Ci sono quelle classi che sono così: tue. Che hai
sgridato e cazziato per tre anni, come la peggio arpia, perché ti ci eri
affezionata manco se fossero dei figli, e quindi tu, tu sola potevi dire loro
di tutto, e glielo dicevi, ma se qualcun altro si azzardava a dirne male, uh,
mamma, ti incacchiavi come se ti avessero malmenato i cuccioli, diventavi un
tigre, un’orsa madre, una furia scatenata.
Ci sono quelle classi che sono tue, perché anche se
non sono i più “bravi”, e anzi, per carità, alle volte proprio no, dentro
c’erano dei ragazzini così particolari che non potevi fare a meno di adorarli,
perché anche quelli più difficili avevano qualità umane che levati, che non si
trovano così facilmente: erano teneri, svegli, allegri, pigri, incasinati,
volubili, testardi, generosi, tutto assieme e gli hai voluto bene.
Sì, ad alcune classi vuoi bene. A tutte, in realtà,
ma ad alcune in particolare: perché sono tutt’altro che perfette, e anzi spesso
sono scalcagnate. Ma è proprio quello che te le fa amare più delle altre. La
perfezione non è di questo mondo, e loro invece in questo sono perfettamente
calati. Vedi in loro in nuce quello che potranno diventare da adulti, ma in
quel momento in cui è ancora tutto una meravigliosa possibilità, in cui i
difetti ci sono ma ancora allo stadio in cui non inficiano nulla, e possono
trasformarsi in punti di forza, addirittura in risorse. Li cogli nell’attimo in
cui stanno per andare incontro alla vita e si slanciano con entusiasmo: quando
ancora le delusioni devastanti non li hanno toccati, quando non sono ancora
diventati amari o cinici, quando ancora l’ottimismo infantile è troppo forte e
radicato per arrendersi alle brutture del mondo o considerarle inevitabili.
Tu li accompagni lì, sulla soglia della adolescenza. E
poi ti devi ritirare, perché il tuo compito è finito, e la loro vita di giovani
comincerà e si svilupperà lontano da te. Lo sai, ci sei abituata, lo hai fatto
tante volte, eppure con loro è più difficile, perché sai che ti mancheranno.
Sai che il prossimo anno cercherai i loro visi in classe entrando, e ti verrà
da domandarti cosa fanno, e come stanno, e come affrontano il nuovo e il mondo
dove sono stati proiettati lontano da te.
Ogni anno è il piccolo strazio che noi docenti
affrontiamo, questo, ma alcuni anni è più duro perché ti sembra che ti portino
via anche un po’ di te. Ma non puoi farci niente. Il mestiere ti ha insegnato
che questo lutto è una parte della professione, ci devi fare la scorza, non
commuoverti quando ti salutano per l’ultima volta, non pensare, mentre ti
abbracciano e ti promettono di farsi sentire e di venirti a trovare, che alcuni
di loro, non per cattiveria ma per fatalità, non li vedrai mai più, dopo averli
avuti con te tutti i giorni per anni.
E niente, ricacci indietro i lacrimoni, fingi che sia
tutto normale, li costringi ad abbracciarti anche se loro sono un po’
imbarazzati nel farlo perché in tanti anni tu sei sempre stata quella che
espansiva non riusciva ad essere mai.
Sorridi perché loro stanno sorridendo al mondo e
scalpitano per entrarci, e tu stai diventando già quel puntino che presto
ricorderanno a stento, o non ricorderanno più, ed è giusto così perché questo è
l’ordine delle cose.
E pensi: ragazzi, vi ho voluto bene, la vita è là
fuori, ed è vostra: andate a prendervela, su!
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