, sono due caratteristiche fondamentali che un giornalista che si reputa tale non può non avere: mi sembra siano senza tempo, già questo potrebbe e dovrebbe essere un inizio.
Lo sport, nonostante sia forse più seguito ora rispetto a qualche decennio fa, dà l’impressione di essere solo un bellissimo spettacolo ma niente di veramente rilevante a livello sociale: è una verità?
Lo vediamo tutti i giorni, ormai. Nel dopoguerra, ciclismo e pugilato erano gli sport più seguiti e venivano considerati da poveri. Oggi, per quanto pedalare a quei livelli sia duro e pericoloso, non è più da poveri. I ciclisti, decenni fa, si facevano intervistare e fotografare nelle camere d’albergo, in vasca, con i figli: ora invece si godono il loro esilio dorato nei bus ed escono già bardati, riconoscibili soltanto dal numero che hanno sulla schiena. I tempi sono cambiati e con loro l’Italia. E non lamentiamoci: il ciclismo, basta vedere le strade quando passa il Giro o il Tour, si difende ancora piuttosto bene.
Il giornalismo è un mestiere o anche uno stile di vita?
Quando iniziai, lo vedevo come una forma di artigianato, un qualcosa che si fa con le mani, un po’ come il calzolaio o il vasaio. Ergerlo a metafora di vita mi sembra esagerato, però gli va riconosciuto un certo peso: chi fa questo lavoro può potenzialmente rovinare delle esistenze. Richiede molta responsabilità, questo sì. Più che un medico, direi che un giornalista può ambire ad essere un buon infermiere.


Un ricordo di Georges Brassens – Gianni Mura

Georges Brassens, anarchico. Va be’, l’ha detto anche lui cercando una definizione spiritosa: “Sono talmente anarchico che attraverso la strada sul passaggio pedonale pur di non dover discutere con un flic (poliziotto, n.d.r.)”. A mio parere Léo Ferré è stato più anarchico di Brassens, più apertamente e profondamente anarchico, com’è accaduto ad altri mandati in collegi religiosi. Qui non intendo dare patenti, certificati di appartenenza o altro. L’etilometro esiste, l’anarcometro no, che io sappia. Allora conviene ripercorrere alcuni momenti della vita di Brassens, per capire la sua allergia alle istituzioni, a cominciare da Dio, Patria, Famiglia, là dove Dio sta anche per Chiesa e preti, monache e sacramenti, Patria per esercito, divise, polizia, giudici, Famiglia per fidanzamenti, matrimoni, figli. Val la pena di ricordare che una delle più belle canzoni di Brassens è “La non demande en mariage”.
Destinataria Joha Heiman, estone di origine, che dal 1947 alla morte di Brassens (1981) fu la sua compagna, più anziana di dieci anni, possiamo dire la donna della sua vita. Ognuno nel suo appartamento, però. Brassens teneva in poco conto il denaro, si vantava di non esser mai entrato in una banca. Era il suo amico e factotum Pierre Onténiente, detto Gibraltar perché solido come una roccia, a fargli da contabile e amministratore. Si erano conosciuti nel 1943 al campo di lavoro di Basdorf, 25 km a nord di Berlino. Baracca 26, camerata 5. Sveglia alle 5.30. È lì che Brassens compone alcune canzoni che resteranno nel repertorio (“Pauvre Martin”, ad esempio, e “Souvenir de parvenue” che con modifiche al testo diventerà “Le mauvais sujet repenti”). Anche la casa, come i soldi, non era un problema per Brassens. Gli bastava un letto, una scansia per i libri, un tavolo su cui mangiare (salumi, formaggi, verdura cruda, frutta, un cassoulet ogni tanto: non aveva grandi esigenze e beveva poco ). Dal 1944 al 1966 abita a casa di Jeanne (“La cane de Jeanne”) e Marcel (“Chanson pour l’auvergnat”) Planche, Impasse Florimont 9. Si lava a un catino, in corte. Coi primi guadagni fa installare elettricità e gas. Definirla casa di ringhiera è già un complimento. Ma lui ci sta bene.

