Baci, abbracci e pugnalate alle spalle,
cabaret che si muovevano a stento nella ressa, file di calici, scrittori e
scrittrici in fibrillazione, omaggi insinceri, uomini potenti nella piccola
cerchia dell’editoria, dei media e dell’accademia, novantenni con il bastone
che vantavano la loro longevità di uomini e di giurati, ragazze e signore in
abiti da sera, astrologhe... Nelle stanze e nelle terrazze sovraffollate della
Fondazione Bellonci, in un situazione di estraneità, ho assistito al consumarsi
di un antico rito, quello della votazione per eleggere la cinquina dei finalisti dello Strega, dalla
quale è stato escluso il mio ultimo romanzo intitolato "L’addio", che
— se può valere qualcosa l’opinione dell’autore — a me pare il più ardimentoso
dei miei romanzi brevi. Qualcuno in rete, nelle settimane scorse, mi aveva così
definito: «Un alieno al Premio Strega» Per come sono andate le cose, aveva
visto giusto.
«Come fate a vivere così?» mi veniva da domandare guardandomi attorno. «Perché state con le gambe così piantate dentro questa melma? Perché avete dato a questa melma il nome di cultura? Non lo sapete che quello della poesia e della letteratura è il più grande e irradiante sogno che sia mai stato sognato? ». Certo, non mi aspettavo niente, tanto più che ho presentato questo libro non con il potente editore con cui avevo pubblicato i precedenti ma con un altro, per rispondere all’invito di un amico cui mi legava un debito di riconoscenza, perché gli scrittori non sono o non dovrebbero essere dei robot tesi soltanto alla loro promozione e “carriera”, a mio parere, e anche perché, se la situazione è tale per cui l’unica alternativa che viene data è tra vincere male e perdere bene, allora preferisco perdere bene. Certo, non sono una persona ingenua al punto di non sapere come stanno le cose e non mi faccio illusioni. Ma quello che ho visto è stato più prevedibile e desolante di quanto avessi immaginato. Tutti sanno e tutti fanno finta di niente, come se fosse naturale un simile orrore.
Sapevo quanto il gioco fosse truccato. Eppure, certo per mia inguaribile ingenuità, a 68 anni e dopo avere scritto tanti libri e dopo quello che sta iniziando a succedermi all’estero, mi ha impressionato il fatto di non essere stato neppure ritenuto degno di entrare nella cinquina degli attuali finalisti, come mi ha impressionato che nel più noto premio nazionale tutti i finalisti, tutti, nessuno escluso, abitino a Roma.
Nella mia vita ho fatto ampiamente esperienza di questo rigetto da parte della società della cosmesi culturale, che ho anche raccontato in modo diretto in Lettere a nessuno, ed è anche vero che quella dei rifiutati ( refusés) è una storia lunga e che è spesso proprio dalle loro schiere che ci arriva ancora adesso ciò che può portare il terremoto nelle nostre vite e far rivivere le nostre anime. Eppure, se non sei disattivato, il fatto di saperlo non mette evidentemente al riparo dal provare dolore e scandalo.
Diversi anni fa avevo scritto da qualche parte: «Quando il gioco è truccato, l’unica è non giocare. O fare un gioco diverso ». Ho sbagliato a dimenticarmi di quelle mie stesse parole. Non mi succederà una seconda volta di andarmi a cacciare in una situazione simile. Ma è certo che continuerò a fare un gioco diverso. Per allargare un po’ l’orizzonte, ripeto qui quello che vado scrivendo da tempo: il mondo culturale italiano partecipa delle stesse logiche e comportamenti che vengono invece esecrati con aria di superiorità nella politica. Ogni cosa, anche nata con le migliori intenzioni, viene piegata a logiche di cerchia, snaturata nella sua essenza, resa funzionale a interessi o deliri di piccolo potere terminale e gregario, in un gioco chiuso e di sponda tra editoria, accademia e media. Libertà e coraggio sono una merce rara, così come lo sono in altri campi dove il rischio che si corre è molto più grande. Anche per questo la cultura italiana di questi decenni ha chiuso gli orizzonti invece di spalancarli e sfondarli, si è attestata in una zona morta e ha preteso che tutto fosse a propria immagine e somiglianza, per questo non è riuscita a fare argine al male ma è diventata essa stessa una forma di questo male.
