venerdì 14 maggio 2021

Su Agamben e il contagio. Il ruolo della filosofia e la comune umanità - Mario Farina

 


Ha destato un discreto sgomento, almeno nel piccolo mondo della filosofia, la reazione di Giorgio Agamben alla particolare situazione sociale e politica nella quale l’emergenza sanitaria, ormai globale, ha gettato il paese. È probabile che il lettore anche distratto di Agamben avrebbe potuto anticipare con un certo agio quale sarebbe stata la sua posizione. Come in uno sketch da avanspettacolo, se ci avessero chiesto di imitare a bocce ferme un ipotetico Agamben che commenta un’ipotetica quarantena imposta per decreto avremmo tutti sciorinato un credibile repertorio di stati d’eccezione, cittadinanze coatte e corpi sottratti alla socialità. Ma la realtà, si sa, si diverte sempre a umiliare l’immaginazione e allora il vero Giorgio Agamben non solo ha confermato tutto il suo repertorio, ma si è spinto a battibeccare con le sacrosante critiche piovuto un po’ da ogni dove (la nuvola più alta è senz’altro quella di Nancy, mentre la più volgare ha la firma di Flores d’Arcais).

 

L’ultimo post del suo blog, pubblicato in data 17 marzo e ineffabilmente intitolato Chiarimenti (ineffabilmente perché anziché chiarire si limita a ribadire), contiene a mio modo di vedere la più grossolana tra le sviste del più tradotto filosofo italiano vivente. «È evidente» scrive Agamben «che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa».

 

C’è una capziosa viziosità nel ragionamento di Agamben, che non tiene conto di come, ad esempio, il sacrificio di «praticamente tutto» sia fatto non semplicemente per salvaguardare la propria vita, ma specialmente per proteggere quella degli altri. Ma non è questo il punto. Il punto è piuttosto la profonda e lacerante solidarietà che una certa corrente di pensiero, autonomo e libertario, ha finito per mostrare con le tendenze più estreme, e violente, del liberismo economico. Perché quella «nuda vita» che secondo Agamben dovremmo essere capaci di disprezzare – traduzione tendenziosa e retorica del benjaminiano «bloße Leben», più prosaicamente rendibile con «mera vita» – non è altro che il benessere minimo del nostro corpo, base essenziale e irrinunciabile sulla quale si edifica quella comune umanità che sola, universalizzata, può essere fonte dell’eguaglianza tra gli uomini. D’atro canto, il «praticamente tutto» che agli occhi di Agamben, colpevolmente, l’Italia sacrifica sull’altare della vita corrisponde – probabilmente con una gaffe non voluta – ai «rapporti sociali», che Agamben dovrebbe ben saper essere sempre storici e vigenti.

 

Vengono allora in mente i balli pubblici fatti dai sostenitori di Bolsonaro quando hanno dato manforte al loro presidente per denunciare il complotto internazionale sulla pandemia, oppure le prime posizioni assunte dai più volubili Trump e Boris Johnson, che hanno pensato di salvare la produzione economica – sì, esatto, «i rapporti sociali» – sull’altare della vita e del benessere pubblico, vale a dire sull’altare della comune umanità, lasciando indietro i deboli esclusi dalla comunità dei liberi. Lette in questo contesto, le parole di Agamben assumono un significato decisamente più comprensibile. Sarebbe un errore intenderle come frutto di una radicalizzazione, magari lodevole ma a oggi sconveniente, di un principio di libertà individuale. Corrispondono piuttosto a una difesa di quel «praticamente tutto» che non intende sacrificare: la propria posizione all’interno dei rapporti sociali vigenti come individuo proprietario, come persona sociale che gode di affetti e di tutto ciò che la società mette a sua disposizione. Questo individuo proprietario, la cui individuale umanità è pienamente realizzata, non è disposto a sacrificare la propria posizione per la difesa della vita, vale a dire ciò su cui solo può essere edificata e realizzata quella comune e universale.

Mi è capitato di leggere parole di sconforto di fronte alle esternazioni di Agmaben. Già la filosofia naviga in pessime acque, si dice, se in più facciamo questo genere di figure, è difficile rivendicare una posizione nel dibattito pubblico. Capisco, ma di nuovo, non credo sia questo punto. Quello che stiamo vivendo in relazione alla pandemia di coronavirus (a proposito, Agamben da che mi risulta è l’unico a chiamarlo «il virus corona», come fosse in nome proprio) non è quasi nemmeno il tempo della scienza. È piuttosto il tempo della pratica, della tecnica della medicina d’assalto che prova a mettere una pezza a un mondo che sembra essersi rotto male. E questo è un fatto di cui la filosofia deve prendere atto. Viene comodo in proposito chiamare in causa Hegel, o meglio l’atteggiamento che Johann Friedrich Herbart, per altri versi suo nemico, riconosceva in Hegel lodandone la peculiare forma di empirismo: l’umiltà di accogliere i dati del dibattito scientifico per quello che erano, senza la pretesa di insegnare alla scienza il suo mestiere.

 

Per ragioni che sfuggono alle sue intenzioni, Agamben ha fatto un buon servizio al pensiero filosofico. La crisi sanitaria che stiamo vivendo mostra nettamente una tendenza chiarificatrice, che è quella di estremizzare e rendere visibili le storture sociali. Mentre io lavoro in mondo smart dal salotto di casa, miei coetanei rischiano il contagio, costretti a lavorare spesso per pochi soldi. Le distinzioni sociali diventano evidenti, chiare e plastiche. E così lo diventano anche le tendenze sottese ai pensieri che le interpretano. Evidenza che forse mancava poco più di un anno fa quando, sempre sul suo blog ospitato dalla casa editrice Quodlibet, Giorgio Agamben prendeva le distanze dalla petizione pubblica in favore della legge sullo ius soli. «La patria», scriveva citando Francesco Nappo, «sarà quando tutti saremo stranieri», cioè quando saremo tutti sottratti a uno ius e non sottomessi a esso. Ma lo ius di cui si parlava in quel caso, e oggi lo si vede chiaramente, non era un’arma di aggressione, ma uno strumento di protezione della libertà e dei diritti di donne e uomini che ne erano privati.

 

Di fronte a una crisi umana e sanitaria come quella che stiamo vivendo la filosofia può allora conservare un compito. E questo compito è quello di assumere i dati che le arrivano e contribuire a fare chiarezza. Richiamando ancora Hegel, è la nottola di Minerva che deve farle da guida. A modo loro, anche le parole di Agamben hanno contribuito a fare chiarezza. Nella loro fossilizzazione su schemi di pensiero consolidati, sono state in grado di mostrare i limiti dei quali soffre, oggi, una corrente di pensiero che dalla seconda metà degli anni Settanta ha preteso di porre al centro del proprio progetto l’autonomia dell’individuo, assolutizzandolo. Appare chiaro, oggi, che il diritto e i decreti, e con essi lo stato, non sono per forza una limitazione della libertà individuale. A volte, come in questo momento, possono essere strumento di protezione e realizzazione della sua libertà. A patto, certo, di avere come obiettivo non un’astratta idea della propria individuale libertà di proprietario, ma la diffusione dell’uguaglianza tra gli uomini come universalizzazione della comune umanità.

da qui

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