Ho scelto
di tradurre questo articolo sia per il contenuto (seppure
non sono cose nuove) sia perchè ha generato molte polemiche
in USA.
POLITICO, Il sito che lo ha pubblicato è un sito americano di area
democratica liberale (in USA vorrebbe dire vicino alla sinistra moderata) , tra
i cinque siti più visitati in America con circa 15 milioni di contatti mensili.
Che un sito come quello abbia pubblicato questo articolo ha un
significato politico di indubbio interesse. Questo articolo può fare breccia sulla
narrativa sionista “dell’arabo terrorista” e del “guardate quanto gli arabi ci
odiano”, molto diffusa nei media americani. Le polemiche più accese sono venute
da CAMERA. Il nome (che tradotto in italiano sarebbe macchina fotografica) non
ha niente a che fare con la fotografia ma paradossalmente è l’acronimo per
Committee for Accuracy in Middlle East Reporting in America (Comitato per una
corretta informazione sulle problematiche medio orientali in America) . In
buona sostanza un comitato di ebrei sionisti, il cui unico scopo è quello di
discreditare e delegittimare qualsiasi mezzo di comunicazione che riporti
notizie critiche nei confronti di israele. Questo comitato ha
esortato i suoi aderenti a scrivere al sito che ha pubblicato il pezzo ed
al suo direttore perché si lamentino della pubblicazione di un articolo che
contesta la politica israeliana. Naturalmente non manca l’invito a spedire
tweet non certo amichevoli anche a Ben Ehrenreich, autore dell’articolo.
In risposta
a questo, lo stesso Ehrenreich il 17/06/16 ha chiesto ai suoi lettori, tramite
la sua pagina faceboock, di scrivere a POLITICO per ringraziare la testata
giornalistica per avergli concesso la pubblicazione del suo scritto.
Farsi
prendere da facili entusiasmi non è giusto, soprattutto nei
confronti di chi ancora soffre una barbarica occupazione a Gaza ed
in Cisgiordania. Io credo però che si possa dire che la
pubblicazione di questo articolo su quel particolare sito ci dice che
qualcosa si sta muovendo. La macchina della controinformazione, fatta di
centinaia di associazioni in Palestina ed in tutto il mondo, che hanno a cuore
i palestinesi e la loro lotta, centinaia di giornalisti free lance,
centinaia di siti dedicati a singole tematiche che ogni giorno ci aiutano a
conoscere ed a capire, è ormai messa in moto e non c’è Hasbara o propaganda
sionista che nonostante tutti i miliardi a disposizione, potrà spegnerla.
Un consiglio
per la lettura dell’articolo. E’ un po’ lungo, se potete stampatelo e
leggetelo su carta (fronte retro su carta riciclata se è possibile) come fosse
un capitolo di un libro. In effetti parte dell’articolo è preso proprio
dal suo ultimo libro appena pubblicato, “ The Way to the Spring:
Life and Death in Palestine” by Penguin Press (14/06/16).
Ben Ehrenreich è uno scrittore e giornalista freelance.
Ben Ehrenreich è uno scrittore e giornalista freelance.
COME ISRAELE
ALIMENTA LA VIOLENZA di Ben Ehrenreich (fonte)
La notizia è
di quelle purtroppo consuete , ma non per questo meno allarmante per il
brutto déjà vu : quattro israeliani uccisi nella notte di Mercoledì
(08/06/16) da uomini armati palestinesi nel cuore di Tel Aviv. Il governo di
Israele, il più di destra nella storia del paese, ha risposto con misure che
l’ONU ha prontamente etichettato come “ punizioni collettive”: ha invaso
la Cisgiordania di militari, sigillando la Cisgiordania e Gaza, e
revocando permessi di ingresso che aveva già concesso a 83.000
palestinesi per entrare in Israele per lavoro, per culto o per
problemi sanitari. Giovedì il giorno dopo la sparatoria di Tel
Aviv, Ron Huldai, sindaco della città, ha trovato il coraggio di
affermare l’ovvio: che la violenza persisterà fino a che non finisce
l’occupazione. “Israele”- ha detto Huldai- “è forse l’unico paese al mondo, che
tiene un’altra nazione sotto occupazione, senza diritti civili”. Di questi
tempi una affermazione così può sembrare coraggiosa , ma anche Huldai sta
minimizzando la verità. Non è solo l’occupazione militare della Palestina , che
provoca tali attacchi. Da oltre Atlantico o anche dalla tranquilla Tel Aviv può
essere difficile da comprendere, ma l’occupazione, come ho altre volte scritto
nei resoconti che faccio dalla Cisgiordania dal 2011, funziona come un enorme
meccanismo capace di creare incertezza, spoliazione e sistematica
umiliazione. Non è solo una questione di soldati e pistole, ma una
struttura di vasta portata che affligge tutti gli aspetti della vita dei palestinesi:
una complessa rete di posti di blocco, mobilità negata , umilianti permessi,
muri e recinzioni, tribunali e prigioni, vincoli infiniti sulle iniziative
economiche, demolizioni di case, espropri di terra, furto delle risorse
naturali, e, troppo spesso, esecuzioni sommarie. Nessuna repressione preventiva
ne punizione collettiva potrà mai essere abbastanza per porre fine
al bagno di sangue a Tel Aviv o altrove. Fino a quando questo sistema
oppressivo rimane in piedi, e gli Stati Uniti continuano a sostenerlo con
miliardi di dollari all’anno in aiuti militari, la disperazione si diffonderà,
e con essa la morte.
