mercoledì 12 ottobre 2016

La conquista che non scoprì l’America – Eduardo Galeano

La scoperta: il 12 ottobre 1492 l'America scoprì il capitalismo. Cristoforo Colombo, finanziato dai re spagnoli e dai banchieri genovesi, portò la novità alle isole dei Caraibi. Nel suo diario sulla Scoperta, l'ammiraglio scrisse 139 volte la parola "oro" e 51 la parola "Dio" o "Nostro Signore". I suoi occhi non si stancavano di ammirare tanta bellezza su quelle spiaggie e il 27 novembre profetizzò: "Tutta la cristianità trarrà profitto da esse". E in questo non si sbagliò. Colombo credeva che Haiti fosse il Giappone e che Cuba fosse la Cina, e credeva che gli abitanti di Giappone e Cina fossero indiani dell'India; ma su quella profezia non si sbagliò.
Dopo 5 secoli di profitto per tutta la cristianità, è stato annientato un terzo delle foreste americane, molta terra che fu fertile è un deserto e più della metà della popolazione mangia quando trova qualcosa da mangiare. Gli indios, vittime della più colossale spoliazione della storia universale, continuano a soffrire l'usurpazione degli ultimi avanzi delle loro terre e continuano ad essere condannati alla negazione della loro identità 'diversa'. Gli si continua a proibire di vivere al loro modo, si continua a negare loro il diritto di essere. Al principio il saccheggio e l'altrocidio furono perpetrati nel nome del dio del Progresso.
Tuttavia, in quella identità proibita e disprezzata, risplendono ancora alcune chiavi di un'altra America possibile. L'America, cieca di razzismo, non vede.
Il 12 ottobre 1492 Cristoforo Colombo scrisse nel suo diario che voleva portarsi alcuni indios in Spagna "perché imparino a parlare" ('que deprendan fablar'). Cinque secoli più tardi, il 12 ottobre 1989, in una corte di giustizia degli Stati Uniti, un indio mixteco è stato condiserato "ritardato mentale" ('mentally retarded') perché non parlava correttamente lo spagnolo. Ladislao Pastrana, messicano di Oaxaca, bracciante illegale nei campi della California, rischiava di essere condannato a passare il resto della sua vita in un manicomio. Pastrana non riusciva a capirsi con l'interprete spagnola e lo psicologo diagnosticò un "evidente deficit intellettuale". Alla fine gli antropologi chiarirono la situazione: Pastrana si esprimeva perfettamente nella sua lingua, la lingua mixteca, che parlano gli indios eredi di una grande cultura vecchia di più di duemila anni.
Il Paraguay parla guaranì. Un caso unico nella storia universale: la lingua degli indios, la lingua dei vinti, è l'idioma nazionale indiscusso. E tuttavia, la maggior parte dei paraguayani pensa, secondo i sondaggi, che chi non capisce lo spagnolo "è come un animale". Su ogni due peruviani, uno è indio, e la costituzione del Perù dice che il quechua è una lingua altrettanto ufficiale dello spagnolo. La costituzione lo dice, ma la realtà non l'ascolta. Il Perù tratta gli indios come il Sudafrica tratta i neri. Lo spagnolo è l'unico idioma che si insegna nelle scuole e l'unico che capiscano i giudici, i poliziotti, i funzionari pubblici. Cinque anni orsono i funzionari dell'anagrafe di Buenos Aires si rifiutarono di registrare la nascita di un bambino.l I genitori, indigeni della provincia di Juyjuy, volevano che il loro figlio si chiamasse Qori Wamancha, un nome proprio della loro lingua. L'Anagrafe argentina non lo accettò "in quanto era un nome straniero".
Gli indios delle Americhe vivono esiliati nella loro terra. Il linguaggio non è un segno di identità, bensì un marchio di maledizione. Non li identifica, li tradisce. Quando un indio rinuncia alla sua lingua, comincia a civilizzarsi. Civilizzarsi o suicidarsi?
(...)
Non esiste, credo, miglior modo di rendere omaggio agli indios, i primi americani che, dall'Artico alla Terra del fuoco, sono stati capaci di superare ripetute campagne di sterminio e hanno mantenuto viva la loro identità e il loro messaggio.
Oggigiorno essi continuano a offrire all'America tutta, e non solo all'America latina, "chiavi fondamentali di memoria e profezia",  sono testimonianze del passato e, al tempo stesso, fuochi che illuminano il cammino. Se i valori che essi incarnano non avessero più che un interesse archeologico, gli indios non continuerebbero a essere l'obiettivo di una repressione tanto accanita, né i detentori del potere sarebbero tanto impegnati a separarli dalla lotta di classe e dai movimenti popolari di liberazione.
Non sono tra quelli che credono nelle tradizioni in quanto tali: credo nelle eredità che moltiplicano la libertà umana e non in quelle che la ingabbiano. Sembra una cosa ovvia chiarirlo, ma non lo è mai troppo: quando mi riferisco alle voci remote che dal passato ci aiutano a trovare una risposta alle sfide del tempo presente, non sto proponendo la riedizione dei riti di sacrificio che offrono cuori umani agli dei, né sto facendo l'elogio del dispotismo dei re inca e aztechi.
Al contrario, sto celebrando il fatto che l'America possa trovare, nelle sue più antiche fonti, le sue più giovani energie: il passato dice cose che interessano il futuro.
(...)
A metà del secolo scorso, un capo indiano, chiamato Seattle, avvertì i funzionari del governo degli Stati Uniti: "dopo alcuni giorni il moribondo sente il fetore del proprio corpo. Continuate pure a contaminare il vostro letto e una notte morirete soffocati dai vostri rifiuti." Il capo Seattle disse anche: "quello che serve alla terra serve anche ai figli della terra".
[estratto da: Eduardo Galeano, La Conquista che non scoprì l'America, Manifesto Libri, 1992]
Ci sarebbero moltissime altre parti che meritano di essere citate. Essendo un libricino di 110 pagine, fareste prima a procurarvelo e leggerlo.

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