La svolta della Tunisia, tra
islam e democrazia - Armando Sanguini
Perché l'ultimo Congresso di rifondazione
del partito Ennahda è stato fondamentale -
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Avrei voluto esserci, a Tunisi, per assistere al Congresso di rifondazione
del partito “islamico” Ennahda, il decimo della sua lunga storia, a opera il
Rached Gannouchi, il suo leader indiscusso.
Avrei voluto esserci per mescolarmi tra le migliaia di tunisini che ne hanno seguito i lavori e toccare con mano quella che mi è stata descritta come una straordinaria tensione emotiva sprigionatasi nel momento in cui sono apparsi assieme, sul palco, lo stesso Gannouchi e Beji Caid Essebsi, il presidente della Repubblica e portabandiera dell'europeizzante schieramento avverso, Nidàa Tunes.
E poi quando si sono rivolti all'auditorio con parole marcate da un 'patriottismo' per noi forse desueto ma in sintonia col clima politico e sociale di un Paese che dopo i cinque anni più traumatici della sua storia, sta facendo ancora tanta fatica nel perseguimento di un orizzonte di sicurezza, di stabilizzazione e di ripresa economica e sociale ragionevolmente rassicurante.
TRA L'INDIFFERENZA DEI MEDIA. Avrei voluto esserci perché quel Congresso, lasciato nelle retrovie dell’attenzione mediatica italiana, europea e internazionale, focalizzata sui ben più inquietanti scenari Nord-africani (Libia, Egitto) e Medio-orientali (Siria, Iraq, Yemen) e migratori, potrebbe rappresentare un punto di svolta altamente significativo non solo per la Tunisia, ma per altri Stati del cosiddetto mondo islamico del nostro intorno geopolitico.
La ragione di questo mio interesse sta nel fatto che a Tunisi si è consumato il passaggio della trasformazione di Enahda da 'partito islamico' a 'partito civile' come l'ha voluta semplificare lo stesso Gannouchi; il passaggio della separazione della sfera politica da quella religiosa.
Non si tratta di una decisione estemporanea e ancor meno di una posizione dettata dalle circostanze, ha sottolineato lo stesso Gannouchi, ma il frutto di un processo storico lento e travagliato verso l’abbandono dell’impostazione di fondo per la quale è l’islam che determina la politica e ne definisce la linea di condotta a favore dell’affermazione dello spazio proprio della “politica” nei suoi termini etimologici della polis e dunque ai valori e alle regole dell’assetto costituzionale dello Stato.
L’islam resta, naturalmente, perché il Paese vi si riconosce, ma è chiamato a esprimersi nella sfera personale dei cittadini.
RINUNCIA ALLA VIOLENZA. Di quel processo ha voluto ricordare i passaggi più significativi riandando al momento iniziale del suo movimento basato inizialmente su una declinazione teologica con preoccupazioni di natura identitaria - da Azione islamica a Movimento della tendenza islamica negli Anni 80 - a una formazione protestataria e di lotta contro il regime di Ben Ali venata di islamismo tunisino e infine a una organizzazione - Ennahda (rinascita) per l’appunto - che rinuncia alla violenza e poi alla collateralità col salafismo ed evolve in un partito deciso a porre gli interessi della Tunisia davanti a tutto (prima la Tunisia e poi l’islam) e agire nei termini ed entro i confini marcati dalla Costituzione.
Certo che ne ha fatta di strada questo leader tunisino, condannato a morte da Bourghiba (1987), salvato da Ben Ali che poi proscrive il partito e lo costringe all'esilio (1991), capace di mantenere e anzi far crescere negli anni il consenso attorno al suo programma politico-religioso; poi il rientro in patria nel 2011, la vittoria elettorale, l'opacità dei rapporti con l'area salafita, poi il governo di coalizione (Troika), disastroso nei risultati e puntualmente punito dall'elettorato; poi il travagliato ma rivoluzionario parto della Costituzione, esempio di equilibrio tra islam e valori occidentali dove è sancita l’uguaglianza uomo-donna e la libertà di coscienza di fede e del libero esercizio del culto; infine la partecipazione minoritaria nel governo occidentalizzante di Nidàa Tunes.