Condannato a un anno, per furto
La madre di Georges, Elvira, nata in Lucania, vedova di guerra (primo indizio) e cattolica praticante sposa in seconde nozze il muratore Jean-Louis Brassens. Non subito, perché lui, “libero pensatore”, fortemente anticlericale (secondo indizio) rinvia la cerimonia fino a che non risulta indispensabile per poter iscrivere a scuola Simone, la figlia di primo letto. Jean-Louis brontola ma non si oppone al battesimo di Georges e manifesta la sua indipendenza non assistendo alla prima comunione.
Da qui saltiamo all’episodio raccontando nella canzone “Les quatre bacheliers”. Nella casa di Sète c’è uno stillicidio di piccoli furti (denaro, gioielli) che dura mesi. Nessun segno di scasso. “I gangsters del liceo” (titolo di giornale) sono denunciati da uno studente più giovane. Non c’è scasso perché ognuno ruba in casa sua e poi rivende i gioielli a Montpellier inventando una scusa pietosa. Brassens, che da tre anni sogna di essere come François Villon (parole sue) s’è limitato a prelevare dal cassetto della sorella un anellino di poco valore. I “gangsters” sono portati via da casa in manette. Il padre di Brassens va al commissariato: “Tutto bene, piccolo? Ti ho portato del tabacco”. Più in là, fuori dal tribunale di Montpellier, la gente urla “a morte i ladri”. Brassens è condannato a un anno con la condizionale, gli altri a un anno e mezzo. In casa non si parlerà più dell’episodio, ma delle sue conseguenze. Espulso dalla scuola, Georges deve trovare un lavoro. “Non me lo vedo come muratore”, commenta il padre, anche se Georges ha un fisico da torello. Nemmeno lui si vede come muratore, meglio andare lontano da Sète, da casa e dalla gente che mormora. A Parigi sarà un perfetto sconosciuto.
Ci arriva nel febbraio del ’40. A Parigi Georges è già stato due volte: nel ’31, da bambino, e nel ’37, per l’Expo. E gli è piaciuta, ci respira libertà. In più, a Parigi c’è l’appartamento della zia Antoinette (173, rue d’Alésia, nel XIV) che è ben lieta di ospitarlo. A un patto: che abbia un lavoro. In tempo di guerra, il lavoro abbonda: inizia da rilegatore, poi va alle officine Renault di Boulogne- Billancourt. La zia possiede un piano, lì Georges si esercita nel tempo libero (solo a guerra terminata e grazie a un prestito di Jeanne comprerà la prima chitarra) e intanto si fa crescere i baffi.
A guerra terminata, altro indizio, Brassens e alcuni suoi amici hanno un progetto editoriale. La testata (“Le cri des gueux”, Il grido degli straccioni) era stata pensata in Germania. Una bozza è pronta nell’aprile del ’46. Coinvolti: Emile Miramont, Marcel Visse, Maurice Hémery, Raymond Darnajou, André Larue (futuro biografo di Brassens) e Roger-Marc Thérond. Buona scelta: Thérond diventerà direttore di “Paris- Match”, Larue scriverà per “France-soir”. A mancare, a quel progetto di giornale libertario, non sono le idee ma i soldi. Non uscirà dallo stato di progetto.

Dentro “Le monde libertaire”
Nel luglio del ’46 muore zia Antoinette. Georges non ha più parenti ma molti amici. Se prima, a Sète, influenzato dal professor Bonnafé, Brassens aveva scoperto la letteratura, i classici ma anche i moderni e i contemporanei, con una spiccata preferenza per i poeti, a Parigi legge Proudhon, Bakunin, Kropotkin. Ha sempre più voglia di libertà ed è sempre più contrario a ogni forma di potere, di valore consacrato. In quell’estate conosce e diventa amico di un singolare poeta bretone e anarchico, Armand Robin. Pare parlasse 19 lingue e abbia avuto un po’ di notorietà quando sfilò lo sfollagente dalla cintura di un poliziotto distratto sostituendolo con un giglio bianco. Commento di Brassens: “C’est formidable”. Tra le cose che lo avvicinano a Robin, il comune amore per gli animali. È il pittore Marcel Renot a introdurre Brassens nella sede della federazione anarchica (Quais de Valmy, XV). Ci si riunisce una volta a settimana, si discute di problemi sociali ma anche di letteratura e pittura. Tra gli invitati esterni, Louis Aragon, che Robin vede come il fumo negli occhi, mentre gli è simpatico André Breton.
È il fiorista Henri Bouyé che propone a Brassens un posto (non retribuito) di correttore di bozze al giornale “Le monde libertaire”. Nella tipografia, in rue du Croissant, Brassens con le sue battute e il suo carattere aperto conquista i tipografi. E sale a piccoli passi. Cura una rubrica di grammatica, a firma Jo Cédille, poi commenta fatti di cronaca (firmando Gilles Corbeau o Pépin Cadavre) ma come correttore, oltre a correggere refusi, corregge anche le opinioni altrui, talvolta. E quando cambia i caratteri della testata, modernizzandola, si trova molti anarchici contro. C’erano due correnti, in quel giornale: una più rigorosa e comunista, una più allegra e individualista ( e minoritaria) che è quella di Brassens. La rottura non è dolorosa, Brassens lascia la redazione ma continua a frequentare Robin e il fiorista Bouyé.
È la svolta della sua vita e della sua carriera, perché sarà Bouyer, all’inizio del 1952, a presentarlo a Jacques Grello, attore e chansonnier, che resta molto impressionato dalle sue canzoni, gli regala una chitarra, gli offre di esibirsi nel suo locale, il “Caveau de la République”. Pubblico indifferente. Riprova al “Le Lapin Agile”. Stessa reazione, non se lo fila nessuno.Andrà meglio, molto meglio, da Patachou (nome d’arte di Henriette Ragon). Lanciata da Maurice Chevalier, ha aperto nel ’48 Chez Patachou, ristorante-cabaret, sulla collina di Montmartre. Il 2 marzo Brassens fa il provino. Patachou è entusiasta. Si prende subito due canzoni, “Brave Margot” e “Les amoureux des bancs publics” ma, spiega a Brassens, le altre non sono adatte al suo repertorio (“Le gorille”, “Hécatombe” eccetera). Dovrà cantarle, lui non ci sta, dice di essere autore-compositore ma non interprete, e in parte è vero. Non ha senso scenico, né una voce che soggioga al primo impatto. E poi è timido per quanto audaci sono molti dei suoi testi. Gli piace esibirsi per pochi amici, “più di quattro si è una banda di coglioni”. Ma si lascia convincere. La prima esibizione (6 marzo) è un trionfo. A Parigi fa un freddo cane. Brassens si esibisce fuori programma, alle 2 di notte, preceduto da un’affettuosa presentazione di Patachou perché il pubblico resti, scoprirà un grande talento all’esordio. Vista l’ora e la temperatura, metà sala si svuota. L’altra metà rimane e si spella le mani. Il resto è noto.
A fine carriera, o quasi, Jacques Chancel intervista Brassens e gli chiede: “Non pensa che avrebbe potuto fare strada, se si fosse messo in politica?”. “Un anarchico non si mischia con la politica” è la risposta. Altra frase di Brassens: “Nelle mie canzoni attacco le istituzioni, raramente gli uomini”. Questo ci riporta alle considerazioni iniziali, su un Brassens più antiistituzionale che anarchico. Ma con forza e senza equivoci, scegliendo di stare dalla parte degli emarginati, dei “cattivi soggetti” pentiti e no, delle puttane, dei morti di fame. E di dargli il cuore e i versi, la musica. E di andar giù pesante con la triade Dio- Patria- Famiglia, cioè preti, suore, frati, generali, eserciti, poliziotti, nazionalisti, guerrafondai, matrimoni (sempre ricchi di corna). In un’intervista a Louis Nucera dichiarò: “La sola rivoluzione possibile è migliorare se stessi, sperando che gli altri facciano la stessa cosa. Credimi, è la sola strada”.

