giovedì 26 marzo 2020

È l’ora di un cambio di passo - Guido Viale




Molti si aspettano che, se e quando l’emergenza covid-19 sarà finita, la gente si precipiti nei negozi, dai concessionari e nelle agenzie per un’abbuffata di beni e spese superflue di cui si è dovuta privare per tanto tempo, ma temono che l’insicurezza creata da questa incursione dell’imprevisto nelle nostre vite la trattenga da quei comportamenti, che sono indispensabili per “sostenere la domanda” e tenere in vita il sistema.
Perché molti e molte altre, dopo l’iniziale assalto ai supermercati, hanno sperimentato lo spavento che provocano tante città deserte e spettrali e l’angoscia di non sapere come uscirne, ma anche i benefici di un regime di sobrietà. Capiscono che si può vivere bene con l’essenziale, o poco più, disporre di più tempo per sé e per gli altri, dare spazio alla solidarietà e, se e quando potrà tornare in strada, avere aria pulita, ritmi meno frenetici e spazi sgombri per incontrarsi.
Sembra un confronto impari, viste le armate di cui dispongono i burattinai del consumo superfluo a fronte delle “voci nel deserto” di chi lavora per un altro mondo possibile. Però gli economisti al servizio di quei burattinai non prendono mai in considerazione la crisi climatica e ambientale in corso: per loro non c’era prima del coronavirus, non c’è adesso, non ci sarà nemmeno dopo. E anche se c’è, il problema resta il Pil. Mentre per coloro che pensano a un altro mondo possibile la sobrietà che covid-19 ha introdotto nelle nostre esistenze prefigura un diverso regime di vita, che permetta a tutti di ridurre gli sprechi e le ingiustizie indotte dai consumi superflui, condizione indispensabile per salvare la vita umana sul pianeta Terra.
Questi opposti approcci interpellano tutti e hanno un riscontro nel conflitto riesploso in molte fabbriche, dove gli operai vengono “precettati” per continuare a lavorare in ambienti senza sufficienti difese sanitarie, a produrre cose non indispensabili, mentre tutti gli altri sono confinati nelle loro case, in parte a lavorare on line (che non sempre è un vantaggio, soprattutto per le donne), in parte a riposare sul divano e a riflettere sul mondo e la vita: cosa assai più utile e gradevole che continuare a faticare in produzioni destinate prima o poi a bloccarsi per la rottura di una catena delle forniture ormai globale, o a rimanere in magazzino perché i mercati di sbocco non le assorbiranno più al ritmo di prima.
Una situazione che caratterizzerà il futuro dell’industria anche dopo il coronavirus a causa dei disastri che la crisi climatica continuerà a generare. Così, il calo della domanda dovuto a scelte di sobrietà, o anche solo di prudenza, ben si combina con una riduzione dell’offerta di beni senza più sbocchi di mercato. A meno di una conversione di alcune o molte fabbriche alla produzione di beni utili, come avviene oggi con i presidi e le apparecchiature medicali che il paese aveva rinunciato a produrre mentre tagliava i fondi al servizio sanitario nazionale e domani con le tante cose che potrebbero permettere a tutti di vivere bene senza distruggere la Terra.
Le frettolose riconversioni di oggi per produrre mascherine e respiratori dimostrano che, con una domanda pubblica adeguata, il sistema produttivo potrebbe imboccare un’altra strada (cominciando col non produrre più armi), a condizione che ai lavoratori “in esubero”, in attesa di nuovi impieghi, venga garantito un reddito, per poi redistribuire il lavoro tra tutti e ridurre gli orari e i ritmi forsennati di ora. Una prospettiva che la stasi di oggi rende realistica se promossa almeno a livello europeo.
Ma le fabbriche dove gli operai vengono comandati a infettarsi per produrre merci senza futuro – e a infettare poi le loro famiglie e i loro vicini – non sono l’unico focolaio potenziale di contagio: ai confini della Fortezza Europa si è andato ammassando un popolo di profughi costretti a vivere in condizioni feroci di indigenza, insalubrità e pericolo, premessa certa di una apocalittica diffusione del virus. Mentre al di qua di quei confini, ammassati nei Lager delle isole greche o cacciati per strada dalla cancellazione della protezione umanitaria e dei centri di accoglienza voluta da Salvini (e conservata dal governo Conte 2) c’è un altro popolo di senza dimora, sufficiente a vanificare tutte le misure di reclusione domiciliare con cui in Italia e nel resto dell’Europa si cerca di arginare la diffusione di un virus che non conosce confini.
Se i profughi che da anni premono ai confini dell’Unione Europea fossero stati accolti e inseriti un po’ per volta nella società, per lavorare tutti insieme alla conversione ecologica, oggi non ci troveremmo, colpevoli e impotenti, di fronte a un disastro inimmaginabile. Ma forse siamo ancora in tempo: l’Europa ha ormai perso la competizione globale con le altre economie mondiali, ma potrebbe ancora diventare una guida per quel “salto d’epoca” che la crisi climatica impone.


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