Ringrazio i miei due coraggiosi presentatori, Daria Bignardi e Tiziano Scarpa, per la loro libertà, convinzione e fervore, Antonio e Jacopo che mi sono stati vicini in questa battaglia, senza speranza come quella del protagonista del libro che abbiamo
«Come fate a vivere così?» mi veniva da domandare guardandomi attorno. «Perché state con le gambe così piantate dentro questa melma? Perché avete dato a questa melma il nome di cultura? Non lo sapete che quello della poesia e della letteratura è il più grande e irradiante sogno che sia mai stato sognato? ». Certo, non mi aspettavo niente, tanto più che ho presentato questo libro non con il potente editore con cui avevo pubblicato i precedenti ma con un altro, per rispondere all’invito di un amico cui mi legava un debito di riconoscenza, perché gli scrittori non sono o non dovrebbero essere dei robot tesi soltanto alla loro promozione e “carriera”, a mio parere, e anche perché, se la situazione è tale per cui l’unica alternativa che viene data è tra vincere male e perdere bene, allora preferisco perdere bene. Certo, non sono una persona ingenua al punto di non sapere come stanno le cose e non mi faccio illusioni. Ma quello che ho visto è stato più prevedibile e desolante di quanto avessi immaginato. Tutti sanno e tutti fanno finta di niente, come se fosse naturale un simile orrore.
Sapevo quanto il gioco fosse truccato. Eppure, certo per mia inguaribile ingenuità, a 68 anni e dopo avere scritto tanti libri e dopo quello che sta iniziando a succedermi all’estero, mi ha impressionato il fatto di non essere stato neppure ritenuto degno di entrare nella cinquina degli attuali finalisti, come mi ha impressionato che nel più noto premio nazionale tutti i finalisti, tutti, nessuno escluso, abitino a Roma.
Nella mia vita ho fatto ampiamente esperienza di questo rigetto da parte della società della cosmesi culturale, che ho anche raccontato in modo diretto in Lettere a nessuno, ed è anche vero che quella dei rifiutati ( refusés) è una storia lunga e che è spesso proprio dalle loro schiere che ci arriva ancora adesso ciò che può portare il terremoto nelle nostre vite e far rivivere le nostre anime. Eppure, se non sei disattivato, il fatto di saperlo non mette evidentemente al riparo dal provare dolore e scandalo.
Diversi anni fa avevo scritto da qualche parte: «Quando il gioco è truccato, l’unica è non giocare. O fare un gioco diverso ». Ho sbagliato a dimenticarmi di quelle mie stesse parole. Non mi succederà una seconda volta di andarmi a cacciare in una situazione simile. Ma è certo che continuerò a fare un gioco diverso. Per allargare un po’ l’orizzonte, ripeto qui quello che vado scrivendo da tempo: il mondo culturale italiano partecipa delle stesse logiche e comportamenti che vengono invece esecrati con aria di superiorità nella politica. Ogni cosa, anche nata con le migliori intenzioni, viene piegata a logiche di cerchia, snaturata nella sua essenza, resa funzionale a interessi o deliri di piccolo potere terminale e gregario, in un gioco chiuso e di sponda tra editoria, accademia e media. Libertà e coraggio sono una merce rara, così come lo sono in altri campi dove il rischio che si corre è molto più grande. Anche per questo la cultura italiana di questi decenni ha chiuso gli orizzonti invece di spalancarli e sfondarli, si è attestata in una zona morta e ha preteso che tutto fosse a propria immagine e somiglianza, per questo non è riuscita a fare argine al male ma è diventata essa stessa una forma di questo male.
Ringrazio i miei due coraggiosi presentatori, Daria Bignardi e Tiziano Scarpa, per la loro libertà, convinzione e fervore, Antonio e Jacopo che mi sono stati vicini in questa battaglia, senza speranza come quella del protagonista del libro che abbiamo
inalberato, l’editore Giunti e le ragazze toste che mi hanno seguito, le
persone che hanno dato il loro appoggio e il loro voto a questo libro così
anomalo e poco accomodante, per le cose sincere e toccanti che mi hanno detto a
voce durante la mia serata catatonica e poi per telefono.
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