Il tutto in un clima politico di crescente frammentazione e litigiosità, in un contesto di preoccupante crisi economica e quindi anche sociale sulla quale si è andato accanendo il terrorismo con le sue persistenti e sanguinose incursioni, dall’interno e dall’esterno.
UNA SFIDA PESANTISSIMA. Insomma, in una dinamica che sta mettendo a dura prova la tenuta stessa del sistema politico tunisino chiamato a una sfida pesantissima che se sollecita uno sforzo straordinario di convergenza attorno ai pilastri costituzionali che il Paese è riuscito a darsi nel 2014, richiede anche una strategia di ripresa economica e occupazionale che stenta ancora a emergere con chiarezza e determinazione. Complice l’inadeguatezza della collaborazione esterna, europea e internazionale.
Certo non sarà questa evoluzione di Ennahda a sciogliere i nodi in cui si trova stretta la Tunisia, ma vi potrà contribuire in maniera concreta: per abbassare la soglia della polarizzazione politica come rispecchiato del resto dalla presenza al Congresso di molti leader del frastagliato scenario partitico del Paese - e di riflesso propiziare le mediazioni sul versante economico-sociale di cui la Tunisia ha urgente necessità - per trovare più solidarietà nella regione e sul piano internazionale e in definitiva per sottrarre alimento ai principi attivi dell’estremismo.
E il suo contributo potrebbe rivelarsi di notevole valenza se, come appare assai probabile, questa evoluzione farà crescere ulteriormente il consenso, già alto del resto, verso questo partito e con esso anche il suo peso effettivo nella partecipazione al governo del Paese, indebolito dalla crisi che si è consumata all’interno del raggruppamento occidentalizzante di Nidàa Tunes, il grande azionista dell’attuale esecutivo.
ALL'AVANGUARDIA DELL'ISLAM. Questo lo vedremo, ma intanto non sfuggirà il fatto che con questa scelta di campo compiuta da Ennahda la Tunisia si pone nuovamente all’avanguardia del mondo arabo-islamico e islamico in generale, non rinunciando all’appartenenza all’islam, ma rendendola compatibile con la democrazia, i suoi principi e i suoi valori fondanti.
Si tratta di un messaggio forte, una sfida percuotente, soprattutto in un momento come questo in cui quello che si vuole definire “islam politico” sta evidenziando le sue derive più devastanti nella declinazione che passa dalla totalizzante marca politico-religiosa della Fratellanza musulmana alla versione terroristico-millenaristica del Califfato.
In Tunisia e altrove non sono pochi coloro che ritengono questo passaggio di Gannouchi fondamentalmente fittizio, strumentale alla riconquista del potere.
Io non nutro questo sospetto e temo anzi che coltivare questo pregiudizio sul piano interno e internazionale possa finire per risultare controproducente e rafforzare proprio la spinta alla sua strumentalizzazione da parte dei nostalgici dell’islamizzazione della politica, che certo ancora ci sono, nel partito.
Penso in buona sostanza che occorra sfidare Gannouchi proprio sul terreno delle indicazioni politiche di cui si è reso protagonista. E penso pure che Europa e Italia debbano sostanziare la sfida anche assicurando a questo Paese a noi tanto vicino maggiore sostegno e incoraggiamento. Anche a beneficio della tanto auspicata stabilizzazione della Libia e della non meno necessaria normalizzazione politica egiziana.
Avrei voluto esserci per mescolarmi tra le migliaia di tunisini che ne hanno seguito i lavori e toccare con mano quella che mi è stata descritta come una straordinaria tensione emotiva sprigionatasi nel momento in cui sono apparsi assieme, sul palco, lo stesso Gannouchi e Beji Caid Essebsi, il presidente della Repubblica e portabandiera dell'europeizzante schieramento avverso, Nidàa Tunes.