Due estati
fa ho avuto una conversazione con un ex soldato israeliano di nome Eran Efrati
(in questo link Efrati ci spiega chi è ndt.) che mi ha aiutato a
capire come funziona l’occupazione. Ci siamo incontrati a
Gerusalemme, all’inizio della guerra a Gaza che avrebbe lasciato alla
fine più di 2.000 morti palestinesi. Efrati ha da tempo lasciato l’esercito ed
è diventato un attivista anti-occupazione, ma nel 2006 e nel 2007 ha trascorso
molto tempo da militare nella città di Hebron, a sud della Cisgiordania.
Quando è
arrivato lì aveva 19 anni ed a quel tempo aveva pochi strumenti per
mettere in dubbio la presenza militare israeliana nella città. Nel suo
primo briefing, ricorda, un ufficiale chiede alle truppe come
agirebbero se vedessero un palestinese correre verso un colono con
un coltello. “Naturalmente la risposta è stata: devi sparargli al centro
del corpo”, disse Efrati. Poi l’ufficiale ha posto la domanda al
contrario: e se fosse stato il colono con un coltello? “La risposta è stata: non
devi fare nulla. L’unica cosa che puoi fare è chiamare la polizia, ma non
ti è permesso toccarli. Fin dal primo giorno l’ordine era, ‘non toccare i
coloni.’ “Si capiva come per lui tutto avesse una logica”- disse Efrati –
“ I palestinesi erano il nemico; i coloni per quanto sembrassero un pò
folli, erano ebrei”.
Pochi giorni
dopo, da tutta la Cisgiordania arrivarono migliaia di coloni per celebrare una
festa religiosa. L’esercito impose il coprifuoco per tenere i palestinesi
lontano dalle strade. Il primo compito di Efrati ad Hebron da soldato è
stato quello di lanciare granate stordenti in una scuola elementare per
segnalare l’inizio del coprifuoco. “Lo feci come tutti gli altri”,
disse, “e in pochi secondi, centinaia di bambini corsero fuori. Ero in piedi
all’ingresso e molti di loro mi guardavano negli occhi – è in quella occasione
che per la priva volta ho accusato il colpo. Tutto ad un tratto ho capito
quello che stavo facendo. Ho capito come potevo essere visto. Quel fine
settimana, Efrati ricorda, i coloni hanno riempito il centro della città. Gli
fu assegnato il compito di scortare un gruppo di loro alla Tomba dei
Patriarchi, un luogo sacro sia per i mussulmani che per gli ebrei , ed in cui
si ritiene siano sepolti Abramo, Isacco e Giacobbe e le loro mogli Sara,
Rebecca, e Leah. Ai coloni fu concesso di entrare nel lato palestinese del
sito, nella moschea. Quello che vide lo sconvolse: bambini israeliani urinavano
sui pavimenti e bruciavano i tappeti. I loro genitori erano lì, la moschea
era piena di coloni, ma nessuno li fermò. Lui e un altro soldato afferrarono
uno dei bambini e presero dalla sua mano l’accendino. “Iniziò ad urlare contro
di noi”, disse Efrati, “gli ridemmo in faccia.” Cinque minuti più tardi, “uno
dei nostri ufficiali di grado molto molto elevato venne dentro la mosche e
disse, ‘Avete rubato qualcosa al ragazzo?’” Cercarono di spiegare, ma
l’ufficiale ripeté la domanda “Dicemmo sì.” L’ufficiale ordinò loro di rendere
l’accendino e chiedere scusa. Trovarono il bambino si scusarono e restituirono
l’accendino. Il ragazzo corse dritto nella stanza accanto, disse , e
riprese a dar fuoco ai tappeti.
Le cose poi
si sono fatte ancora più strane. Efrati fu messo a capo di un checkpoint che
separa la piccola zona di Hebron abitata da coloni, dalla parte più grande
della città abitata dai palestinesi. Ha descritto quel lavoro come estenuante,
noioso, bisognava stare in piedi al freddo per almeno 16 ore, di solito
affamati e sempre assonnati. Parte del nostro compito era umiliare i
palestinesi. Gli insegnanti palestinesi attraversavano il check point in
giacca e cravatta. I soldati li facevano spogliare di fronte ai loro studenti
ed “a volte li facevamo aspettare per ore in mutande “, ha detto Efrati.
