Precaria
ancora a 49 anni e l’ incertezza che ha accompagnato il cammino di insegnante
si fa fatica di Sisifo. Buona scuola la chiamano, la moltiplicazione dei
“forse” dei “chissà ” dei “magari mi chiamano ancora”. E invece NO. Ed ecco
manifestarsi la quasi certezza che non ti chiameranno, che non ti
riconfermeranno ad insegnare. Allora quel ruolo tanto agognato, per il quale
hai speso tanta parte della tua vita di donna investendo in cultura, si
trasforma in lacerazione, di anno in anno, e gli anni lasciano il segno.
Si
sfà il futuro, diventa graduatoria: ultima, fra le ultime di un precariato che
fa vergogna all’ Europa. Un precariato che hanno finto di sanare e che ha sbarrato il portone a tanti. Come è successo alla collega che si è
suicidata oggi a San Vito: una professoressa, moglie e madre che ha messo la parola fine alla sua esistenza
fra i rami di un albero nel giardino dei suoi genitori.
Lo
tacciono questo burnout, lo ignorano. Paiono le tre scimmiette: non vedono, non
sentono e non parlano al MIUR, di questa malattia silenziosa e strisciante che
colpisce gli/le insegnanti e si fa male di vivere. La gestione di questo dolore
sordo avviene quasi sempre in perfetta solitudine, anche con un senso di
vergogna nel sentirsi inadeguate e spesso derise dagli studenti e anche da
qualche collega figo. Ne ha parlato qualche anno fa lo studio Getsemani
dell’equipe del professore Lodolo D’Oria, che in apertura del suo lavoro ne
delinea il quadro:
“Nell’Orto
degli Ulivi un Maestro in preda a tristezza e angoscia.
I
suoi discepoli, diversi per provenienza e cultura, disorientati e stanchi.
La
comunità ostile.
Le
istituzioni contro.
Un
lungo avvenire davanti.”
Una
denuncia articolata, quanto rimasta inascoltata, lo si sperimenta nelle scuole
di tutta Italia. Chi calpesta tutti i giorni il suolo degli edifici scolastici
lo sa. Chi ha fatto la gavetta da precaria in giro per la sua ed altre
regione, fra curve e tornanti e strade infami alla ricerca della scuola
sperduta, lo sa. Lo sanno coloro che dovranno lasciare famiglia e trasferirsi
nella penisola dove una roulette malsana li ha catapultati. E lo sa chi per
anni ha atteso accanto al telefono, lo squillo che convocava all’ ennesima
supplenza, che di supplentite si muore, lentamente, nel rinfacciarsi anche la scelta rivelatasi poi sciagurata, di un
lavoro che si è succhiato le energie giovani per restituire la malinconia della
mezza età ancora lì a cavalcare l’incertezza. Che ci hanno cambiato
continuamente le carte in tavola e non bastano mai i titoli e si inventano
nuovi canali di assunzione e nuove classi stipendiali e nuovi meriti .
Questa nostra collega, una professoressa che ha scelto di intraprendere
“l’altro viaggio” la sento tanto, infinitamente vicina, la
avverto come una compagna di cammini faticosi, come una vittima di una politica
della scuola che ha perso la direzione e il senso di una professione sempre più
delegittimata. A questa collega di cui non conosco il nome, di cui capisco
profondamente l’affanno e la perdita della speranza, voglio riservare il
ricordo quotidiano in queste mattine, in viaggio da una scuola all’altra alla
ricerca del senso di quella che pare si chiami Maturità.
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