domenica 9 luglio 2023

a Jenin, come sempre

 Jenin, l'equidistanza dei "sempre buoni" - Patrizia Cecconi

Un quarantenne pedofilo, ricco, atletico, palestrato è stato condannato per violenza dopo numerosi abusi su un bimbo di 4 anni. Condannato per violenza anche il bambino il quale, per difendersi, ha morso e graffiato a sangue il suo violentatore.

Una notizia simile porta a chiedersi  se chi ha condannato il piccolo al pari del suo aggressore sia sano di mente, oppure  se non sia un sostenitore del pedofilo al quale la condanna  del bambino offre una sorta di attenuante o se, più semplicemente, la condanna “equidistante” non sia dettata dal timore di una querela  per odio di classe, o magari di religione - che di questi tempi ci sta bene – da parte del ricco e potente pedofilo.

Se al posto del ricco violentatore poniamo il governo, o meglio i governi  israeliani e l’esercito che devasta, uccide, arresta, terrorizza il popolo sotto occupazione eseguendo ordini criminali, e al posto del bambino poniamo la resistenza palestinese, resta da chiedersi come si fa a scrivere che “condanniamo l’ennesima operazione militare israeliana in Cisgiordania, nel campo profughi di Jenin, come condanniamo l’uso della violenza da parte palestinese” come si legge nell’appello promosso dalla Rete italiana pace e disarmo e firmato da molte associazioni, generalmente attente alle violenze quasi secolari subite dal popolo palestinese per mano del terrorismo, ebraico prima della proclamazione dello Stato di Israele, e del terrorismo israeliano dal 14 maggio del 1948.

Il documento,  presentato da una testata on line come appello “contro la violenza e per la pace” è uno dei più fulgidi esempi  di (supponiamo involontario) sostegno allo Stato di Israele che, se non si temesse la strumentalizzazione della verità, si potrebbe tranquillamente definire Stato canaglia secondo gli stessi parametri che hanno attribuito tale definizione ad altri Stati aggressori e violatori dei diritti umani e del diritto internazionale.

Entriamo nel merito del documento che, dopo l’incipit di condanna “equidistante”, ricorda “quanto sta accadendo in questi giorni a Jenin” dimenticando (forse?) che da gennaio ad oggi, quindi solo in questi ultimi sei mesi, Israele ha ucciso quasi 200 palestinesi, bambini compresi; ha bombardato e distrutto case, scuole, strade, ospedali; ha ferito circa 1.500 persone; ha arrestato migliaia di palestinesi senza altro motivo che quello di tacitare il loro diritto di rivendicare la libertà. Parliamo solo degli ultimi sei mesi, ma è sufficiente per porre Israele in concorrenza con quegli Stati totalitari ai quali, in nome del nostro essere  democratici, chiediamo il rispetto dei diritti umani.

Da bravi italiani siamo abituati alle notizie di cronaca nera relative alle faide di mafia, camorra e simili che insanguinano le strade della nostra terra e non sarebbe molto carino sostenere che “poco conta” se le proporzioni di morti tra i clan malavitosi sono diverse, invece l’appello in esame scrive di “una sequela di vendette e di lutti che da decenni colpisce entrambe le popolazioni, anche se con proporzioni diverse, ma poco conta…”  per proseguire con un generico richiamo alla necessità che la Comunità internazionale fermi questo stillicidio di vite riaffermando il diritto del popolo palestinese ad avere un proprio Stato sui confini del 5 giugno 1967. Si badi bene che quei confini (peraltro senza tener conto della necessità, probabilmente impossibile, di smantellare le illegali colonie che si sono appropriate di quasi tutti i Territori sotto occupazione) non sono quelli fissati dalla sbandierata e mai rispettata Risoluzione 181 che intendeva  dividere la Palestina storica in due Stati (56% a Israele, 43,6% Palestina e 0,4% luoghi sacri sotto tutela internazionale) perché - e ci sembra importante ricordarlo - la citata Risoluzione ONU, avversata dagli arabi come tutti sanno, non è mai stata accolta da Israele, come invece in pochi sanno, e infatti Israele si è appropriato del 78% della Palestina storica lasciandone ai Palestinesi solo il 22% che poi, nel 1967, avrebbe militarmente occupato e gradualmente colonizzato nel più totale disprezzo del diritto internazionale.

I redattori e i firmatari dell’appello conoscono bene quanto appena precisato e quindi, ci chiediamo, perché tanto negligente pressappochismo?