IN ASSENZA DI VENTO, GLI AQUILONI NON VOLANO
Intervista semi-seria a Gianni Mura.

Sì, è vero ci vuole “carattere” per scrivere di ciclismo. Anche perché questo sport non è più quello di una volta. I campioni si risparmiano, iniziano ad andare soltanto sull’ultima salita. Corrono spesso solo da luglio a luglio e sembrano non volerne sapere di rischiare alcunché. Che disastro. Il Tour de France lo ha vinto, confermando le più ovvie previsioni, Chris Froome, e non certo per colpa sua.
E l’unico che riesce ancora a essere un fiore nel deserto è uno slovacco coi capelli lunghi e dall’aria un po’ guascona. Per capirci qualcosa di questo ciclismo d’oggi occorre accendersi più di una sigaretta. E, per scriverne, forse anche cento: “vi auguro di avere carta per i prossimi 20 anni” mi dice sorridendo amaro.
Cronaca di una piccola, ma lunga  – ve lo dico subito – chiacchierata tra il sottoscritto e Gianni Mura, storica “penna buona” dello sport di Repubblica.
È una giornata uggiosa e nebbiosa, tipicamente milanese. Non fa freddo però. Arrivo nella sede di Repubblica e chiedo di lui, con il quale ho preso appuntamento senza particolari problemi – Gianni è disponibilissimo  – alcuni giorni prima. Mi mandano su ai piani alti, lui mi viene incontro e mi offre un caffè alla macchinetta, non lo prendo. In realtà è solo una scusa per fumarsi (lui) una sigaretta sulla scala antincendio, la prima di una lunga serie. Il nastro parte, la discussione prende il via spontanea e generosa, senza particolari impedimenti. Non si interromperebbe mai, se non per i contingenti impegni di ciascuno dei due. Di quelle giornate da stamparsi bene e mandare a memoria. Quanto segue ne è la fedele trascrizione, riassunta per comodità in 8 punti.
PS: se riesco, quando avrò tempo, vi prometto anche il podcast. Per ora accontentatevi di leggere, che è un po’ come scrivere. Gesti primitivi da difendere con le unghie e con i denti, come su una immaginaria linea del Piave. Amen.
1 – Il carattere del ciclista
Sì è vero, come spiega nel suo libro, non tutti ce l’hanno. Ma chi l’ha avuto, non ha potuto che farsi guidare da questo. Prenda Gianni Bugno, lei dice “Indecifrabile”, io lo chiamai “Vedremo”. Perché non sapevi mai cosa ti potevi aspettare da lui. Aveva tutto per essere il numero uno, anche un bello stile, e invece non ci riuscì fino in fondo. Avrebbe potuto (e dovuto) vincere molto di più.
Forse shakerando lui e Chiappucci, che aveva meno classe ma era più spavaldo, si sarebbe ottenuto il ciclista perfetto. Gianni andava forte a cronometro, andava forte in salita, almeno prima di ingrassare, andava dappertutto. Intendiamoci, ha vinto parecchio. Ma a me ha sempre lasciato un senso di incompiuto. Come se si accontentasse. Il mondiale di Benidorm è emblematico da questo punto di vista: si era rassegnato a una volata da battuto, non ci fosse stato Perini a tirarlo non avrebbe vinto. Si lasciava influenzare da fattori minimi: brutto tempo visto dalla finestra, due folate di vento.
2 – Il Coriaceo Bernard
Più che coriaceo direi incazzoso. Una volta fece a pugni con dei portuali che scioperavano. Era un campione che correva da marzo a ottobre. Odiava solo la Roubaix, “corsa di merda”. poi la vinse e disse “sempre una corsa di merda, ma che ho vinto”. Aveva una costituzione fisica simile a quella di Bartali, forte, muscoloso, da combattente. Sì, coriaceo ci sta.
In quegli anni seguivo il Giro d’Italia, cambiando un’ammiraglia al giorno. Un giorno a Pestum mi trovo in quella della Renault -Gitanes con Guimard,  e mi vedo tutta la tappa dietro Bernard che sbuffa, soffre mai poi vince. Sulla strada noto uno striscione poco lusinghiero nei suoi confronti: “Hinault, il sole del sud ti incenerirà”. All’arrivo Bernard mi dice: “ho fatto vedere quanto il sole del sud incenerisce”.
Arrivati in hotel, notiamo un cesto pieno di triglie che si muovevano ancora: “stasera frittura per tutti” ordina Hinault. Gli chiedo: “Ma come? Voi ciclisti non dovreste mangiare tutto al vapore o al sangue?”, “Io non devo mica trattare il mio corpo come quello di un bambino malato” mi risponde lui. In questo, Hinault era esattamente come Bartali o Nencini, che fumavano o bevevano.
3 – Fossili, esultanze  e altri incantesimi. 
Erano quasi tutte esultanze tristi quelle di Pantani. Anche nel ’98. Una volta mi spiegò in privato che il momento più bello per lui non era la vittoria, lì non aveva più nemmeno la forza di tirarsi su la zip della maglia. Il momento più bello era quello in cui irmaneva da solo, dopo aver staccato tutti.
Pantani veniva da tempi lontani. Era un grande fossile preistorico, il “Pantadattilo”: uno scalatore puro in un periodo in cui vincere in salita non bastava più, occorreva essere forti, o comunque sapersi difendere, anche e soprattutto a cronometro. A lui invece bastava la salita. Dunque qualcosa al di fuori dai tempi, risalente all’epoca di Coppi e Bartali. Era un ciclista così amato perché non lo si vedeva da un pezzo, e, morto lui, non si è più visto. Aveva catturato l’attenzione di tutti, quando correva l’Italia intera si fermava. Forse ai bambini sembrava un cartone animato, come Dumbo, per via di quelle orecchie così grandi e sporgenti. Magico, quasi irreale.