E poi quando si sono rivolti all'auditorio con parole marcate da un 'patriottismo' per noi forse desueto ma in sintonia col clima politico e sociale di un Paese che dopo i cinque anni più traumatici della sua storia, sta facendo ancora tanta fatica nel perseguimento di un orizzonte di sicurezza, di stabilizzazione e di ripresa economica e sociale ragionevolmente rassicurante.
TRA L'INDIFFERENZA DEI MEDIA. Avrei voluto esserci perché quel Congresso, lasciato nelle retrovie dell’attenzione mediatica italiana, europea e internazionale, focalizzata sui ben più inquietanti scenari Nord-africani (Libia, Egitto) e Medio-orientali (Siria, Iraq, Yemen) e migratori, potrebbe rappresentare un punto di svolta altamente significativo non solo per la Tunisia, ma per altri Stati del cosiddetto mondo islamico del nostro intorno geopolitico.
La ragione di questo mio interesse sta nel fatto che a Tunisi si è consumato il passaggio della trasformazione di Enahda da 'partito islamico' a 'partito civile' come l'ha voluta semplificare lo stesso Gannouchi; il passaggio della separazione della sfera politica da quella religiosa.
Non si tratta di una decisione estemporanea e ancor meno di una posizione dettata dalle circostanze, ha sottolineato lo stesso Gannouchi, ma il frutto di un processo storico lento e travagliato verso l’abbandono dell’impostazione di fondo per la quale è l’islam che determina la politica e ne definisce la linea di condotta a favore dell’affermazione dello spazio proprio della “politica” nei suoi termini etimologici della polis e dunque ai valori e alle regole dell’assetto costituzionale dello Stato.
L’islam resta, naturalmente, perché il Paese vi si riconosce, ma è chiamato a esprimersi nella sfera personale dei cittadini.
RINUNCIA ALLA VIOLENZA. Di quel processo ha voluto ricordare i passaggi più significativi riandando al momento iniziale del suo movimento basato inizialmente su una declinazione teologica con preoccupazioni di natura identitaria - da Azione islamica a Movimento della tendenza islamica negli Anni 80 - a una formazione protestataria e di lotta contro il regime di Ben Ali venata di islamismo tunisino e infine a una organizzazione - Ennahda (rinascita) per l’appunto - che rinuncia alla violenza e poi alla collateralità col salafismo ed evolve in un partito deciso a porre gli interessi della Tunisia davanti a tutto (prima la Tunisia e poi l’islam) e agire nei termini ed entro i confini marcati dalla Costituzione.
Certo che ne ha fatta di strada questo leader tunisino, condannato a morte da Bourghiba (1987), salvato da Ben Ali che poi proscrive il partito e lo costringe all'esilio (1991), capace di mantenere e anzi far crescere negli anni il consenso attorno al suo programma politico-religioso; poi il rientro in patria nel 2011, la vittoria elettorale, l'opacità dei rapporti con l'area salafita, poi il governo di coalizione (Troika), disastroso nei risultati e puntualmente punito dall'elettorato; poi il travagliato ma rivoluzionario parto della Costituzione, esempio di equilibrio tra islam e valori occidentali dove è sancita l’uguaglianza uomo-donna e la libertà di coscienza di fede e del libero esercizio del culto; infine la partecipazione minoritaria nel governo occidentalizzante di Nidàa Tunes.
Il tutto in un clima politico di crescente frammentazione e litigiosità, in un contesto di preoccupante crisi economica e quindi anche sociale sulla quale si è andato accanendo il terrorismo con le sue persistenti e sanguinose incursioni, dall’interno e dall’esterno.
UNA SFIDA PESANTISSIMA. Insomma, in una dinamica che sta mettendo a dura prova la tenuta stessa del sistema politico tunisino chiamato a una sfida pesantissima che se sollecita uno sforzo straordinario di convergenza attorno ai pilastri costituzionali che il Paese è riuscito a darsi nel 2014, richiede anche una strategia di ripresa economica e occupazionale che stenta ancora a emergere con chiarezza e determinazione. Complice l’inadeguatezza della collaborazione esterna, europea e internazionale.