Forse per sentirsi a posto con la propria coscienza era necessario appellarsi alla trita richiesta dei due popoli/due Stati come se il riconoscimento simbolico di uno Stato privo di sovranità statuale e conseguenti diritti fosse la soluzione del problema e la fine delle violenze? O forse perché questo, come scritto nell’appello, sarebbe “il miglior investimento anche per il popolo israeliano per uscire dal ricatto della sicurezza nazionale”?  

E allora ecco la bella chiusa del documento con la richiesta a Parlamento e Governo italiani di “mandare un segnale di  pacificazione dando corso al riconoscimento dello Stato di Palestina”.

Gli ultimi circa 200 martiri palestinesi - certamente violenti come il bimbo di 4 anni della metafora - chiedevano la fine dell’occupazione (illegale, ricordiamolo!) e il diritto del loro popolo all’autodeterminazione. Chiedevano il rispetto di un diritto riconosciuto e sostenuto dalla legalità internazionale e sono stati uccisi. Uccisi non perché terroristi come la volgarità dei media mainstream e dei nostri inviati televisivi (v. Gianniti) li definisce, ma perché  si opponevano attivamente al giogo dell’occupazione militare, alla colonizzazione, all’apartheid e, quindi, al progetto Israeliano di annessione territoriale.

Nel corso di questi decenni i palestinesi che non si sono arresi e non hanno seguito le sirene dell’occidente hanno adottato diverse forme di lotta per rivendicare i loro vilipesi diritti. Hanno avuto la fase della lotta armata e sono stati schiacciati dalla potenza israeliana coadiuvata dalle complicità occidentali. Hanno avuto la fase della lotta nonviolenta e sono stati ugualmente sterminati. Stesse complicità occidentali, stesse connivenze mediatiche. Qualche voce istituzionale si è alzata, riabbassandosi subito dopo “un’ eroica” quanto inutile vibrata protesta.  In tutto questo, i militari palestinesi non hanno voce in capitolo se non per arrestare i resistenti attivi collaborando (in nome dei famigerati accordi di Oslo) con la sicurezza israeliana.

Ma qualcosa sta cambiando, infatti tra i martiri, assassinati dagli israeliani, ultimamente sembra si annoveri anche qualche militare dell’Anp che ha capito da quale parte stare. Ci sarà emulazione? L’Anp prenderà una posizione attiva al di là delle denunce verbali?  Il martire è un testimone, questo i palestinesi lo sanno e lo rivendicano, e i testimoni portano all’effetto domino. La storia ce lo insegna e Israele lo temeva e lo teme perché questo rallenta il suo progetto.   Un progetto di cui solo chi è ingenuo o in malafede può limitarsi ad accusare soltanto il governo fascista attuale, perché è lo stesso progetto del socialista Ben Gurion o della socialista Golda Meir le cui mani grondano di sangue palestinese non meno di quelle dei fascisti Netanyahu o Smotrich o Ben Gvir. Il piano, strategico illegale e criminale, è quello dell’annessione di tutta la Palestina lasciando, tutt’al più, delle “riserve” in cui rinchiudere i palestinesi che non avranno lasciato la loro terra. Non sono nostre illazioni ma fatti comprovati dai documenti desecrati  che formano l’ossatura di alcuni volumi dello storico ebreo israeliano Ilan Pappé.

Davanti a tutto ciò, che è solo una parziale sintesi della ben più drammatica realtà, suona – sebbene involontariamente – ingiurioso chiedere “pace giusta” attraverso la nonviolenza del popolo sotto occupazione militare e coloniale.  

Citando Franz Fanon, che di colonialismo purtroppo se ne intendeva, nei momenti decisivi, quelli  in cui il colonialismo sembra vacillare, si introduce la nozione della nonviolenza come pratica richiesta all’oppresso e non certo, ovviamente, all’oppressore. “La nonviolenza – scrive Fanon ne ‘I dannati della terra’ – è un tentativo di risolvere il problema coloniale attorno a un tappeto verde… ma se le masse, senza aspettare che le sedie siano disposte attorno al tappeto verde, non ascoltano più che la propria voce e cominciano gli attentati…”  allora si vedono “i buoni amici” correre alla ricerca di un compromesso prendendo le distanze dalla violenza degli oppressi.

Concludiamo, mentre arrivano dalla Palestina – non certo attraverso i media mainstream – notizie di nuovi arbitrari arresti e sapendo che la lista dei martiri si allungherà. Concludiamo, dunque, riflettendo su un principio molto semplice, un principio al quale dovrebbe attenersi anche il giornalismo onesto, e cioè che la solidarietà autentica verso una comunità, un popolo, o uno Stato aggredito esige rispetto. Rispetto per il diritto di quel popolo all’autodeterminazione e, contemporaneamente, esige il riconoscimento della violenza originaria, perché è quella che va condannata, altrimenti non si fa informazione onesta ma servile, sia che si tratti di favorire il ricco pedofilo sia che ci si prostri a servizio di uno Stato canaglia.