4 – Il carattere di Nibali
Nibali è senz’atro “l’orgoglioso”. Vedi il discorso di sopra. Non è cioè ancora dipendente dalle tattiche al 100%. Riesce ancora a fare qualcosa che gli altri da lui non si aspettano, e questa per me è l’essenza del ciclismo. Vincenzo mantiene in qualche modo il gusto disperso del colpo a sorpresa, è uno che sente la responsabilità della corsa, non corre tanto per correre, la deve “marcare” stretta, fiutarla. E siccome in volata è praticamente fermo, deve fare qualcosa prima, deve provarci e talvolta riesce a emozionare come un tempo. Per intenderci, io credo che Aru deve mangiarne ancora di michette per arrivare ai livelli di Vincenzo. Del resto è anche giusto: è molto più giovane, ha tutta la carriera davanti.
5- Sagan e il gioco.
Sì, ma intendiamoci: Sagan oltre al “gioco”, è anche gambe. Quelle che gli altri non hanno. Si tende a dimenticarlo. Lui è così pittoresco che si finisce per scordarsi quanto vince e da quanto tempo, perché lui vinceva già agli esordi alla Liquigas. Arrivare nei primi 5 in più della metà delle corse cui partecipi (dato reale), vuol dire essere straordinariamente bravi. Tutti ricordano quando Peter impenna con la bici, ma accidenti se viaggia! Uno così si merita tutto.
Dopo di che, il gioco è la sua essenza, concordo con lei. O quantomeno l’allegria. il ciclismo è sempre stato lo sport dei forzati della strada, dell’epica della fatica, volti tirati, musi lunghi, personaggi spesso tristi. Sagan invece gioca, si diverte, toglie peso. Ci rallegra.
Anche Cipollini, se è per questo, richiamava i fotografi, piaceva, divertiva. Ma Sagan ha qualcosa in più: è atleticamente molto più forte.
Lunga vita a Peter Sagan allora. Fa bene a tutto il ciclismo. E poi è molto generoso di sé: è uno che non si risparmia mai, corre dalla Sanremo al Lombardia come si faceva una volta. Le classiche le fa quasi tutte, mi pare, e ha un fisico che un giorno potrebbe consentirgli di vincerle anche tutte, tranne forse il Lombardia.
6 -Il Giro d’Italia numero 100.
Sarà un’edizione celebrativa, inevitabile ma anche giusto che sia così. Ci sarà la tappa Coppi – Pantani, ci sono altre frazioni dedicate alla storia del nostro ciclismo, un bene così prezioso.Il Giro è spesso sì rivolto al passato e magari con un velo di nostalgia, ma forse non può che essere così. E se non altro quest’anno ha il merito di partire coraggiosamente dall’Italia e non dall’estero, l’altra grande moda. Secondo me tra qualche anno assisteremo a una partenza di una corsa a tappe da New York o da Pechino. E io, per la cronaca, ho già deciso: la boicotterò.
7 – L’Accademia di Brera
Sì, sono stato un discepolo di Gianni Brera. E non posso che ringraziare la fortuna di avermi dato questa opportunità più unica che rara. Gianni mi ha insegnato tanto. Ma da lui ho imparato anche che non bisognava cercare di imitarlo. Guai! Anche perché, se ti beccava, si incazzava non poco. Punto primo, diceva di stare attenti alla retorica: “quando scrivi di sport le parole si gonfiano come muscoli” e bisogna starci attenti, evitare l’effetto “barocco”. Un tranello da inesperti, sempre in agguato dietro l’angolo.
Ci frequentavamo molto io e Gianni, mentre io ero a Repubblica e lui alla Gazzetta o a Il Giornale. Ci vedevamo anche fuori dalle redazioni, anzi forse soprattutto fuori. Sa, io oggi ho la sua Olivetti a casa poggiata sulla scrivania e un lettore, proprio ieri, mi ha mandato questa (mi mostra una foto che li ritrae assieme: il giovane Gianni seduto, sigaretta in bocca, e quello più “anziano” in piedi mentre sorride, deve aver appena coniato un nuovo aggettivo sostantivato)
8- Cassetta degli attrezzi
Per scrivere di ciclismo ci vogliono diversi arnesi. Ci vuole senz’altro un po’ di Brera e un po’ di Fossati, un tocco di Alfonso Gatto ma anche una spruzzata di Giovanni Mosca e un velo di Buzzati. Ma non basta. Nel ciclismo è fondamentale, prima ancora che saper scrivere in un ottimo italiano (conditio sine qua non), avere una sensibilità particolare. Quella che ti fa notare dettagli che gli altri non noterebbero.
Ma se uno mi dice che vuole scrivere di ciclismo oggi, non posso che rispondergli: “ti auguro di avere carta per i prossimi 20 anni”. I tempi sono contrari a una buona scrittura, sono favorevoli invece a una velocità di scrittura. Che non vuol dire essere bravi, ma appunto “veloci”. C’è la ricerca ossessiva di una “compressione” dei testi. I pezzi di Gianni Brera dal Tour erano lunghi almeno 200 righe, per un Atalanta – Fiorentina poteva scriverne anche 120, io per la finale dei Mondiali di calcio del 2006, quella della testata di Materazzi a Zidane per intenderci, avevo 71 righe a disposizione. Sette – uno. Veda lei.
Una volta si era in 3 e si scriveva per 7. Adesso si è in 7 e si scrive per 3, i pezzi sono poco più di un telegramma. Diventa difficile fare esercizi di stile in queste condizioni. E in assenza di vento, gli aquiloni non volano. È una legge fisica.
Ringrazio personalmente Gianni per la disponibilità e le parole. Di cui vedremo di fare buon uso.