Certo non sarà questa evoluzione di Ennahda a sciogliere i nodi in cui si trova stretta la Tunisia, ma vi potrà contribuire in maniera concreta: per abbassare la soglia della polarizzazione politica come rispecchiato del resto dalla presenza al Congresso di molti leader del frastagliato scenario partitico del Paese - e di riflesso propiziare le mediazioni sul versante economico-sociale di cui la Tunisia ha urgente necessità - per trovare più solidarietà nella regione e sul piano internazionale e in definitiva per sottrarre alimento ai principi attivi dell’estremismo.
E il suo contributo potrebbe rivelarsi di notevole valenza se, come appare assai probabile, questa evoluzione farà crescere ulteriormente il consenso, già alto del resto, verso questo partito e con esso anche il suo peso effettivo nella partecipazione al governo del Paese, indebolito dalla crisi che si è consumata all’interno del raggruppamento occidentalizzante di Nidàa Tunes, il grande azionista dell’attuale esecutivo.
ALL'AVANGUARDIA DELL'ISLAM. Questo lo vedremo, ma intanto non sfuggirà il fatto che con questa scelta di campo compiuta da Ennahda la Tunisia si pone nuovamente all’avanguardia del mondo arabo-islamico e islamico in generale, non rinunciando all’appartenenza all’islam, ma rendendola compatibile con la democrazia, i suoi principi e i suoi valori fondanti.
Si tratta di un messaggio forte, una sfida percuotente, soprattutto in un momento come questo in cui quello che si vuole definire “islam politico” sta evidenziando le sue derive più devastanti nella declinazione che passa dalla totalizzante marca politico-religiosa della Fratellanza musulmana alla versione terroristico-millenaristica del Califfato.
In Tunisia e altrove non sono pochi coloro che ritengono questo passaggio di Gannouchi fondamentalmente fittizio, strumentale alla riconquista del potere.
Io non nutro questo sospetto e temo anzi che coltivare questo pregiudizio sul piano interno e internazionale possa finire per risultare controproducente e rafforzare proprio la spinta alla sua strumentalizzazione da parte dei nostalgici dell’islamizzazione della politica, che certo ancora ci sono, nel partito.
Penso in buona sostanza che occorra sfidare Gannouchi proprio sul terreno delle indicazioni politiche di cui si è reso protagonista. E penso pure che Europa e Italia debbano sostanziare la sfida anche assicurando a questo Paese a noi tanto vicino maggiore sostegno e incoraggiamento. Anche a beneficio della tanto auspicata stabilizzazione della Libia e della non meno necessaria normalizzazione politica egiziana.
Ennahda, prima tunisino e poi Fratello
- Riccardo Fabiani
In
Tunisia, la principale declinazione della Fratellanza musulmana è
rappresentata da Ennahda, il
maggiore attore politico del dopo-Ben Ali. Il ritorno dall’esilio di Rasid
Gannusi (o Ghannouchi), leader del movimento islamista, il 30 gennaio 2011,
suscitò un’ondata di panico nell’élite laica del paese. Dopo vent’anni di
esilio, Gannusi venne accolto da migliaia di sostenitori in delirio
all’aeroporto – una scena che molti tunisini non esitarono a equiparare al
ritorno dell’ayatollah Khomeini in Iran nel 1979. Eppure, due anni dopo, la
Tunisia continua a seguire una traiettoria politica ben diversa dal paventato
scenario iraniano e appare lontana persino dalla contemporanea esperienza
egiziana. Sotto assedio su più fronti, Ennahda ha trovato un percorso unico
nello scenario regionale, sottolineando ancora una volta l’eccentricità del
modello tunisino.
«La legittimità dello Stato poggia sulla
scelta del popolo. Siamo
assolutamente d’accordo su questo.E noi siamo per la libertà di coscienza, (…) per le libertà
politiche». Così dichiarava Gannusi in un’intervista del 1993, in
netto contrasto con quanto predicato al tempo da altri leader islamisti della
regione. La vittoria elettorale di Ennahda nel 2011 ha rappresentato il
coronamento di una lunga marcia politica cominciata negli anni Ottanta,
caratterizzata dalla dura repressione da parte del regime di Habib Bourguiba.
