sabato 7 marzo 2020

COME PORTARE IL MONDO FUORI DALLA POVERTÀ - Marinella Correggia (*)


Solo dieci anni ci separano dal 2030, l’orizzonte temporale per il raggiungimento dei 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Ods), detti anche Agenda 2030, approvati dall’Onu nel 2015 (1). Impegnativi a partire dai primi due: «porre fine alla povertà in tutte le sue forme in tutto il mondo» e «porre fine alla fame, realizzare la sicurezza alimentare e una migliore nutrizione, promuovere l’agricoltura sostenibile». Ne siamo lontani, visto che nell’anno appena trascorso il numero di affamati (821 milioni di persone) nel mondo è nuovamente in aumento dopo decenni di regressione, e che i livelli di insicurezza alimentare grave o moderata riguardano inoltre il 26% della popolazione mondiale ((2).
In questo 2020, iniziato fra un’emergenza mondiale e l’altra (virus, locuste, terrorismo e i «soliti» eventi estremi climatici), la «comunità internazionale» si trova sulla soglia di diversi appuntamenti importanti. È arrivato a metà percorso il Decennio Onu per la nutrizione, mentre entra nel secondo anno il Decennio per l’agricoltura familiare. Nel mese di novembre si terrà a Glasgow la cruciale Conferenza delle parti delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Cop26). Nel 2021, poi, l’Onu organizzerà a New York il Vertice mondiale sui sistemi alimentari. Questi ultimi sono messi a repentaglio dal caos climatico – il quale potrebbe far precipitare nella povertà altri 100 milioni di persone nei prossimi dieci anni – ma al tempo stesso lo influenzano: il settore emette annualmente il 25% dell’anidride carbonica totale di origine antropica.
Quale strada a ostacoli dovrà dunque essere percorsa in questi dieci anni per onorare gli obiettivi dello sviluppo sostenibile? «Il cammino passa per le aree rurali impoverite. Il sostegno e gli investimenti a favore dei lavoratori più marginali delle campagne, i piccoli produttori agricoli, le donne, i giovani, le popolazioni indigene, va messo al centro della lotta contro la povertà e la fame, per la resilienza ai cambiamenti climatici e la risoluzione dei conflitti. Abbiamo dieci anni e i prossimi due saranno cruciali, per l’impegno politico da assumere e le risorse finanziarie da mobilitare»: così ha detto il togolese Gilbert Houngbo, presidente del Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad), una delle tre istituzioni «agroalimentari» dell’Onu con base a Roma – le altre sono la Fao e il Programma alimentare mondiale -, e anche l’unica istituzione finanziaria multilaterale che dal 1977, ha il mandato esclusivo di sostenere, con doni o prestiti agevolati a seconda delle situazioni, le economie rurali e i sistemi alimentari nelle regioni più marginali, «là dove la Banca mondiale e le altre si fermano». I servizi finanziari arrivano raramente nelle comunità rurali che ne hanno bisogno per produrre meglio, avere accesso ai saperi, alle tecnologie e ai mercati, migliorare le condizioni di vita (3).
Nei primi giorni di febbraio 2020, l’Ifad ha tenuto la 43° sessione del suo governing council e, in occasione della dodicesima ricostituzione del proprio fondo, ha chiesto ai 177 Stati membri del Fondo di aumentare gli sforzi a vantaggio delle popolazioni più marginali, così da affrontare l’instabilità globale e un circolo vizioso, quello fra estrema povertà, insicurezza alimentare, migrazioni, aggravato dai cambiamenti climatici da un lato e dai conflitti dall’altro. Il 75-80% dei poveri si concentra nelle campagne, dove due miliardi di persone dipendono da piccoli appezzamenti agricoli; e – apparente paradosso – la maggior parte delle persone che vanno a letto affamate appartengono a famiglie contadine o comunque di lavoratori rurali e produttori di alimenti. Investire nelle campagne significa potenziare di due o tre volte l’impatto in termini di riduzione della povertà.
Un miliardo di giovani nella fascia d’età fra i 15 e i 24 anni vive nei paesi in via di sviluppo, e 500 milioni nelle aree rurali; cifra che sale ad almeno 780 milioni se si considerano anche le aree semirurali e periurbane (4). In molti contesti, le ragazze di campagna hanno una sfida in più: le norme sociali. Si pensi all’Afghanistan, un’emergenza dopo l’altra, un paese in guerra da 40 anni dove intere generazioni non sanno cos’è la pace. La partecipazione politica e sociale delle donne – tante le vedove di guerra che si fanno carico di tutta la famiglia – viene ora tentata nei 35.000 consigli per lo sviluppo comunitario sparsi nel paese: devono contare almeno il 40% di donne. La fascia giovanile è la più attiva.
Malgrado l’idea diffusa che l’età media degli agricoltori nelle campagne dei paesi impoveriti o emergenti sia intorno ai sessant’anni e che tutti i giovani se ne vadano, nei fatti anche le nuove leve fanno in maggioranza lavori collegati all’agricoltura. Ma per essere efficaci, investimenti e politiche devono offrire accesso alla terra (5) e opportunità formative e occupazionali, ma anche rendere le campagne più appetibili: la rivoluzione digitale e quella tecnologica sono particolarmente attraenti per i giovani. Il rischio è di avere una generazione perduta che cerca solo di andarsene.
Si pensi in particolare all’Africa, dove l’Ifad investe almeno il 50% delle risorse. Stretto fra insicurezza, conflitti armati, cambiamenti climatici ed eventi estremi, il continente ha tuttavia un sogno di rinascita. L’orizzonte stavolta non è il 2030 ma, più realisticamente, il 2063. Cinquant’anni a partire da quando, nel 2013 ad Addis Abeba, l’Unione africana (Ua) ha elaborato l’Agenda 2063. L’Africa che vogliamo (6), «la visione panafricana di un continente integrato, prospero, in pace, guidato dai propri cittadini e forza dinamica nello scenario internazionale». Obiettivi molto lontani dalla realtà anche geopolitica dell’oggi. Josefa Sacko, commissaria dell’Ua per l’economia rurale e l’agricoltura, intervenendo all’ultima conferenza dell’Ifad è stata chiara: «Nel 2019 rispetto all’anno precedente i conflitti sono aumentati del 36%. Pregiudicano la produzione agricola e portano spostamenti e destabilizzazione. Non è possibile alcuno sviluppo senza la pace».
