mercoledì 18 marzo 2020

Il paese palestinese che non si arrende mai - Gideon Levy


Sul paese di Nabi Saleh, in Cisgiordania, sta scendendo la sera e, con il diminuire della luce, arriva un freddo che penetra fin dentro le ossa. All’ingresso del villaggio una fila infinita di auto si allunga in entrambe le direzioni. Lo scintillio dei loro fari si vede da lontano. La fila avanza con una lentezza esasperante, ma tutti sanno che è meglio non suonare il clacson né cercare di sorpassare. Lasciare Nabi Saleh è un calvario che richiede molta pazienza e che può durare anche più di un’ora. I poliziotti di frontiera israeliani che gestiscono il posto di blocco indossano sciarpe nere per proteggersi dal freddo pungente, ma anche per nascondersi il volto. Uno fa segnali con una piccola torcia verde per indicare all’auto successiva di avanzare fino alla barriera. Figure avvolte dall’oscurità, tensione alle stelle.
I poliziotti di frontiera e i soldati delle forze armate israeliane controllano la patente di ogni autista e il bagagliaio di ogni auto per quella che sembra un’eternità. Sono tornati i posti di blocco. Nessuno naturalmente crede che abbiano davvero qualcosa a che fare con la sicurezza. Un ricercato o un terrorista che può vedere il posto di blocco dalla collina su cui sorge il paese si metterebbe in coda per essere catturato? È davvero convinto che i soldati non scoprirebbero l’ordigno esplosivo nascosto nel bagagliaio? Sono tornati i posti di blocco per tormentare e molestare i palestinesi, per tiranneggiarli e ricordargli chi comanda da queste parti.
Due rozzi poliziotti di frontiera e un terzo che invece sorride con cordialità fanno il loro lavoro. Dopo pochi minuti si vede di nuovo la luce verde al posto di blocco e un’altra automobile avanza lentamente per sottoporsi al rituale. Questo deve essere il tragitto più lento del mondo, alimentato dalla paura dei soldati, che sono tenuti ad aprire il fuoco per qualsiasi minimo fraintendimento.
Granate come decorazione
Da febbraio Nabi Saleh è tornato al passato e il posto di blocco israeliano all’ingresso del paese è di nuovo attivo e in funzione quasi tutto il tempo. Non si capisce bene perché. Ogni giorno da questo posto di blocco passano gli abitanti di cinque paesi e ormai è quasi sera, l’ora in cui i lavoratori tornano a casa.
Dall’altra parte della strada brillano le luci dell’insediamento israeliano di Halamish. I suoi abitanti superano rapidamente la paralisi all’ingresso del vicino paese palestinese. Non riguarda loro, solo i palestinesi. Nel quotidiano gratuito Israel Hayom, il dottor Shuki Friedman, che insegna legge al centro accademico Peres di Rehovot, spiega che “in Giudea e Samaria non ci sono discriminazioni plateali tra israeliani e palestinesi sulla base delle origini e con finalità ostili”. Nella fila che si allunga all’uscita da Nabi Saleh, di fronte all’insediamento di Halamish, si può solo ridere di questo commento, oltre che rimanere sconvolti all’idea che in Israele gli studenti apprendono la giurisprudenza da insegnanti di questo livello.
Nabi Saleh è un paese di collina non lontano da Ramallah dove vivono circa 600 persone, tutte appartenenti alla famiglia Tamimi. Nei pressi dell’entrata c’è la casa di Manal e Bilal Tamimi, dove i visitatori sono accolti da un’esposizione di munizioni usate delle forze armate israeliane, collocata sul tavolo accanto alla porta. Quasi tutte le case qui espongono involucri di granate come decorazione. Manal, 48 anni, è responsabile delle pubbliche relazioni internazionali al ministero delle comunicazioni palestinese; Bilal, 54 anni, lavora come grafico al ministero dell’istruzione palestinese. Ogni mattina si recano insieme in auto ai rispettivi posti di lavoro, a Ramallah. Hanno tre figli e una figlia. Il 14 febbraio hanno quasi perso il ventenne Mohammed, il cui ritratto gigantesco su un poster domina la parete sulla porta di ingresso. Il poster è stato appeso lo scorso mese di agosto, quando Mohammed è stato liberato dal carcere.
Mohammed e il fratello Osama, 23 anni, erano stati arrestati a dieci giorni di distanza l’uno dall’altro, nel gennaio 2017. Osama era stato condannato a nove mesi di carcere, Mohammed a venti mesi. Le accuse erano le solite: lancio di sassi e appartenenza a un’organizzazione illegale. Casa loro è un palese bastione di Al Fatah, con foto di Yasser Arafat in ogni angolo. Una in particolare cattura l’attenzione: si vede il rais, o presidente, con in braccio Mohammed all’età di due anni. Manal e Bilal sono una coppia molto politicizzata, animati dal senso di una missione: Bilal racconta cosa è accaduto e Manal fornisce la giustificazione ideologica. Quasi fin dall’inizio, nel 2009, Bilal ha ripreso con la sua telecamera le manifestazioni nel paese.