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Jenin e il velo strappato dell’ipocrisia - Pasquale Liguori

Ogni giorno, da troppi decenni, i palestinesi sono calpestati dalla vile pressione dell’occupazione militare, umiliati da crimini e dall’apartheid loro imposta da Israele, indifferente alle numerose risoluzioni di condanna Onu e non ottemperante alle norme di diritto internazionale e penale.

Di tanto in tanto, quando proprio non può esser più nascosta la portata sanguinaria dei crimini giunti al picco del loro luttuoso bilancio, i media mainstream sono costretti a far cronaca. E allora si scosta appena un po’ il velo ipocrita che abitualmente tace di quel torrente quotidiano di sangue, soprusi e illeciti che scorre impetuoso su quelle terre vessate. Spesso lo si fa, però, con aumentata ipocrisia inneggiante alle gesta dell’unica democrazia in Medio Oriente (Israele che, per il linguaggio in voga, è invece l’aggressore) che si oppone a fazioni terroriste (invero, i palestinesi aggrediti che resistono).

In questa proposta rovesciata dei fatti, se confrontata a quanto gli stessi media diffondono circa gli eventi in Ucraina, si narra dunque di un’azione militare preventiva condotta nella Cisgiordania settentrionale, a Jenin, diretta a neutralizzare un manipolo di terroristi asserragliati in un campo profughi. Si è trattato invece di un’ingente e cruenta operazione come non si registrava da anni contro la già super-affollata e disagiata comunità di palestinesi in passato spossessati delle loro terre e dei loro averi e, di nuovo, vittime oggi di una furia devastatrice e genocida da parte dell’esercito di occupazione israeliano

Il bilancio: almeno 12 morti, circa 4mila sfollati, strade divelte, reti idriche ed elettriche compromesse a fronte della cattura di qualche cesto di petardi e alcune bombole di gas.

Privi del sostegno di un organismo di riferimento quale dovrebbe essere l’Autorità palestinese, vista peraltro come ente inetto e persino collaborazionista col regime israeliano, i giovani del luogo provano a resistere contro un futuro che per loro si preannuncia oscuro, se non funesto.

In un quadro così deplorevole di dolore e ingiustizie appare utile dar voce alla denuncia ufficiale a riguardo esposta da alcune Relatrici speciali delle Nazioni Unite e diramata attraverso un comunicato stampa di seguito riportato e tradotto alla lettera.

COMUNICATO STAMPA RELATRICI SPECIALI ONU SUI RECENTI EVENTI DI JENIN

Esperti ONU*: gli attacchi aerei israeliani e le operazioni di terra a Jenin potrebbero costituire un crimine di guerra.

GINEVRA (5 luglio 2023). Gli attacchi aerei e le operazioni di terra condotte da Israele nella Cisgiordania occupata che hanno preso di mira il campo profughi di Jenin uccidendo almeno 12 palestinesi, potrebbero prima facie costituire crimine di guerra, hanno oggi dichiarato le Relatrici delle Nazioni Unite.

Le operazioni delle forze militari israeliane nella Cisgiordania occupata, con uccisioni e ferimenti gravi della popolazione occupata, con la distruzione delle loro abitazioni e delle infrastrutture e con lo sfollamento arbitrario di migliaia di persone, costituiscono gravi violazioni del diritto internazionale e degli standard sull’uso della forza potendo configurarsi come crimine di guerra“, hanno affermato.

Tra il 3 e il 4 luglio, le forze israeliane hanno ucciso almeno 12 palestinesi, tra cui cinque bambini, e ne hanno feriti più di 100, in una delle più grandi operazioni militari israeliane degli ultimi anni nella Cisgiordania occupata. Gli attacchi hanno costretto alla fuga migliaia di palestinesi e hanno danneggiato infrastrutture, case e condomini.

“Gli attacchi sono stati i più feroci in Cisgiordania sin dalla distruzione del campo di Jenin avvenuta nel 2002”, hanno dichiarato le Relatrici Onu che hanno poi ricordato le numerose segnalazioni di ambulanze a cui è stato impedito di entrare nel campo profughi di Jenin per evacuare i feriti, ostacolando il loro accesso alle cure mediche del caso.

È stato riportato che circa 4.000 palestinesi sono fuggiti dal campo profughi di Jenin nella notte tra lunedì e martedì, a seguito degli attacchi aerei mortali.