Linea perseguita successivamente anche sotto Ben Ali (Zayn al-‘Abidin Bin ‘Ali)
e caratterizzata da un processo di moderazione e ripensamento concettuale
dell’ispirazione islamista del movimento.
Fondato nel 1981 e inizialmente noto come
Movimento della tendenza islamica (Mti), nel volgere di pochi anni il partito
islamista tunisino acquisì la reputazione di principale forza d’opposizione al
regime, a scapito del Movimento dei democratici socialisti di Ahmad al-Mistiri(1).
L’Mti sfruttò così un breve periodo di liberalizzazione dello spazio politico
che coincise col crepuscolo del regime di Bourguiba, quando il sistema politico
tunisino andò incontro a una fase di stallo decisionale condizionato dal
peggioramento della salute del ra’is e dalle crescenti difficoltà economiche.
In questo contesto, l’Mti si presentò come un’alternativa radicale a un regime
autoritario e laico da sostituire con un nuovo sistema politico di stampo
islamista – analogamente a quanto accadeva negli altri spazi arabi del
Mediterraneo. E proprio come nel resto del mondo arabo, le autorità tunisine
risposero inizialmente a questa sfida in maniera incerta, alternando misure di
cauta liberalizzazione politica alla repressione.
Fu così che nel 1987 il colpo di Stato
«medico» con cui Ben Ali spodestò Bourguiba
venne salutato da molti militanti islamisti come un’opportunità unica per
salire finalmente al potere sfruttando l’apertura politica inaugurata dal nuovo
presidente nelle settimane successive alla sua ascesa al vertice dello Stato.
Tuttavia, nel giro di pochi mesi divenne chiaro a tutti come nel nuovo regime
di Ben Ali non ci fosse spazio per l’Mti (che più tardi si trasformò in
Harakat al-Nahda, o più semplicemente Ennahda, il Movimento della rinascita).
Negli anni Novanta e Duemila Ennahda si scontrò con la durissima repressione
poliziesca di Ben Ali, che costrinse una parte della leadership del partito
all’esilio per sfuggire al carcere – sorte che invece toccò a gran parte dei militanti.
Tuttavia, tali eventi contribuirono a creare quella fama di serietà,
integrità e determinazione che rese Ennahda il principale e più rispettato
movimento d’opposizione al regime nell’immaginario collettivo del popolo
tunisino e nelle narrative di resistenza ad esso connesse.
In questo contesto, non è stata certamente
una sorpresa che la caduta del
regime di Ben Ali all’inizio del 2011 abbia spalancato le porte al ritorno in
grande stile di Ennahda e della sua leadership esiliata. Tuttavia, a differenza
di Khomeini di ritorno dall’esilio parigino nel 1979, sin dall’inizio Gannusi
è stato attento a non spaventare gli ambienti laici del paese e a rassicurare
la classe media evitando ogni contrasto con gli altri partiti d’opposizione,
accennando a un programma elettorale privo di riferimenti specifici alla legge
islamica (sari‘a). Questo approccio è servito infatti ad aumentare la
popolarità di Ennahda anche presso quei settori della società tunisina non
appartenenti allo spazio ideologico islamista di cui Ennahda rappresentava il
centro di gravità politico, culturale e ideologico.
Grazie a questa strategia, per mesi Gannusi è
riuscito a evitare i
temi più controversi e scottanti (come quello dei diritti delle donne o del
ruolo dell’islam in politica), riuscendo a raggiungere sia le constituencies
più oltranziste sia quelle non islamiste e costruendo un blocco sociale ampio
ed etereogeneo capace di fare di Ennahda il principale partito del paese.
Nell’ottobre 2011 Ennahda ha così ottenuto il 37% dei voti, seguito da due
partiti laici, il Congresso per la Repubblica e Ettakatol (al-Takattul) con il
9% e il 7% rispettivamente (i quali sono diventati poi suoi alleati al
governo). Grazie a questo risultato, Ennahda ha conquistato un ruolo determinante
nel delineare gli assetti futuri della Tunisia e nel definirne la costituzione.