Guerre cosiddette civili e/o attacchi da parte di gruppi terroristici tormentano Congo, Somalia, Sud Sudan, Nigeria, Mali, Niger, Repubblica Centrafricana, Burkina Faso, Libia… In parallelo, sempre per citare Sako, «dopo molti anni la fame è tornata a crescere, ma aumentano anche il diabete e altre malattie non trasmissibili». Quanto ai cambiamenti climatici, sono un «fattore propulsivo di migrazioni e conflitti». Dunque «la finanza per lo sviluppo è fondamentale per la trasformazione delle aree rurali, la sicurezza alimentare, la resilienza ai cambiamenti climatici, la condizione delle donne e dei giovani, e per creare opportunità in modo tale che i mercanti di guerra non trovino più giovani da armare».
Certo, i cambiamenti climatici aiutano talvolta il lavoro di gruppi jihadisti perché rendono più intollerabile la povertà rurale. Lo ricordano spesso gli africani, ad esempio Ibrahim Boubacar Keita, presidente del Mali (7): «Viviamo e subiamo lo sconvolgimento dei cicli naturali, la rarefazione delle terre e una maggiore precarietà, della quale approfittano gruppi – terroristi la cui vocazione è morire e far morire – che in nome dell’islam pretendono di sostituire lo Stato». È anche il peso di guerre altrui a ricadere sull’Africa in termini di violenza jihadista, in passato sconosciuta: «Il nostro spazio è stato investito da persone non invitate ed è successo a causa, lo dico con decisione, di scelte fatte da altri. Noi ne subiamo le conseguenze. Quando la questione libica è esplosa non siamo stati consultati, abbiamo subito. Adesso siamo noi le vittime».
E si pensi al caso della Somalia, descritto dal ministro dell’agricoltura e dell’irrigazione Said Hussein Iiid (8): «In 30 anni, oltre alla guerra, abbiamo avuto 12 lunghe siccità, 18 inondazioni, una migrazione interna verso i centri urbani e internazionale verso i paesi vicini e altri continenti. Gli investimenti rurali sono indispensabili anche per evitare conflitti legati anche agli spostamenti in cerca di acqua e pascolo per il bestiame» (metà della popolazione è costituita da pastori). Gli interventi devono puntare sulle donne (che dopo una guerra civile diventano ancora più importanti, con la morte o l’invalidità degli uomini) e sui giovani, «per evitare che si facciano coinvolgere in gruppi armati o che lascino il paese. Occorre interessarli all’agricoltura, ma le tecniche tradizionali non li attraggono, la cosa più importante è la tecnologia, la meccanizzazione». La riduzione della fatica di vivere e lavorare nei campi, l’aumento della produttività e dell’efficienza: sono possibili? Investire nella tecnologia costa, ma il prezzo delle materie prime è dettato da una dittatura: i mercati internazionali. Nella Repubblica centrafricana hanno verificato che, non appena i prezzi del cotone si abbassano e la povertà aumenta, i giovani più facilmente prendono le armi si dedicano a un altro mestiere.
Quanto al Sudan, ha vissuto una lunga dittatura, la separazione post-guerra del Sud Sudan (ricaduto nel conflitto subito dopo la raggiunta indipendenza), gli scontri sanguinosi nel Darfur. Dove investire risorse? Le donne sono il pilastro della sicurezza alimentare; il nuovo governo cerca di organizzarle in cooperative. Importanti i vivai per la piantumazione di alberi. Serviranno alla Grande muraglia verde, un titanico progetto-simbolo per l’Africa sub-sahariana: lanciato nel 2008, prevede una barriera di alberi lunga 7800 chilometri attraverso 11 paesi. Molte le difficoltà e le lentezze, anche se alcuni successi, soprattutto in zone aride del Senegal, fanno ben sperare (9). Uno sforzo che registra anche storie esemplari, come quella di Dsniel Balima, vivaista 67enne che vive a Tenkodogo, un villaggio del Burkina Faso (un altro paese saheliano coinvolto nel progetto contro il deserto): senza l’uso delle gambe fin dall’infanzia per via della poliomielite, da decenni fa il vivaista e ha superato il milione di pianticelle seminate (10).
Ma, come gli alberi della Grande muraglia, lo sviluppo delle filiere alimentari non può prescindere dalla disponibilità di acqua. La ministra dell’agricoltura del Chad, Madjidian Padja Ruth, sottolinea lo sforzo degli attori agricoli, «l’80% della popolazione, nel mio paese», di fronte alle vulnerabilità: «Condividiamo la frontiera sul lago Chad con Niger, Nigeria, Camerun. A causa delle ripetute siccità, il lago, vitale per molte popolazioni, si è ridotto a uno spazio insignificante. Dal canto suo il terrorismo provoca spostamenti di popolazione. Le terre coltivabili sono abbandonate, l’insicurezza è grande.» Eppure il Chad, malgrado le prolungate emergenze e la crisi economica, ha promesso all’Ifad che per il 2020 pagherà regolarmente il proprio contributo al Fondo. Non si può dire altrettanto per diversi paesi del Nord del mondo.
Questi ultimi, malgrado godano di vantaggi coloniali e post-coloniali da rentiers e abbiano maturato un grosso debito ecologico e climatico nei confronti del resto del mondo, sono spesso meno generosi degli altri e con un braccio riprendono quello che hanno concesso con un dito. C’è chi osa dirlo. Come accade nei contesti Onu, anche nella conferenza Ifad 2020 a Roma è toccato all’ambasciatore di Cuba additare alcune disgrazie aggiuntive man-made: le spese militari (e la vendita di armi), i conflitti fomentati, le sanzioni economiche unilaterali.