È straziante vedere migliaia di rifugiati palestinesi, già in origine sfollati dagli anni 1947-1949, costretti a uscire dal campo in preda alla paura nel cuore della notte”, hanno dichiarato le Relatrici.

Stigmatizzando le cosiddette operazioni “antiterrorismo” condotte dalle forze israeliane, gli esperti hanno altresì affermato che gli attacchi non trovano alcuna giustificazione sul piano del diritto internazionale.

“Tali attacchi rappresentano una punizione collettiva della popolazione palestinese che viene etichettata quale “minaccia alla sicurezza collettiva”, secondo il punto di vista delle autorità israeliana”, hanno dichiarato.

Le esperte Onu hanno espresso inoltre grave preoccupazione per la tipologia di armi e le tattiche militari impiegate dalle forze di occupazione israeliane contro la popolazione di Jenin in almeno due occasioni nelle ultime due settimane.

“I palestinesi nel Territorio palestinese occupato sono persone protette dalla giurisdizione internazionale, garantite da tutti i diritti umani, compresa la presunzione di innocenza”, hanno dichiarato le Relatrici. “Non possono essere trattati come una minaccia collettiva alla sicurezza da parte della Potenza occupante, tanto più mentre questa porta avanti l’annessione della terra palestinese occupata e l’espropriazione e lo sfollamento dei palestinesi ivi residenti”.

Le esperte hanno quindi sottolineato che le operazioni di Israele a Jenin sono un’amplificazione della violenza strutturale che permea i territori palestinesi occupati da decenni.

“L’impunità di cui Israele ha goduto per decenni per i suoi atti di violenza non fa che alimentare e intensificare il ciclo ricorrente di violenza”, hanno dichiarato.

Le Relatrici Onu chiedono che Israele sia chiamato a rispondere, secondo quanto previsto dal diritto internazionale, della sua occupazione illegale e degli atti di violenza che la perpetuano. “Per porre fine a questa violenza incessante, l’occupazione illegale di Israele deve terminare. Non può essere corretta o marginalmente migliorata, perché è sbagliata fino al midollo“, hanno infine dichiarato.

Francesca Albanese, Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967; Paula Gaviria Betancur, Relatrice speciale sui diritti umani degli sfollati, Reem Alsalem, Relatrice speciale sulla violenza contro donne e ragazze.

Il comunicato originale è qui reperibile https://www.ohchr.org/en/press-releases/2023/07/israeli-air-strikes-and-ground-operations-jenin-may-constitute-war-crime-un

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L’antisemitismo come pretesto - Pasquale Liguori

Reprimere la rivendicazione dei diritti palestinesi mediante la definizione operativa di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) è il tema affrontato dal rapporto pubblicato il 6 giugno a cura dell’European Legal Support Center-Centro europeo con base ad Amsterdam, impegnato nel supporto legale in difesa del movimento di solidarietà con il popolo palestinese.

Il documento riferisce di oltre cinquanta casi di violazione dei diritti umani accaduti in Paesi europei nel quinquennio 2017-22 riguardanti persone sostenitrici dei diritti dei palestinesi o critiche verso la politica sionista di Israele. Tutte raggiunte dall’accusa di antisemitismo secondo gli schemi prospettati dalla definizione IHRA.

All’IHRA aderiscono 35 Stati con l’obiettivo di combattere il negazionismo dell’Olocausto e l’antisemitismo. Seppur promossa come non giuridicamente vincolante, la definizione operativa IHRA di antisemitismo è sempre più utilizzata in numerosi contesti istituzionali assumendo evidente valenza legale, inibendo la libertà di espressione e di aggregazione: non sono rari i casi di autocensura da parte di chi, seppur mosso da intenti etici, preferisce mortificanti silenzi per non incappare nell’infamante taccia di antisemita.

La definizione IHRA in questione recita che l’antisemitismo “è una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa come odio nei loro confronti”. A supporto di questa descrizione oggettivamente carente sul piano della nitidezza, IHRA ha prodotto una serie di esempi tutelanti qualsiasi iniziativa messa in atto dallo Stato di Israele.

Con l’espansione internazionale dell’adozione di tale definizione, libertà di espressione e critica all’operato politico e militare di Israele risultano potentemente ostacolate. Attività di inchiesta e cronaca, di ricerca storica, politica e giuridica, di un veritiero resoconto sui crimini umanitari e di guerra compiuti dall’occupazione nei Territori Palestinesi sono quotidianamente oggetto di violente e pretestuose campagne stigmatizzanti un presunto carattere antisemita.