Eppure, il successo decretato dalle urne non è stato sufficiente per
permettere agli islamisti di governare da soli, costringendoli a scendere a
patti con il Congresso e con Ettakatol. La maggioranza solo relativa ottenuta
da Ennahda si è rivelata fondamentale nel delineare la traiettoria della
transizione politica tunisina.
Nei mesi successivi al trionfo elettorale di
Ennahda, infatti, si è
lentamente delineato il nuovo scenario politico tunisino, rivelando una
transizione ben diversa dai caotici processi avviati quasi in contemporanea in
Egitto e poco più tardi in Libia. Tre elementi si sono affermati
prepotentemente, condizionando così il panorama post-elettorale: la maggioranza
assoluta dei partiti di ispirazione laica, sebbene profondamente divisi e in
guerra l’uno con l’altro; la lenta crescita di un nuovo attore politico alla
destra di Ennahda, ovvero la nebulosa salafita; e l’emersione di diverse linee
di frattura interne a Ennahda, principalmente come conseguenza delle opposte
pressioni esercitate a sinistra dai partiti laici e a destra dai salafiti.
Per quanto riguarda la maggioranza laica, non essendo riuscita a unirsi è stata
politicamente sconfitta, ma è rimasta in grado di influenzare in maniera
determinante il dibattito costituzionale e i processi decisionali,
rappresentando anche un freno per eventuali tentativi di Ennahda di spingere
l’acceleratore a destra. Di fronte ad ogni tentativo di Ennahda di ridisegnare
i confini del rapporto religione-politica o dei diritti delle donne, la
mobilitazione dei laici è stata fondamentale per frenare le spinte islamiste
più radicali, complice la maggioranza solo relativa di Ennahda nell’assemblea
costituente. Sicché Ennahda si è limitato a consolidare il proprio potere in
questa fase, per rimandare a un non meglio precisato futuro la possibilità di
introdurre misure controverse come, ad esempio, il divieto della blasfemia.
Tuttavia, il fenomeno politico più originale e inatteso è stata la spettacolare
emersione del salafismo come attore rilevante. L’apertura dello spazio politico
e la legalizzazione di comportamenti personali e movimenti collettivi
precedentemente repressi sotto Ben Ali hanno creato infatti un vuoto politico
alla destra di Ennahda, accentuato anche dalla svolta pragmatico-centrista del
movimento. È dunque emersa una pletora di predicatori e di gruppi estremisti
di stampo salafita, un’alternativa estremamente interessante per i settori più
conservatori della società tunisina, spiazzati dalla moderazione mostrata da
Ennahda negli ultimi due anni. Grazie ad alcuni atti provocatori capaci di
innescare una spirale di paura e violenza che ha condizionato il clima sociale
e politico in Tunisia per mesi, essi sono riusciti a occupare in maniera sempre
più vistosa lo spazio mediatico tunisino, amplificando la propria presa su
alcuni settori della società.
Inoltre, gli islamisti di Gannusi si sono
trovati per la
prima volta in concorrenza con altri soggetti religiosi tunisini. L’agguerrita
minoranza salafita ha introdotto un elemento cruciale di sfida all’egemonia di
Ennahda nel campo conservatore, evidenziando come esista anche in Tunisia un
settore della società pronto a entrare in azione qualora gli islamisti al
potere si mostrino troppo timidi con i laici.
Ennahda ha reagito assumendo un atteggiamento profondamente ambiguo nei confronti
dei salafiti: da una parte, gli islamisti di Gannusi sanno di aver bisogno dei
salafiti per vincere le prossime elezioni; dall’altra parte, Ennahda non può
far vedere di essere troppo vicino ai salafiti, pena la perdita di consensi a
sinistra, fra gli elettori moderati e non islamisti. Tale dilemma è il più
importante problema strategico per Ennahda, incapace di risolvere
quest’ambiguità senza perdere pezzi a destra o a sinistra. Inoltre, a causa di
questo dilemma sono emerse svariate linee di frattura all’interno di Ennahda.