Il pretesto
era quello di controllare che non avessero armi. “Non c’era nessuno di noi che
pensava che qualcosa potesse accadergli “, ha detto, ma alle truppe veniva
costantemente detto dai loro superiori che tutti i palestinesi erano
potenziali minacce, che chiunque li avrebbe potuti colpire se avessero
abbassato l’attenzione per un attimo. Questa prospettiva , disse Efrati , “ci
ha fatto diventare molto, molto aggressivi. Gli ordini erano di spingerli
contro un muro, spogliarli e colpirli più volte con un arma li. Se dice
qualcosa, colpitelo. Se si gira, colpitelo. Dovete stare attenti ad avere tutto
completamente sotto controllo. ” Sono incominciati i primi sensi di colpa.
Cominciò a portare dei pacchetti di Bamba -un popolare snack
israeliano fatto con burro di arachidi – per offrirli ai bambini al
checkpoint.
Dopo un paio
di giorni ” il ragazzino più coraggioso si avvicinò, prese un sacchetto di
Bamba e corse via.” Efrati era entusiasta. Non molto tempo dopo un bambino
palestinese di circa otto anni gli chiese se gli offriva un pacchetto di
Bamba. Questo bambino però non si mise a correre via. Aprì il pacchetto e
ne offrì un po ad Efrati. Si sedettero e mangiarono i chips insieme.
Quando il ragazzo se ne andò, Efrati si sentì in estasi. Si sentiva in effetti
l’uomo che voleva essere, un soldato , amato per la sua gentilezza e che,
allo stesso tempo, come disse, “proteggevo il mio paese da un secondo Olocausto
“.
Quando tornò
alla base, quella notte, gli fu ordinato di mangiare velocemente e prepararsi
per un altro turno, non al posto di blocco questa volta , ma in una spedizione
di “mappatura” nella parte della città governata dall’Autorità
Palestinese. Era ancora così eccitato dal successo con il Bamba che non gli
importava di fare un altro turno. Il lavoro di “mappatura in fondo è semplice:
” Si va nelle case nel cuore della notte, sbatti tutti fuori di casa, fai una
foto della famiglia, ed inizi a andare in giro per la casa distruggendo le
cose”. Il pretesto è sempre quello di cercare le armi, “ma a noi interessava
inviare un messaggio “, disse Efrati, cioè assicurarsi che i residenti
abbiano sempre ” la sensazione di essere continuamente inseguiti. “(la
frase inglese, “sensazione di essere continuamente inseguiti” può
sembrare un pò strana, ma in ebraico è una sola parola; e questa
parola i suoi superiori la usavano continuamente).Il suo compito era quello di
redigere la mappa di ogni casa, disegnare dove erano le camere, le porte e le
finestre. “Se da quella specifica casa fosse partito un attacco
terroristico,” l’esercito sarebbe stato pronto.
Quella
notte, perlustrarono, misero a soqquadro e mapparono due case nel
quartiere di Abu Sneineh. Faceva freddo e nevicava. Quando ebbero finito, il
sole non era ancora sorto, ed allora l’ufficiale scelse un’altra casa,
apparentemente a caso. Fecero uscire la famiglia fuori, nella neve,
entrarono in casa ed iniziarono a mettere tutto sotto sopra. Efrati aprì
la porta della camera di un bambino dove si ricordò di aver visto
un dipinto di Winnie-the-Pooh su una parete, e cominciò a fare la piantina
della casa, ad un certo punto si accorse che sul letto c’era qualcuno. Un bambino,
senza vestiti, balzò fuori da sotto le coperte. Sorpreso, Efrati alzò la
sua arma e mirò al bambino. Era il bambino che di pomeriggio aveva incontrato
al checkpoint. “Iniziò a farsi la pipì addosso”, disse Efrati, “stavamo
tremando, tutti e due stavamo tremando senza dire una parola.” Il padre del
bambino, che scendeva le scale con un ufficiale, vide che
puntavo il fucile contro suo figlio e corse nella stanza. “Ma invece di
spingermi indietro”, disse Efrati, “schiaffeggiò il bambino fino sul pavimento,
lo prese a schiaffi davanti a me e guardandomi mi disse, ‘Per favore, per
favore non prendere il mio bambino. Qualunque cosa abbia fatto lo puniremo. ”
Alla fine, l’ufficiale decise che il comportamento dell’uomo era sospetto,
“stava nascondendo qualcosa.” Ordinò ad Efrati di arrestarlo. “Così
prendemmo il padre, gli bendammo gli occhi, ammanettammo le mani dietro
la schiena e lo mettemmo nella jeep militare.” Lo scaricammo come un sacco
all’entrata della base e li “rimase seduto in mezzo alla neve per tre giorni in
mutande e con una camicia tutta strappata ”. Alla fine, Efrati trovò il
coraggio di chiedere al suo superiore che cosa sarebbe accaduto al padre
del ragazzo. “Non sapeva nemmeno di cosa stessi parlando”, disse Efrati.