da qui



Lo choc e i dubbi su un campione - GIANNI MURA


Quando ci si sente improvvisamente privati di qualcosa, più poveri e senza una spiegazione che spiega davvero tutto (credo di non essere solo in questa condizione) è meglio reagire, anzi innescare una serie di reazioni. La prima è l'incredulità. Telefonata all'ora del primo caffè. Hanno beccato Pantani. Ma dai, inventane un'altra. La seconda è di profondo dispiacere, con una punta sorda e ostinata che somiglia al dolore. Perché mi piace come corre Pantani (come vedete, uso il presente). Potrei anche dire che mi piace Pantani, se lo conoscessi a fondo. Ma lui non si lascia esplorare, negli anni ha collaudato meccanismi di chiusura. Non si è mai lamentato troppo nei momenti peggiori, nemmeno si è esaltato troppo nelle vittorie.

In questo Giro, anzi, ma dirlo adesso è facile, lo accompagnava una certa cupezza, una durezza di occhi e di parole. E' un bel po' di giorni che le prime pagine dei giornali parlano di storia e leggenda, a proposito di Pantani. Adesso di colpo facciamo i conti con la cronaca, la pura cronaca, e una corsa decapitata che va avanti come il pollo decapitato ma a va avanti, prima con le cadenze del funerale e la paura dei blocchi di tifosi sul Mortirolo, poi si accende e ridisegna tutti i colori delle maglie. Tanto, quello che le aveva prese tutte è in fuga dal Giro. Non in testa al Giro, ma in coda. Gli avversari staccano Pantani nel suo giorno più atteso, perché Pantani resta fermo, tira un pugno a uno specchio, forse non è superstizioso o forse ne ha già viste troppe. Questa gli mancava.

Scene già viste al Tour, con altre facce, con i poliziotti sempre in giro. Qui, Pantani incastrato dai controlli Uci, quelli per cui più si era esposto, attaccando Tafi e i non allineati. Adesso si può pensare di tutto, chi dice la mafia delle scommesse, chi una lotta di potere in seno all'Uci, chi l'ematocrito che sembra il nome di un poeta greco e invece è un valore ballerino, ma quanto può ballare? M'è venuta in mente l'espressione di Ben Johnson a Seul. Lo so, lì era doping e qui, diciamo così, tutela della salute. Ma hanno tutelato, fermandolo, il numero uno. Solo chi ama le pantofole dice che partire è un po' morire. Non partire, quello sì è un po' morire. E credo che questo abbia capito Pantani, quando ha detto che non lo rivedremo più in sella. Non è una bella notizia. Un po' vigliaccamente ma con tutto il cuore c'eravamo messi in tanti sulla canna di quella biciclettina da bambino pelato. E adesso non possiamo chiedergli conto dei nostri sogni, anzi credo che adesso sia proprio il momento giusto per ringraziarlo di certe sue imprese che abbiamo fatto nostre, dall'Alpe d'Huez al Galibier, e lì il sangue era a posto, altrimenti sai che salti di gioia avrebbero fatto i francesi beccando il Fossile dopo la storia della Festina.

Adesso voglio dire una cosa sui numeri uno, una cosa che non mi procurerà simpatie ma va detta. Esistono numeri uno ammirati perché vincono, ma di cui non importa granché. Tipi com'era Lendl, o adesso come Schumacher, Ronaldo e pure Vieri. Ce ne sono altri amati per come vincono, per come li si immagina. Vanno oltre i numeri, in loro si intuisce un'umanità particolare. Colpiscono al cuore. Pantani è (uso sempre il presente) uno di questi. Sono rimasto più di sette ore incollato a un televisore. Ho sentito Pantani dire poche parole. L'ho sentito dire "mi aspettavano". Non l'ho sentito dire "sono innocente". E ancora adesso mi chiedo perché. Perché doveva forzare la mano, mi chiedo, quando gli avversari li aveva aggiogati. Perché proprio lui, uscito pulito dal Tour sporco, doveva uscire sporco da un Giro che sembrava quasi pulito? Ma allora bisogna anche chiedersi che cosa gliene viene in tasca all'Uci (a parte un' operazione di lifting, peraltro incompleta finché ci sarà un presidente come Verbruggen) quando i suoi analisti danno una botta del genere al ciclismo. Non solo a Pantani, a tutto il ciclismo.