Gannusi ha cercato di coprire le crepe usando un linguaggio impreciso e vago, a
volte avanzando proposte più radicali – salvo ritirarle in seconda battuta
davanti alle veementi proteste dell’opposizione laica. Tuttavia, questa tattica
non è stata sufficiente a nascondere le molteplici divisioni all’interno del
partito, fra moderati (come il primo ministro Hamadi Gibali) e conservatori
(come Sadiq Suru) o fra leadership in esilio e in carcere: i primi sono quelli
che hanno trascorso gli ultimi vent’anni a Londra o nel Golfo e pertanto
tendono ad assumere posizioni più concilianti verso i partiti laici, mentre
gli altri hanno scontato lunghe pene nelle prigioni di Ben Ali e sono a più
stretto contatto con i duri e puri del partito. O ancora fra Gibali e Gannusi,
quest’ultimo velatamente accusato di manovrare contro il primo con l’obiettivo
di sostituirlo alla guida del governo con il più fedele ministro della Salute
‘Abd al-Latif Mikki. Lungi dallo spaccare in due Ennahda, questi scontri
personali e ideologici tendono invece a sovrapporsi, evidenziando la natura
complessa del fenomeno islamista tunisino. Un elemento, però, è emerso con
precisione: finché Gannusi resterà in sella, le divisioni non rischieranno di
esplodere in maniera drammatica, mettendo a repentaglio l’unità del partito. I
dubbi seri riguardano la capacità di tenuta di Ennahda nel futuro
post-Gannusi.
Questo delicato equilibrio politico ha
prodotto un aspro dibattito costituzionale. Solo
dopo vari mesi l’Assemblea costituente è riuscita a presentare un progetto di
costituzione condiviso più o meno dalla maggior parte delle forze politiche e
sociali. Grazie a estenuanti trattative e dopo alcune mini-crisi, le autorità
tunisine hanno raggiunto un compromesso sulla forma di governo
semipresidenziale, sui diritti delle donne eccetera. Nonostante le tensioni
sociali e politiche restino alte, la Tunisia ha imboccato una strada
consensuale dalla quale non si è mai allontanata, evitando gli strappi e i
traumi che hanno caratterizzato la transizione egiziana.
Il percorso nettamente diverso seguito dalla
Tunisia rispetto all’Egitto non è una sorpresa. La «primavera araba» ha infatti
trovato qui un terreno ben più propizio: la Tunisia è un paese piccolo,
economicamente aperto e rivolto verso l’Europa, al riparo dalle pressioni
geopolitiche dello scontro fra i giganti maghrebini Algeria-Marocco e
sufficientemente lontano dal Mashreq (Masriq). Inoltre, grazie a un lascito
coloniale meno duro rispetto ad Algeria o Libia e alle limitate risorse
petrolifere e minerarie, il paese ha potuto sviluppare un’ampia e ben istruita
classe media che ha tratto giovamento dall’economia relativamente diversificata
della Tunisia. In questo contesto, l’esperienza islamista di Ennahda si è
sviluppata seguendo un percorso decisamente moderno e originale nel panorama
mediorientale e nordafricano. Non è un caso infatti che Gannusi ami esibire il
proprio status di intellettuale guida nell’universo islamista, nonostante lo
scarso peso politico dei tunisini nello spazio globale della Fratellanza, e
spesso ribalti l’immancabile domanda su quale sia il modello di riferimento di
Ennahda sostenendo invece che siano i suoi libri ad aver ispirato altri movimenti islamisti.
L’islamismo tunisino si è così adattato alla
realtà sociale ed
economica del paese, in maniera simile all’Akp in Turchia, facendo propri i
princìpi democratici e liberali condivisi dalla maggioranza della popolazione.
In questo senso, da un punto di vista geopolitico Ennahda, più che un fratello
minore dei Fratelli musulmani egiziani, è diventato un fenomeno largamente
autonomo e scarsamente influenzato dal Cairo. Al contrario, la parabola
egiziana viene vista con un certo distacco a Tunisi. Il modello di riferimento
viene cercato altrove, in
Turchia o addirittura nell’esperienza dei cattolici democratici in Europa.