Come è successo in altri paesi coinvolti nella lotta, proteste sono cominciate quando un colono israeliano si è impadronito di una sorgente d’acqua. Ogni venerdì per nove anni si sono tenute manifestazioni a cui ha partecipato la maggior parte degli abitanti insieme a diverse decine di israeliani e attivisti di tutto il mondo. Jonathan Pollack, uno dei più determinati e tenaci attivisti israeliani, ha trascorso alcune settimane sotto custodia della polizia per essersi rifiutato di pagare la cauzione di 500 shekel (circa 140 euro) dopo la denuncia presentata da un gruppo di estrema destra. A Nabi Saleh lo chiamano Jonathan Tamimi in segno di ammirazione.
Nuvola di lacrimogeni
Due anni fa il comitato popolare del paese aveva deciso di interrompere le manifestazioni settimanali. Il paese aveva già seppellito quattro manifestanti, tre di Nabi Saleh e uno di un paese vicino; 22 abitanti erano in carcere in Israele e 15 erano stati feriti da proiettili veri. Sono cifre brutali in un centro minuscolo come Nabi Saleh. Molti abitanti si sono ammalati nel corso degli anni a causa delle enormi quantità di gas lacrimogeni usate dalle forze armate israeliane e dai poliziotti di frontiera. Dopo una manifestazione, gli abitanti del paese hanno raccolto gli involucri di 1.500 granate di gas lacrimogeni esplose dai soldati. Nel corso di un funerale al quale abbiamo partecipato una densa nuvola di gas lacrimogeno aleggiava su tutto il paese, minacciando di soffocare i presenti.
Nabi Saleh ha deciso di prendersi una pausa. Dopo quasi un decennio di manifestazioni settimanali, gli abitanti hanno ammainato le bandiere conservandole per occasioni speciali (come la protesta scattata dopo che è stato reso noto il piano di Trump). Quando Ahed Tamimi, che vive qui ed è parente e amica di Mohammed (oggi studia legge all’università di Bir Zeit), era stata arrestata nel dicembre 2017 per aver schiaffeggiato un soldato israeliano, l’attenzione di tutto il mondo si è concentrata di nuovo sul piccolo centro.
Più o meno un’ora prima dell’incidente, non lontano da casa sua, il cugino quindicenne di Adeh, anche lui di nome Mohammed, era stato colpito da un proiettile esploso dalle forze di sicurezza israeliane che gli ha sfigurato la testa e sfregiato il volto. Mohammed, invalido, successivamente è stato arrestato perché sospettato di aver tirato delle pietre. Pochi mesi dopo, nel giugno 2018, è stato ucciso Izz al Din Tamimi. Si tratta della vittima più recente di Nabi Saleh. Almeno fino a oggi.
La lotta in modo diverso
Manal respinge l’accusa secondo cui il paese si sarebbe arreso. “Se ci avessero spezzato adesso avremmo paura, e invece non abbiamo paura”, dice. “Quando i coloni si avvicinano al paese, tutti gli abitanti scendono per strada. Quando arriva l’esercito, tutti gli abitanti escono di casa. Una volta un agente ci ha detto: ‘I Tamimi non dormono mai, quando arriviamo di notte li troviamo ad aspettarci’. Stiamo portando avanti la lotta, ma lo facciamo in modo diverso”.
Manal ricorda che all’inizio delle manifestazioni non erano troppo d’accordo sulla partecipazione di israeliani. Negli altri paesi coinvolti nella lotta – Budrus, Kaddum, Bilin e Na’alin – gli attivisti israeliani marciavano fianco a fianco con i manifestanti palestinesi. Per Nabi Saleh però era difficile, racconta Manal. “Dall’inizio dell’occupazione, nel 1967, abbiamo perso 22 abitanti, uccisi da Israele. Gli unici israeliani che conoscevamo erano i coloni e i soldati. Non conoscevamo nessun altro. Nel corso del tempo però abbiamo scoperto un aspetto umano della società israeliana. Non tutti sono soldati o coloni. Non tutti si rifiutano di riconoscere la nostra esistenza. Gli israeliani hanno cominciato a partecipare alle nostre manifestazioni, ma anche ai nostri matrimoni e alle cerimonie di fidanzamento”. Da allora gli attivisti israeliani hanno preso parte regolarmente alle proteste settimanali. “Abbiamo rifiutato di dialogare con i coloni”, prosegue Manal. “Non abbiamo nessuna possibilità di dialogare con la loro mentalità. So che se avessero la possibilità di ucciderci lo farebbero”.