Adesso immagino i commentini, i "ve l'avevo detto io che il più pulito ha la rogna", e l'accusa ai colleghi che seguono il Giro di aver gonfiato uno che si gonfiava il sangue. Perché si fa presto a innalzare i monumenti e ancora più presto ad abbatterli, ma è un'accusa ingiusta. Nella vita c'è sempre uno studente modello che imbraccia un fucile o un rispettabile padre di famiglia che sgozza moglie e figli. Adesso che sul pianoforte sembrano rimasti solo i tasti neri, bisogna ripetere che quello che sta succedendo al ciclismo, e non da ieri, è colpa del ciclismo.

In un'intervista a Repubblica, pochi giorni fa, Gino Bartali diceva che i ciclisti debbono uscire da soli dal fango, altrimenti finiscono o in galera o al cimitero. Ed è tragicamente vero. Oppure finiscono in prima pagina, dove erano arrivati a togliere spazio perfino a una guerra in corso. Noi che maneggiamo parole siamo spesso portati a vedere la poesia anche dove non c'è. Pantani è poesia, nel bene e nel male. Pedala in esperanto. A differenza di Baudelaire, di cui non mi interessa sapere se ha scritto L'albatros dopo una pipata d'oppio e due bicchieri d'assenzio, di Pantani non posso ignorare che fa uno sport, per amore e vocazione, e che questo sport si è dato delle regole, sottoscritte anche da Pantani. Il discorso è questo. Può essere moralismo d'accatto passare col rosso, fregare il fisco e pretendere che un atleta sia puro e duro, solo con questa purezza degna di rappresentarci ed aiutarci ad aprire le ali, ma su questa convenzione (convinzione no di certo) lo sport vive e prospera da molti anni.

Ne sono passati trenta da quel 31 maggio 1969. C'ero anch'io in quella triste stanza d'albergo dove Merckx piangeva steso sul letto. E mi sembrava sincero, disperato, colpito da un fulmine inatteso.L'atteggiamento di Pantani è molto diverso, ma non è il caso di imbastirci un romanzo. In trent'anni le camere dei corridori negli alberghi sono diventate inaccessibili. Abbiamo le emozioni in una diretta che in realtà è differita.

Stiamo alla cronaca. Oggi a Milano Gotti vince il Giro di Pantani, e prima il Manchester aveva vinto la finale del Bayern e prima ancora il Milan lo scudetto della Lazio. Tre episodi differenti, collegati da una coincidenza: chi più fa, meno ottiene. Più di altri sport, il ciclismo sconta il fatto di non avere la certezza dell'uguaglianza. Non mi esalta guardare la classifica di oggi e pensare al nome e cognome dei medici che assistono alcuni corridori.

Ma è un'osservazione marginale, quasi stanca di tanta strada. Chi beccano, beccano. Tutti sono asciutti fino a che non piove, poi dipende da chi ha l'ombrello e da quanto è largo. Ora gli antipantaniani diranno che l'ombra di Madonna di Campiglio s'allunga fino a Lugano (ricordate le frasi di Tonkov?) e i pantaniani continueranno a dire che è tutta una congiura (ma a favore di chi?), un' imboscata (ma perché proprio a lui?) io riparto da quel Merckx di trent'anni fa per ricordare a Pantani che quel giorno sembrava finito, e non finì. Quasi tutti i campioni, da Anquetil a Gimondi, da Bugno a Chiappucci, hanno avuto un alt, dai medici e dai regolamenti. Perché nel ciclismo la cultura del doping esiste, lo sappiamo tutti, e il progresso l'ha solo esasperata, estremizzata. Roba da rimpiangere come belli i tempi delle amfetamine, che non hanno mai ammazzato nessuno, nemmeno Simpson. Roba da starci attenti, perché ormai medici e praticoni danno l'Epo anche ai ragazzini. Così, questo è un pezzo né innocentista né colpevolista. Da un lato, i ricordi e le emozioni non c'è chi li possa sequestrare o cancellare. Dall' altro, è evidente che la mia posizione non si discosta da quella del giornale su cui scrivo: chi sbaglia, paghi. Se Pantani ha sbagliato o è stato indotto a sbagliare (non fa differenza, il sangue era suo), che Pantani paghi. Paghi il giusto, né più né meno. E intanto parli, dica, spieghi, non lasci nell'incertezza di un altro caso Loda (prima fermato e poi riconosciuto in regola). Ha avuto tante cadute e tante rinascite, Pantani. Chi lo fermerà, scrivevano tutti. C'erano riusciti finora una Uno romagnola, un gippone piemontese e un gatto amalfitano, neanche nero. L'ha fermato il suo sangue quando tutti erano pronti con trombe e tamburi.

Lo stesso sangue che, spero, lo porterà al Tour, non a chiudere su un'ultima pagina provvisoria che non piace a nessuno. Si può cadere, si può sbagliare, si può essere rotti in fondo a un buco, e queste cose Pantani le sa bene, molto meglio di altri, e poi si riparte. Ci sono altre strade, se Pantani vorrà, e altri traguardi. Prima volere, Pantadattilo, e poi volare.

(6 giugno 1999)


Lutto– Gianni Mura

E vai, pugnetto d’ossa, cardellino,
Pantadattilo, Fossilo, Pirata, insegui a pedalate il tuo destino
Con bandana stretta, o la pelata che luccica nel sole del mattino
non appena la strada s’è drizzata.
Fragile come un vaso di Lalique,
duro come il granito. Pantastique.

E vai. Plateau de Beille sotto il sole
Galibier sotto l’acqua, il cielo nero.
Solo chi c’era trova le parole
Per quest’inferno freddo, quasi a zero.
Vuolsi così colà dove si vuole
Ciò che si puote. E tu hai voluto, è vero,
tu hai volato, trasvolato il Tour.
Adesso è tutto tuo. Oh, les beaux jours.