“Cominciò a dire, ‘Quale padre?’” Efrati gli ricordò dell’uomo e l’ufficiale
disse: “ah si lo puoi rilasciare . Ha imparato la lezione.”
Dopo aver
tagliato le fascette di plastica che legavano i polsi dell’uomo e sciolto la
benda che aveva negli occhi lo vidi correre per la strada in
mutande ed a piedi nudi. A quel punto Efrati si rese conto che non aveva mai
dato al suo comandante le mappe che aveva disegnato. Si affrettò a tornare
nella stanza dell’ufficiale. “Ho fatto davvero una cazzata”, gli disse,
scusandosi per la sua negligenza. L’ufficiale, per nulla arrabbiato disse :
“Va tutto bene, non c’è problema, le mappe le puoi buttare via.” Efrati
era confuso. Protestò: non era un compito vitale che avrebbe potuto
salvare la vita di altri soldati? L’ufficiale era infastidito. Disse :”
avanti Efrati smettila di lamentarti. Vai via ‘ “. Ma Efrati continuava a
parlare, voleva cercare di capire. Quando divenne evidente che non stava
andando da nessuna parte, l’ufficiale gli disse: “Ascolta, è da quaranta anni
che ogni notte facciamo mappature delle case; tre o quattro case per
notte.” La casa di quel bambino era stata mappata da lui stesso con altre unità
altre due volte. Efrati si sentiva sempre più confuso. L’ufficiale provò un
senso di compassione per Efrati e spiegò : “Se noi continuiamo ad irrompere
nelle loro case ed ogni volta ne arrestiamo qualcuno, li teniamo
costantemente terrorizzati e non ci attaccheranno mai . Si sentiranno
sempre con il fiato sul collo”. Questa, disse Efrati “è stata la
prima volta che ho capito che tutto quello che mi era stato detto erano delle
totali stronzate”. “Da quel momento in poi non ho smesso di fare le cose che ho
fatto, ho solo smesso di pensare.”
Naturalmente
l’ufficiale di Efrati stava sbagliando. Se terrorizzi la gente a lungo,
alla fine perdono la loro paura. E allora sale la rabbia. Lo scorso ottobre,
dopo un anno di relativa calma, giovani palestinesi hanno cominciato ad
attaccare soldati israeliani, poliziotti e civili, raramente con armi o
automobili, ma il più delle volte con articoli che si trovano comunemente in
casa: coltelli, forbici, cacciaviti.
Sono stati
attacchi scoordinati ed al di fuori del controllo della leadership palestinese
o delle tradizionali fazioni armate. Molti si sono verificati nella zona di
Hebron, spesso in posti di blocco o di altri siti di attrito tra civili
palestinesi e militari israeliani, ma anche su autobus e tram a Gerusalemme,
nei supermercati e nelle strade.
Nel mese di
novembre, il generale Herzl Halev, il più alto grado dell’intelligence militare
di Israele, ha spiegato al gabinetto del primo ministro Benjamin Netanyahu che
gli attacchi non erano attacchi ideologici. Erano, ha detto, motivati da rabbia
e frustrazione e realizzati da giovani -per lo più adolescenti- che “sentivano
di non aver nulla da perdere.” In realtà avevano molto da perdere, come
chiunque altro, la vita che stava davanti di loro. Ma il fatto che tanti sono
disposti a buttarla via, e con la loro anche quella di molti altri, testimonia
la profondità della disperazione, generata dall’occupazione Israeliana.
Quando,
all’inizio di questo mese, sono tornato in Israele e in Cisgiordania, la
violenza sembrava che stesse scemando. Fino alla sparatoria di mercoledì
(08/06/16), nessun israeliano è stato ucciso da palestinesi dal 18 febbraio.
Nello stesso periodo, le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso 34
palestinesi, tra cui una bambina di sei anni, e il suo fratello di 10aa che
sono morti per un attacco aereo che con un missile ha colpito la loro
casa nella Striscia di Gaza. I loro nomi erano Israa e Yasin Abu Khussa. Queste
morti raramente fanno notizia qui, ma per palestinesi il loro
ricordo rimane sempre vivido. Se tutto continua così, e l’occupazione va
avanti, le occasioni per rattristarci non mancheranno.
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