In un quadro già così complicato nel poter far luce sui fatti di Palestina, non giova alla prospettiva di una libera e corretta informazione la sottoscrizione del documento IHRA da parte del nostrano Ordine dei giornalisti, iniziativa questa quanto meno discutibile, siglata nell’ambito di un evento organizzato dall’Ambasciata israeliana in Italia il 20 giugno a Roma.

Va detto che l’Italia ha da qualche anno adottato la definizione IHRA e anzi, attraverso il Coordinatore Nazionale per la lotta contro l’antisemitismo istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri nel gennaio 2020, ha emesso un documento di Strategia nazionale contro l’antisemitismo e delle linee guida sulla formazione scolastica poggianti sugli intendimenti più restrittivi e coercitivi promossi nella definizione IHRA.

Secondo Giovanni Fassina, direttore dell’ELSC, “è tempo che la Commissione europea riconosca e affronti il fatto che le politiche promosse e attuate in aderenza alla definizione dell’IHRA, sia da parte dell’Unione Europea che degli Stati membri, siano pesantemente dannose per i diritti fondamentali e incoraggiano il razzismo antipalestinese”. 

Insomma, un tema incandescente che con l’aiuto del professor Nicola Perugini, docente di Politiche internazionali all’Università di Edimburgo in Gran Bretagna, proviamo ad approfondire.

Partiamo dalla definizione operativa IHRA che, nella sua interezza, afferma “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”. Cosa, in prima battuta, è rilevante commentare a riguardo?

Quel “certa percezione” è il problema di partenza della definizione di antisemitismo IHRA. Siamo al cospetto di un enunciato che si struttura con una precisa scelta politica di vaghezza. “Una certa percezione”, infatti, è quanto di più vago ci possa essere per un fenomeno che ha invece precisi connotati riconducibili all’odio razziale. E, invece, una simile definizione crea immediata confusione. Già leggendo la prima riga della definizione IHRA ci si rende conto di maneggiare uno strumento molto malleabile in termini non solo di definizione in sé, ma anche per la sua prerogativa di tradursi in un chiaro riferimento a valenza politica e legale con buona pace di chi formalmente sostiene che non si tratti di un documento legale ma soltanto di una semplice definizione.

Cosa ispira il documento IHRA? Quali sono le sue radici, da dove si origina?

IHRA è un’alleanza politica in cui gli Stati aderenti hanno rilevante peso; essa è un organismo storicamente consolidatosi attorno a pressioni politiche israeliane o filoisraeliane. La definizione operativa IHRA di antisemitismo compie i primi passi negli Stati Uniti a opera di gruppi di pressione filoisraeliani che intorno al 2005-6 cominciano a concentrarsi sul concetto di new antisemitism. Ma cosa è, in fondo, questo nuovo antisemitismo? Altro non è che l’antisionismo. Quindi, secondo lo spirito del contesto in cui matura, il nuovo antisemitismo è in pratica odio verso Israele. È lì, nel quadro di influenze pro-Israele che affondano le radici della definizione IHRA.

Una siffatta definizione di antisemitismo alimenta un clima di negazionismo dell’operato illecito attuato da politiche sioniste. Vi è però anche un crescente dissenso verso questi orientamenti e il rapporto dell’ELSC si segnala in particolar modo in questo panorama.

Non ho dubbi sul fatto che quello dell’ESLC rappresenti il rapporto più avanzato che dimostra come la definizione IHRA si traduca in violazioni dei diritti umani. È altresì importante ricordare che Tendayi Achiume, relatrice speciale Onu sul razzismo, aveva pubblicato nell’ottobre 2022 un report in cui precisava come la definizione IHRA costituisca rischio di violazione dei diritti umani fondamentali. ELSC, dal suo canto, è da tempo impegnato nella raccolta di informazioni e prove di tali violazioni. Il recente report è un documento fondamentale che dimostra su scala europea l’entità e la diffusione del problema. Ho potuto personalmente collaborare con ELSC riguardo ad alcuni casi: posso dire con cognizione di causa che per l’estensione del report si è fatto ricorso a una parte minima del loro enorme database di casi di violazioni dei diritti umani.

Ritornando alla questione della valenza legale della definizione operativa IHRA, ho ascoltato la registrazione di un recente intervento della giornalista Fiamma Nirenstein che senza infingimenti ha dichiarato spavalda l’essenza legale dello strumento. Salvo poi, nell’ambito dello stesso evento in cui ha preso parola, essere emendata dalla rituale formulazione espressa da Luigi Maccotta, capo delegazione italiano all’IHRA, costretto a  precisare che la definizione IHRA non è giuridicamente vincolante…

Ma di fatto lo diventa. Desidero a tal proposito fare l’esempio che più mi è vicino: l’IHRA è stata adottata dalle università britanniche a partire dal 2019 a seguito di un’iniziativa dell’allora ministro dell’Educazione Gavin Williamson che, scrivendo direttamente agli atenei, minacciò un consistente taglio di fondi se non avessero adottato la definizione IHRA. Insomma, un vero e proprio ricatto. Da quel momento, si è registrata un’impennata di adozioni dell’IHRA da parte delle università britanniche e, seppur nominalmente priva di valenza giuridica, la definizione IHRA è sempre centrale nel dar via a procedimenti legali per antisemitismo.