Adesso che è finito, siamo stanchi
(tu forse più di noi) e un po’ a pezzi.
Luciano Pezzi, bicicletta Bianchi:
quanti ricordi traversano i pezzi.
Deriva dolce che parte dai fianchi
della montagna che farai a pezzi.
Pezzi di cuore che saltano in aria
O Fossile dell’era quaternaria.

O fossile dell’era mesozoica
così bravo nel bucare il presente
suoniamo la Patetica o l’Eroica?
Romagna mia, per far ballar la gente?
Preferisci si parli della stoica
volontà tua, di quanti eri in niente,
soltanto un pugno d’ossa e di dolore
con un futuro senza più calore?

Se ne possono dire tante, uomo-uccello
nel giorno chiaro della tua vittoria,
dirti sei bravo sei forte sei bello
dirti che sei entrato nella storia.
Pan Pan Pantani come un ritornello
Sospeso tra l’applauso e la memoria,
sospeso tra la storia e la leggenda.
Attesa lunga, volontà tremenda.

Il duro desiderio di durare
(e questo è Eluard, uno dei miei poeti)
è quello che t’ha fatto lievitare
come una torta immensa. Altri segreti
io non ne vedo né li sto a cercare.
Mi bastano i tuoi lampi fra gli abeti,
tarantolato col rapporto agile,
duro come il granito eppure fragile.

Leblanc dovrebbe farti un monumento:
non hai stravinto il Tour, lo hai salvato
dalla merda e dall’inquinamento
del doping extralusso o a buon mercato,
gli hai ridato onore e sentimento,
era sporco e l’hai rilucidato.
Un Tour con tutto il bene e tutti il male.
E vince il bene a colpi di pedale.

Un Tour con tutto il male e tutto il bene
dopo il rosa del Giro, color croco
che già scaldava il sangue nel venerdì
e rinnovava la voglia di fuoco.
Parti. Che Tour? Come la va la viene?
Ma no, sarebbe stato troppo poco.
Un Tour con i colori dell’affresco
un Tour umano, grande, gigantesco.

Vedi? Gimondi, Bartali, Martini
sono commossi, quei vecchi ragazzi.
Gaul e Van Impe sono due bambini
Sorridenti. E tutto perché spazzi
i campioni di un mese, i becchini
del ciclismo dosato a gocce, a sprazzi.
Marco, Fossile mio, per sempre amico
di chi ha amato il gran ciclismo antico.

Antico non vuol dire morto, spento
o nascosto in soffitta, sotterrato.
Sei antico, lo sei come il vento
che torna e va, dal mare al pergolato.
Se sei nuovo, è nel lampo di un momento
in cui saldi il presente col passato.
E tu lo sai, speranza degli zoppi,
dici Pantani e viene in mente Coppi.

Forse ti annoia, te l’han detto in troppi
e non c’è paragone di falcata.
La tua un petardo, tutta strappi e scoppi,
La sua distesa, lunga serenata.
Di uguale c’è che fan venire i groppi,
svegliano la montagna addormentata
e impiombano le gambe agli avversari.
Voi generosi, loro troppo avari.

Loro troppo moderni, programmati,
col cardiofrequenzimetro e la soglia
mentre gli antichi scatenati
soltanto dal coraggio e dalla voglia.
Marco, sei il fumetto che si sfoglia
per il bambino, sei ricordi amati
del vecchio. E tutti battono le mani.
Antichi, vuole dire solo umani.

L’uomo che sale solo sotto il sole
E porta tutta l’ansia di volare
È un flash senza bisogno di parole,
è nuovo e antico, come il sole e il mare.
Ha crocco e girasole nelle aiuole,
sparisce ad un tornante e poi riappare.
L’uomo così ferito dalla vita
è come un cane, addenta la salita.

A testa nuda, l’uomo che va via
piacerebbe anche a Pindaro, ad Orazio,
a Saba, a Marinetti, è poesia,
è il cuore che si fionda nello spazio,
è forza pura, sogno e fantasia,
lancinante piacere, estremo strazio.
Uomo-martello e insieme uomo-incudine,
milioni di persone e solitudine.

Panta rei, tutto scorre. Panta corre
arando a larghi colpi la montagna,
saltellando fra pinnacoli e forre
sotto un cielo che brucia o che bagna.
È un grido dal più alto della torre,
parte dai Pirenei e arriva in Spagna.
Cane tra i cani, fiuto sul cammino.
Ecco, adesso si toglie il berrettino.

In Francia ho portato un mio violino
di parole di carta rattoppata.
Lo suono meglio se mi batte il cuore
come a un vecchio, come a un bambino.
Cambio il ritmo, cambio pedalata
perché bisogna pur farla finita
anche se ho voglia di continuare.
Oltre la lunga e lenta ala del mare
dormi, Marco, e sogna. Sul cuscino
ti veglierà una stella innamorata
è t’accompagnerà tutta la vita.

(Gianni Mura per tuttoBICI settembre 1998)



Imbecilli senza confini ma la brava gente è di più – Gianni Mura

L'ultima rubrica di Gianni Mura, i "Sette giorni di cattivi pensieri" usciti domenica 15 marzo 2020 su Repubblica

Non bisognerebbe scriverlo, ma è sempre vagamente piacevole scoprire che esistono emeriti imbecilli anche oltre i nostri confini. Il più imbecille della settimana, al punto che nemmeno gli giro un voto, è Diego Costa, attaccante dell’Atletico Madrid. Dopo la clamorosa vittoria a Liverpool (ma non per merito suo: sostituito da Simeone) ha attraversato la zona mista senza rilasciare dichiarazioni ma tossendo caricaturalmente e senza protezioni. Resto in attesa che il suo club lo multi, ma ne dubito, oppure lo stanghi l’Uefa.
 