“Una volta siamo andati a fare un picnic alla sorgente”, prosegue. “Sono arrivati immediatamente i coloni e hanno cominciato ad aggredirci con le pietre. È arrivato un ragazzino armato di un fucile M-16 e l’ha puntato verso di noi. Ho chiesto a suo padre, in piedi accanto a lui: ‘Perché suo figlio è armato?’. E lui mi ha detto: ‘Gli ho insegnato che bisogna sparare a ogni palestinese prima che ti uccida’. Gli ho chiesto: ‘Sa perché mio figlio non è armato? Perché gli ho insegnato che questa è la nostra terra. Lei crede nel fucile ed educa suo figlio all’odio, io credo nella giustizia e quindi mi sento più al sicuro di lei. Noi stiamo educando i nostri figli a resistere, ma restando umani’. Poi qualcuno mi ha lanciato una pietra e la conversazione è terminata”.
Il 31 gennaio il paese è sceso di nuovo in piazza, stavolta per protestare contro il piano di Trump. Bilal è andato con la macchina fotografica a una manifestazione a Bilin mentre Manal era a casa con l’influenza. Il figlio Mohammed, che lavora nel parco divertimenti della nuova città palestinese di Rawabi, non lontana dal paese, è andato alla manifestazione con il fratello Osama prima di proseguire per Rawabi.
Lanciando pietre e incendiando pneumatici i manifestanti sono scesi sull’autostrada e sull’insediamento di Halamish; i soldati li aspettavano e hanno cercato di respingerli verso il paese sparando e lanciando gas lacrimogeni, poi li hanno inseguiti di strada in strada. Anche stavolta i soldati si sono sparpagliati nelle case sparando a caso. Gli abitanti di Nabi Saleh hanno raccontato che i soldati hanno sparato una quantità mai vista prima di proiettili veri. Per le strade sono state raccolte centinaia di cartucce esplose. Bilal ha telefonato da Bilin, Mohammed e Osama gli hanno detto che gli scontri erano al culmine. Mohammed è andato alla stazione di servizio all’ingresso del paese, dove un autista avrebbe dovuto passare a prenderlo e accompagnarlo al parco di divertimenti. Tuttavia, a causa delle violente raffiche di proiettili sparate dai soldati, lui e altri giovani si sono ritirati verso la zona collinare sopra la casa di Ahed Tamimi.
Nel frattempo Bilal era tornato al paese e aveva fatto delle riprese. Poi si è diretto verso casa, e ha sentito delle persone urlare che Mohammed era stato ferito. Si è precipitato fuori e ha visto Mohammed per terra, con una macchia di sangue sul petto. L’ha subito caricato in macchina. Osama, in piedi accanto a lui, aveva una leggera ferita alla gamba provocata da una scheggia di proiettile. Si sono precipitati all’ambulatorio nella cittadina di Selfit. Manal guidava la sua automobile assieme alla nuora, ma si è talmente tanto agitata da perdersi. Da Salfit, Mohammed è stato trasferito al nuovo ospedale privato di Istishari, a Ramallah. I medici gli hanno trovato un proiettile conficcato nella parte sinistra del petto, a pochi millimetri dall’aorta. Non c’era modo di rimuovere il proiettile senza mettere a repentaglio la sua vita. Il proiettile è rimasto nel suo corpo.
La terza ferita
In risposta a una richiesta di Haaretz, il portavoce delle forze armate israeliane ha dichiarato questa settimana: “Venerdì 31 gennaio 2020 c’è stato un violento tumulto nei pressi del paese di Nabi Saleh, nell’area della brigata territoriale Ephraim. Nel corso dei tumulti i manifestanti hanno lanciato ai soldati dell’esercito israeliano pietre, bottiglie Molotov e pneumatici in fiamme. In risposta i soldati hanno messo in campo misure per disperdere la folla e hanno aperto il fuoco sui manifestanti”.
Il portavoce delle forze armate non ha risposto alla domanda che gli era stata posta, e cioè perché i soldati israeliani usano proiettili veri per disperdere la folla.
Questa è la seconda volta che Mohammed viene colpito da un proiettile che poi rimane all’interno del suo corpo. Esattamente cinque anni prima, il 31 gennaio 2015, un proiettile calibro 22 l’aveva colpito alla gamba esplodendo all’interno; i frammenti si sono incastrati vicino a un’arteria e i medici hanno deciso di lasciarli lì. Dalle radiografie si vedono chiaramente il proiettile nel petto di Mohammed e i frammenti nella gamba sinistra.

In realtà questa è stata la terza ferita. Quando aveva 12 anni una granata di gas lacrimogeno gli è esplosa tra le gambe mentre stava seduto su uno steccato nel paese. È stato in ospedale per dodici giorni a causa delle complicazioni della ferita. Manal sottolinea che la maggior parte delle persone ferite nel paese sono state colpite sul lato sinistro, il più pericoloso. Anche lei ha frammenti di proiettile nella gamba sinistra, dopo essere stata colpita durante una manifestazione nel 2015. Ha assistito all’uccisione di due manifestanti accanto a lei: Rushdi Tamimi e Mustafa Tamimi. Mohammed dice di non voler partecipare ad altre manifestazioni. Sua madre sembra scettica e osserva che anche quando era stato liberato dopo venti mesi di carcere aveva dichiarato di non voler partecipare più alle proteste.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul quotidiano israeliano Haaretz

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