Quali pene, restrizioni o anche ritorsioni sono inflitte a coloro che nel panorama accademico non siano risultati in linea con i toni della definizione IHRA?

Parliamo di persone che perdono il lavoro o che subiscono tagli economici e annullamenti di contratti o a cui viene inibita carriera accademica. Vala la pena di ricordare il caso di Shahd Abusalama, docente proveniente da Gaza che, diffamata da stampa e gruppi israeliani, venne sospesa dall’insegnamento alla Sheffield University il giorno precedente la sua prima lezione di docenza salvo poi essere riammessa in ruolo solo a seguito di una potente protesta internazionale. O anche tutti i numerosi casi documentati sul sito della British Society for Midldle Eastern Studies (Brismes) con le evidenze messe a fuoco dal suo Committee on Academic Freedom: si fa riferimento a casi di licenziamento, pressioni di vario genere, inviti annullati. A Glasgow, per esempio, a Somdeep Sen, che doveva presentare il suo libro Decolonising Palestine (tradotto in Italia da Meltemi), venne richiesto di inviare preventivamente le slide da presentare e garantire che la presentazione non violasse le definizioni di IHRA. Ecco, la definizione operativa IHRA non è più uno strumento di definizione di un problema, è uno strumento attraverso cui organizzazioni fedeli alla politica di Israele progettano insieme con gruppi di studenti quelle proteste che aprono la strada ad azioni disciplinari di varia intensità, dalla sola minaccia fino alla perdita di lavoro per il malcapitato. Insomma, uno strumento politico che si occupa di contenuti così importanti riguardanti la discriminazione razziale non può non avere ripercussioni legali. Lo sforzo per farlo passare come giuridicamente rilevante è un segreto di Pulcinella.

Nel documento IHRA, viene declinata una serie di esempi di antisemitismo. Colpisce che una buona parte riguardano proprio comportamenti coinvolgenti lo Stato di Israele. Cosa si può dire a riguardo?

Alcuni esempi hanno a che fare con casistiche effettivamente reali di antisemitismo. Se, ad esempio, critico Israele ricorrendo a stereotipi antisemiti, “razzializzando” Israele, è chiaro che mi trovo in una posizione antisemita. Al contrario, se mi trovo in una classe a spiegare un libro che in maniera storicamente accertata dimostra come il momento fondativo stesso dell’entità statale si sia articolato dentro una logica di discriminazione razziale e di pulizia etnica, rientriamo in uno degli esempi citati da IHRA per cui non è lecito affermare che Israele è frutto di un’impresa razzista. Sappiamo invece che è uno Stato che si fonda sull’espulsione di 750mila persone e su quella che storici israeliani, palestinesi, internazionali hanno definito un’opera di pulizia etnica: è difficile quindi non invocare la questione del razzismo. L’esempio IHRA dunque va a silenziare qualsiasi dibattito critico sulle pratiche di pulizia etnica iniziate nel 1947 e continuate sino ai nostri giorni. Sono di questi giorni, infatti, i pogrom contro palestinesi asserragliati nelle loro case, in villaggi distrutti dal fuoco appiccato da coloni devastatori e criminali. E non sono io a dire che si tratta di pogrom, lo afferma lo stesso esercito di occupazione israeliano che assiste poi complice a tali pratiche sanguinarie.

Quale altro, controverso esempio IHRA ritiene utile ricordare?

L’altro esempio volutamente molto scivoloso, vago è quello dei cosiddetti “doppi standard”. È l’esempio a cui si fa volentieri ricorso essendo quello più citato e utilizzato per contrastare i contenuti di documenti che denunciano la condotta di apartheid adottata da Israele. Cioè a dire, in assenza di altri Stati accusati di apartheid, non può tale accusa essere unicamente indirizzata allo Stato di Israele perché verrebbe a configurarsi una categoria punitiva ad hoc solo contro Israele e dunque con un chiaro approccio antisemita. Un’assurdità.

Insomma, un documento con così ampie ricadute globali sociali, culturali, giuridiche e politiche che sembra una sorta di serbatoio di interessi di parte.