Previa traduzione di quella parolina (“respect”, anagramma spectre) che tutti i partecipanti alla competizione recano sulla maglia. Un altro imbecille è Rudy Gobert, cestista francese, centro degli Utah Jazz. Dopo la gara con gli Oklahoma City Thunders ha concluso la conferenza stampa toccando tutti i microfoni e gli smartphone sul tavolo. Prima reazione: sciocchino, va bene voler esorcizzare la paura del contagio ma c’è modo e modo.
Già, anche perché Gobert non sapeva di essere contagiato.
 
Seconda reazione: sciocchino è un complimento. Segue lungo comunicato in cui Gobert si pente («sconsiderato», «non ho scuse»).
Con i Jazz ha chiuso. Non meno imbecilli, ma anonimi, i tifosi del Psg assiepati fuori dallo stadio. Evitare gli assembramenti? Ecco la risposta.
 
Poi è evidente che gli imbecilli li abbiamo anche noi. Un amico m’ha detto che a Milano, parco Sempione, venerdì sembrava ci fosse un raduno di corridori a piedi. Senza la distanza di un metro, con la libertà di tossire e sputazzare. Incoscienti, dite? Ma se un incosciente non recupera un minimo di coscienza nemmeno in situazioni come quella che stiamo attraversando è un imbecille pericoloso. La situazione che stiamo attraversando, però, permette di dire che gli imbecilli sono una minoranza e la brava gente una maggioranza.

La parola buonismo è scomparsa, spero per sempre ma non m’illudo, e con forza ricompaiono solidarietà, doveri, responsabilità, unione, sacrifici. E sotto questo ombrello, difesa e coesione, ci stanno tante cose: la maglietta esibita dall’Atalanta a Valencia, dopo una serata stordente per emozioni, e dedicata a Bergamo: mai mollare.
 
I versamenti di tanti sportivi, da Insigne a Bonucci, e di tanti club, da Zhang ad Agnelli. I 30 mila pasti caldi gratuiti che da oggi al 15 giugno Ernesto Pellegrini farà arrivare nelle case di anziani e famiglie bisognose di 17 comuni lombardi, da Busto Arsizio a Vigevano. Tutte le corriere di Senigallia incolonnate verso l’ospedale: suonano il clacson e hanno striscioni di ringraziamento. L’applauso a mezzogiorno, dai balconi d’Italia, per medici e infermieri in prima linea. I nuovi eroi, certamente.

La ruota gira. Fino a due mesi fa, per loro c’erano più aggressioni che applausi, e si invocava un posto di polizia in ogni Pronto soccorso per evitare violenze e devastazioni. La ruota gira. In Italia sono stati picchiati cinesi ritenuti untori. Ma la Cina ci manda medici, mascherine, materiale sanitario. L’Europa, di cui facciamo parte, per ora ci ha mandato solo parole, e non sempre carine.
 
Alleggerire? Su Domenico Marocchino si scrive volentieri, non solo perché da opinionista su Rai 2 ("A tutta rete") non è mai banale. A 63 anni, sempre la faccia di uno appena buttato giù dal letto, di un ex figlio dei fiori persosi tra Malibu e Valenza Po. “De profession bel zòven”, avrebbe detto Rocco di lui. Lo sapevano anche all’estero.
C’ero all’aeroporto di Varsavia, Juve di passaggio per andare a giocare a Lodz. Agli sbarchi, gruppo di belle ragazze con un cartello in perfetto italiano: “Marocchino, vieni in discoteca a ballare con noi?”. Era l’83. Marocchino nella Juve giocava come se non fosse la Juve.
 
Ignorando tutte o quasi le sacre regole. Il calcio era un gioco, la vita era bella perché c’erano (nell’ordine) le ragazze, le sigarette, il cinema, le mostre d’arte, i vini rossi. Boniperti, che conosceva i suoi polli, voleva inserire nel contratto una clausola: non più di 20 sigarette al giorno. No, disse Marocchino, sarebbe scorretto da parte mia, lei non ha tutti i mezzi per controllarmi. Non tutti, ma ex militari in pensione sì.
Marocchino sembra appena caduto dal letto, ma era ed è sveglio. Li conosceva tutti, d’inverno li invitava a bere qualcosa al caldo. Una notte lo beccarono che rincasava alle 3.
 
«Tutta colpa del presidente, insiste perché io respiri aria buona e io esco quando c’è meno smog». Su SW della scorsa settimana c’è molto amarcord suo. Domande giuste, risposte buone, Marocchino è un intellettuale mascherato e mi (gli) chiedo perché non abbia ancora scritto un libro sul suo calcio, dove si sbagliava da professionisti, come nella canzone di Paolo Conte. Ricordo lo stupore con cui raccontò i sistemi di controllo.
«Telefonata a casa alle 22.30, massimo 22.45, e devo essere lì a rispondere. Li ringrazio. La mia ragazza arriva alle 20, e dopo chi ha più voglia di uscire?».
 
Angolo della poesia: “Stupida America” di Abelardo Delgado: “Stupida America, vedi quel chicano/con un grosso coltello/nella mano ferma/non vuole accoltellarti/vuole sedersi su una panchina/a intagliare crocefissi/ma tu non glielo permetti./ Stupida America, senti quel chicano/che grida maledizioni in strada/ è un poeta/senza carta e matita/ e siccome non può scrivere/sta per esplodere./ Stupida America, ricordi quel chicanito/bocciato in matematica e in inglese/ è il Picasso/ dei tuoi stati occidentali/ma morirà/ con mille capolavori/appesi solo alla sua mente”.





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