NOTE
(2) Rapporto di Fao, Ifad, Wfp, State of Food Security and Nutriton 2019, www.fao.org/3/ca5162en/ca5162en.pdf
(3) Il rapporto annuale dell’Ifad 2019 riporta questi risultati, fra i 205 progetti in corso. In Bolivia il programma Accesos, chiuso nel 2019 ha rigenerato quasi 7.000 ettari di terre degradate, raggiunto quasi 60.000 famiglie, al 46% guidate da donne, puntato su pratiche indigene di adattamento ai cambiamenti climatici. In Nigeria il programma di sviluppo della catena di valore ha creato 5.000 posti di lavoro, incrementato la produzione di riso e cassava di un milione di tonnellate e aumentato del 25% il reddito della grande maggioranza dei beneficiari. Un progetto nel Southern Punjab ha quasi eliminato la povertà estrema (scesa dal 58% al 4%) combinando protezione sociale, formazione professionale e infrastrutture (fra le quali i servizi igienici e l’energia solare). In Sudan, il progetto integrato Butana per lo sviluppo rurale ha migliorato la resilienza climatica di oltre 500.000 ettari, aumentando del 90% le rese e abbattendo la percentuale di poveri: dal 50% al 12%.
(4) Ifad, 2019 Rural Development Report. Creating Opportunities for Rural Youth. https://www.ifad.org/documents/38714170/41190221/RDR2019_Overview_e_W.pdf/699560f2-d02e-16b8-4281-596d4c9be25a
(5) La Dichiarazione delle Nazioni unite sui diritti dei contadini e delle altre persone che lavorano nelle aree rurali, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite a fine 2018, sottolinea all’articolo 17 l’urgenza di riforme agrarie che garantiscano l’accesso alla terra. https://www.geneva-academy.ch/joomlatools-files/docman-files/UN%20Declaration%20on%20the%20rights%20of%20peasants.pdf
(6) Agenda 2063: The Africa we want https://au.int/Agenda2063/popular_version
(7) Trascrizione dell’intervento del presidente in occasione della 43 esima sessione del Governing council dell’Ifad, Roma, febbraio 2020.
(8) Appunti dal seminario «Lo sviluppo rurale per disinnescare i conflitti, promuovere la pace e rafforzare la resilienza dei piccoli coltivatori di fronte agli shock climatici», Roma, 12 febbraio 2020.
(11) Breve intervista della ministra all’autrice, Roma, febbraio 2020.
18 febbraio 2020

(*) ripreso da blog-micromega

da qui

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