Quando si struttura un documento vago qualcosa la si azzecca: bisogna infatti riconoscere che ci sono forme di critica a Israele che possono trasformarsi e articolarsi come antisemitismo, come odio antiebraico. E questo investe qualsiasi organizzazione politica: non esistono formazioni politiche esenti da forme di razzismo. Però è chiaro che intento e sviluppo degli esempi redatti da IHRA costituiscono un percorso repressivo, di silenziamento che va a colpire i singoli individui fino alla perdita del lavoro specie poi in contesti come quello accademico dove dovrebbe regnare libertà di espressione e di dibattito.

Anche lei deve confrontarsi con la coltre inibente e sorvegliante dei contenuti IHRA

Sì, è vero. Ogni volta che, ad esempio, preparo una lezione sulla Palestina, volente o nolente, mi trovo costantemente a confrontarmici: gli esempi più problematici dell’IHRA, in qualche modo, li interiorizzi e li consideri. Sono dunque sensibile alla cosa, ma cerco di gestirla e alla fine prevalgono valori di dignità e onestà professionale e intellettuale trasgredendo quanto iniettato dalla definizione IHRA.

È mai stato accusato di antisemitismo?

No, almeno per adesso. Non escludo che possa però accadere con il consolidamento progressivo di IHRA a cui si sta assistendo.

C’è da ricordare, però, che gli Stati Uniti hanno da poco diffuso un documento strategico di contrasto all’antisemitismo in cui l’amministrazione Biden-Harris, confermando l’adozione della definizione IHRA, assorbe i contenuti della definizione Nexus con lo scopo di maggior chiarezza e minore impatto sulla libertà di critica a Israele. Oltre a Nexus, è importante ricordare la Jerusalem Declaration on Antisemitism, in cosa differiscono questi due documenti dalla definizione IHRA?

Si tratta di documenti redatti da studiosi che hanno percepito il rischio fondamentale di violazione delle libertà basilari e dell’espressione critica insite nella definizione IHRA. Anche se in misura diversa, Nexus infatti lo fa parzialmente, allargando i margini di critica legittima a Israele e le sue politiche di violazione dei diritti umani, di spossessamento dei palestinesi. La Jerusalem Declaration affronta il tema in modo più ampio e va a definire tutta una serie di circostanze in cui esprimendo critiche verso Israele non ci si trova automaticamente in una fattispecie di antisemitismo. Questi documenti, va detto, non sono immuni da critiche: ad esempio, esponenti palestinesi lamentano di non aver contribuito alla Jerusalem Declaration perché si tratta di un documento che, prevedendo una serie di giustificazioni, non fa altro che rinsaldare un quadro problematico di legame tra difesa dei diritti palestinesi e antisemitismo. Il dibattito di fondo è sulla reale necessità di disporre di una definizione ad hoc di antisemitismo essendo esso parte di una questione più ampia delle lotte antirazziste per le quali andrebbe ricercato un significativo minimo comun denominatore piuttosto che plurimi codici che definiscono singole lotte antirazziste. In sintesi, è vero che ci sono altre definizioni di antisemitismo che vanno a tamponare la problematicità introdotta dalla definizione IHRA, ma è anche molto aperto il dibattito se le definizioni di antisemitismo nel loro insieme debbano o meno sussistere.

Quali elementi di novità introduce la nuova strategia Usa contro l’antisemitismo?

L’amministrazione degli Usa dichiara l’adozione della definizione soltanto una volta lungo l’intero testo strategico. “IHRA embraced” è menzionato in una sola circostanza accompagnato dalla precisazione che si tratta di un documento senza valore legale. Si tratta quindi di un “embrace” molto freddo. In ogni caso, gli Usa recepiscono poi i contenuti Nexus e non quelli della Jerusalem Declaration perché, come accennato, sono più apertamente critici verso le definizione IHRA. Incorporando i concetti Nexus, un minimo di tutela in più viene offerta a chi voglia esprimere analisi critiche nei confronti dello Stato di Israele. D’altra parte, Biden tiene conto del fatto che negli Usa vi è in crescita un mondo dell’ebraismo che non ama associarsi incondizionatamente alle politiche israeliane. Sia chiaro però che il documento strategico non riporta contenuti in cui antisionismo o comunque la critica del sionismo vengano chiaramente difese e tollerate.

Antisemitismo equiparato ad antisionismo e critica al sionismo: è questo il campo di battaglia affrontato dalle definizioni.