L’autopercezione di Ennahda è pertanto quella di un partito forte,
culturalmente influente, politicamente avanzato e relativamente autonomo
rispetto ad altre esperienze islamiste nel mondo arabo, nonostante lo scarso
peso demografico e geopolitico della Tunisia.
Questo non significa però che Ennahda sia immune dalle pressioni geopolitiche regionali
o che la sua autonomia sia assicurata. La realtà è infatti più complessa
della narrativa elaborata da Gannusi e dal suo entourage. Innanzitutto, la
parabola dell’islamismo tunisino è profondamente influenzata da due attori: la
longa manus dei paesi del Golfo e in particolare del Qatar; poi, il lungo
esilio a Londra di alcuni fra i suoi leader, che ha lasciato in loro
un’impronta culturale e politica di stampo anglosassone (ad esempio nella
concezione dei rapporti fra religione e Stato) che fa di Ennahda un movimento
politico assolutamente atipico per la Tunisia. Di questi due elementi, però,
è il primo a essere nettamente più importante dal punto di vista geopolitico.
Il Qatar infatti ha ospitato per anni vari dirigenti in esilio del partito
(come l’attuale ministro degli Esteri nonché genero di Gannusi, Rafiq ‘Abd
al-Salam), ne ha finanziato le attività e ha fornito al momento opportuno
pieno sostegno economico e mediatico (mediante Aljazeera). Sebbene i dirigenti
di Ennahda si sforzino di ridimensionare questa fonte d’influenza, negli ultimi
mesi sono emerse varie accuse riguardanti il sostegno fornito dal Qatar al partito in campagna elettorale.
Questi legami acquisiscono un significato
particolare se
posti nella prospettiva dell’incontro-scontro con la minoranza salafita e sullo
sfondo della concorrenza geopolitica fra Qatar e Arabia Saudita in Medio Oriente
e Nordafrica. Non è infatti un mistero che molti predicatori salafiti abbiano
ricevuto e ricevano tuttora sostegno finanziario e ideologico dalla galassia
wahhabita saudita, suscitando notevole preoccupazione negli ambienti laici tunisini.
Sebbene Qatar e Arabia Saudita mantengano rapporti stretti e positivi,
soprattutto sul dossier siriano, il rispettivo sostegno a Ennahda e ai salafiti
in Tunisia ha già creato qualche tensione.
Nell’ambito arabo della Fratellanza musulmana, Ennahda rappresenta oggi l’esperimento
più avanzato e ambizioso. Il partito islamista tunisino gode di simpatie e
sostegni diffusi, negli Stati Uniti, in Europa e nei paesi del Golfo. È anche
per questo che l’assalto all’ambasciata statunitense di Tunisi, il 14 settembre
2012, ha lasciato uno strascico di recriminazioni e paure fin lì sconosciute,
spingendo alcuni parlamentari americani a chiedere la sospensione di ogni forma
d’aiuto alla Tunisia islamista. L’intreccio di coperture, simpatie,
competizione e ambiguità che lega la nebulosa salafita ai Fratelli musulmani
tunisini è infatti motivo di preoccupazione, sebbene negli ultimi mesi Ennahda
sia riuscita ad allontanare parte di quei sospetti.
Il destino della Tunisia è oggi più che mai
legato al
completamento dell’evoluzione di Ennahda in un moderno partito conservatore
rispettoso della separazione fra Stato e religione e fermo nella collocazione
geopolitica del paese. Proprio le particolari condizioni sociali, economiche e
geopolitiche della Tunisia possono permettere a questo paese laboratorio di
indovinare una formula di successo che potrebbe essere successivamente adattata
al resto della regione, soprattutto nel momento in cui l’Egitto sbanda
pericolosamente, suscitando angosce in molti osservatori interni e
internazionali. Per fare questo, però, la Tunisia dovrà accelerare l’uscita
dalla lunga fase di transizione iniziata nel 2011. E, soprattutto, dovrà
adottare in tempi ragionevolmente rapidi quella costituzione che tutti i
principali settori della società reclamano ormai da mesi.
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