Non esiste soltanto lo scontro tra il campo pro-palestinese e quello pro-israeliano. C’è un tentativo di proteggere il sionismo come ideologia e quindi di non permettere nessuno scrutinio delle componenti razziste, colonialiste e imperialiste del sionismo. Quindi la questione IHRA si inserisce dentro un discorso di rimozione di memoria storica e del presente perché il sionismo nelle sue forme razziste e colonialiste è tuttora vivo. Si cerca cioè di andare a soffocare qualsiasi possibilità di equiparare il sionismo a forme di razzismo.

In Italia, sembra essere recepito lo spirito più repressivo della critica al sionismo che IHRA sottende…

In Italia, a dire il vero, non c’è intenso dibattito sulla questione. Se si va a indagare, però, si scopre che i governi italiani succedutisi in questi ultimi anni hanno adottato la definizione IHRA e anche in modo incisivo. Nei documenti ufficiali definiscono antisemita il tentativo di configurare il sionismo come movimento caratterizzato da componenti razziste, colonialiste e imperialiste. Se si considerano, ad esempio, le Linee Guida sul contrasto all’antisemitismo diramate dal Ministero dell’Istruzione, v’è esplicito riferimento a tale impostazione: è il cuore di quelle linee guida che si riflettono poi nell’impossibilità di insegnare il sionismo analizzandolo dal punto di vista palestinese. In tutto questo sforzo aggressivo di cancellazione della memoria storica viene di fatto destituita la possibilità di capire come i palestinesi abbiano esperito il sionismo tanto nelle forme più estremiste e protofasciste che in quelle più liberali. Per i palestinesi, infatti, il sionismo è uno spossessamento in atto da quasi un secolo. I documenti italiani sono perciò tra i più espliciti nel prevenire la critica al sionismo e stanno venendo introdotti ampiamente ai vari livelli istituzionali e nei programmi di formazione scolastica.

Il nostro attuale ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, evocando alcuni passaggi della sua vita professionale, non ha fatto mistero di sentirsi orgoglioso di esser stato definito “filosionista”.

Dobbiamo però andare più indietro rispetto ai tempi attuali. Questa battaglia a tutela del sionismo va inscritta nell’azione di macromovimenti politico-culturali come quelli del 2005 negli Usa con la definizione di new antisemitism dell’American Jewish Committee che poi ha dato vita a IHRA. Ebbene, quel discorso fece già breccia in Italia, prima ancora di sedurre i fascisti. C’è stato un blocco culturale che in Italia ha lavorato per anni all’equiparazione tra antisemitismo e antisionismo. Basta riferirsi a esplicite citazioni contenute nei discorsi dell’allora presidente Napolitano. O anche ricordare un episodio in cui io stesso ebbi a contrastare Furio Colombo che, intervenendo nel 2006 alla festa dell’Unità di Pesaro, paragonò la nascita di Israele alla presa di Porta Pia configurando il sionismo come sano risorgimento, sano nazionalismo. Negare il rapporto tra imperialismo e sionismo è negazionismo storico, lo dico qui dall’università dove insegno e dove per 40 anni fu rettore Arthur James Balfour.

In tutto ciò, si registra un acuirsi delle politiche e comportamenti sionisti e di spossessamento palestinese da parte dell’attuale governo israeliano a guida Netanyahu. Quali considerazioni sente di poter fare?

In Israele è stato eletto un governo di estrema destra che porta avanti una riforma del settore giudiziario che va a rafforzare il potere politico. La risposta delle organizzazioni più progressiste, di centrosinistra e di una parte delle componenti di destra liberale è stata quella di forte opposizione a qualsiasi modifica del sistema giudiziario, mantenendo lo status quo. Questa protesta che invade da mesi piazze e strade di Tel Aviv è stata riportata dai media occidentali come sintomo di democrazia vibrante. Per i palestinesi, la cosa ha praticamente nullo e triste significato: il mantenimento dello status quo significa continuità operativa di un settore giudiziario che storicamente, dalla Corte suprema fino alle corti minori, non ha fatto altro che apporre un timbro certificativo alle politiche di spossessamento delle terre palestinesi. Quindi, in Israele vi è uno scontro in atto tra una destra radicale di sionismo estremo con un fronte liberale e moderato che comunque sionista è. Nonostante i numerosi report di denuncia, nessuna fazione politica contempla il tema dell’apartheid attuato da un intero sistema politico e legale a danno dei palestinesi. Il tema dell’apartheid è escluso dal dibattito parlamentare in Israele: è chiaro che poi la protervia coloniale e occupazionista si consolidi con importanti dicasteri presieduti da persone come Smotrich, che non ha difficoltà a definirsi fascista e a legittimare i pogrom colonialisti fino a incitarli nel loro obiettivo di incendiare, radere al suolo villaggi palestinesi.



L’intervista di Pas Liguori è uscita anche su Dinamopress

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