Jenin, l'equidistanza dei "sempre buoni" - Patrizia Cecconi
Un quarantenne pedofilo, ricco, atletico, palestrato è stato condannato per violenza dopo numerosi abusi su un bimbo di 4 anni. Condannato per violenza anche il bambino il quale, per difendersi, ha morso e graffiato a sangue il suo violentatore.
Una notizia
simile porta a chiedersi se chi ha condannato il piccolo al pari del suo
aggressore sia sano di mente, oppure se non sia un sostenitore del
pedofilo al quale la condanna del bambino offre una sorta di attenuante o
se, più semplicemente, la condanna “equidistante” non sia dettata dal timore di
una querela per odio di classe, o magari di religione - che di questi
tempi ci sta bene – da parte del ricco e potente pedofilo.
Se al posto
del ricco violentatore poniamo il governo, o meglio i governi israeliani
e l’esercito che devasta, uccide, arresta, terrorizza il popolo sotto
occupazione eseguendo ordini criminali, e al posto del bambino poniamo la
resistenza palestinese, resta da chiedersi come si fa a scrivere che “condanniamo
l’ennesima operazione militare israeliana in Cisgiordania, nel campo profughi
di Jenin, come condanniamo l’uso della violenza da parte palestinese” come
si legge nell’appello promosso dalla Rete italiana pace e disarmo e firmato da molte
associazioni, generalmente attente alle violenze quasi secolari subite dal
popolo palestinese per mano del terrorismo, ebraico prima della proclamazione
dello Stato di Israele, e del terrorismo israeliano dal 14 maggio del 1948.
Il
documento, presentato da una testata on line come appello “contro la
violenza e per la pace” è uno dei più fulgidi esempi di (supponiamo
involontario) sostegno allo Stato di Israele che, se non si temesse la
strumentalizzazione della verità, si potrebbe tranquillamente definire Stato
canaglia secondo gli stessi parametri che hanno attribuito tale definizione ad
altri Stati aggressori e violatori dei diritti umani e del diritto
internazionale.
Entriamo nel
merito del documento che, dopo l’incipit di condanna “equidistante”, ricorda “quanto
sta accadendo in questi giorni a Jenin” dimenticando (forse?) che da
gennaio ad oggi, quindi solo in questi ultimi sei mesi, Israele ha ucciso quasi
200 palestinesi, bambini compresi; ha bombardato e distrutto case, scuole,
strade, ospedali; ha ferito circa 1.500 persone; ha arrestato migliaia di
palestinesi senza altro motivo che quello di tacitare il loro diritto di
rivendicare la libertà. Parliamo solo degli ultimi sei mesi, ma è sufficiente
per porre Israele in concorrenza con quegli Stati totalitari ai quali, in nome
del nostro essere democratici, chiediamo il rispetto dei diritti umani.
Da bravi
italiani siamo abituati alle notizie di cronaca nera relative alle faide di
mafia, camorra e simili che insanguinano le strade della nostra terra e non
sarebbe molto carino sostenere che “poco conta” se le proporzioni di morti tra
i clan malavitosi sono diverse, invece l’appello in esame scrive di “una
sequela di vendette e di lutti che da decenni colpisce entrambe le popolazioni,
anche se con proporzioni diverse, ma poco conta…” per proseguire
con un generico richiamo alla necessità che la Comunità internazionale fermi
questo stillicidio di vite riaffermando il diritto del popolo palestinese ad
avere un proprio Stato sui confini del 5 giugno 1967. Si badi bene che quei
confini (peraltro senza tener conto della necessità, probabilmente impossibile,
di smantellare le illegali colonie che si sono appropriate di quasi tutti i
Territori sotto occupazione) non sono quelli fissati dalla sbandierata e mai
rispettata Risoluzione 181 che intendeva dividere la Palestina storica in
due Stati (56% a Israele, 43,6% Palestina e 0,4% luoghi sacri sotto tutela
internazionale) perché - e ci sembra importante ricordarlo - la citata
Risoluzione ONU, avversata dagli arabi come tutti sanno, non è mai
stata accolta da Israele, come invece in pochi sanno, e infatti Israele si è
appropriato del 78% della Palestina storica lasciandone ai Palestinesi solo
il 22% che poi, nel 1967, avrebbe militarmente occupato e gradualmente
colonizzato nel più totale disprezzo del diritto internazionale.
I redattori
e i firmatari dell’appello conoscono bene quanto appena precisato e quindi, ci
chiediamo, perché tanto negligente pressappochismo?
Forse per sentirsi a posto con la propria coscienza era necessario appellarsi
alla trita richiesta dei due popoli/due Stati come se il riconoscimento
simbolico di uno Stato privo di sovranità statuale e conseguenti diritti fosse
la soluzione del problema e la fine delle violenze? O forse perché questo, come
scritto nell’appello, sarebbe “il miglior investimento anche per il popolo
israeliano per uscire dal ricatto della sicurezza nazionale”?
E allora ecco la bella chiusa del documento con la richiesta a Parlamento e
Governo italiani di “mandare un segnale di pacificazione dando corso
al riconoscimento dello Stato di Palestina”.
Gli ultimi
circa 200 martiri palestinesi - certamente violenti come il bimbo di 4 anni
della metafora - chiedevano la fine dell’occupazione (illegale, ricordiamolo!)
e il diritto del loro popolo all’autodeterminazione. Chiedevano il rispetto di
un diritto riconosciuto e sostenuto dalla legalità internazionale e sono stati
uccisi. Uccisi non perché terroristi come la volgarità dei media mainstream e
dei nostri inviati televisivi (v. Gianniti) li definisce, ma perché si
opponevano attivamente al giogo dell’occupazione militare, alla colonizzazione,
all’apartheid e, quindi, al progetto Israeliano di annessione territoriale.
Nel corso di
questi decenni i palestinesi che non si sono arresi e non hanno seguito le
sirene dell’occidente hanno adottato diverse forme di lotta per rivendicare i
loro vilipesi diritti. Hanno avuto la fase della lotta armata e sono stati
schiacciati dalla potenza israeliana coadiuvata dalle complicità occidentali.
Hanno avuto la fase della lotta nonviolenta e sono stati ugualmente sterminati.
Stesse complicità occidentali, stesse connivenze mediatiche. Qualche voce
istituzionale si è alzata, riabbassandosi subito dopo “un’ eroica” quanto
inutile vibrata protesta. In tutto questo, i militari palestinesi non
hanno voce in capitolo se non per arrestare i resistenti attivi collaborando
(in nome dei famigerati accordi di Oslo) con la sicurezza israeliana.
Ma qualcosa sta cambiando, infatti tra i martiri, assassinati dagli israeliani,
ultimamente sembra si annoveri anche qualche militare dell’Anp che ha capito da
quale parte stare. Ci sarà emulazione? L’Anp prenderà una posizione attiva al
di là delle denunce verbali? Il martire è un testimone, questo i
palestinesi lo sanno e lo rivendicano, e i testimoni portano all’effetto
domino. La storia ce lo insegna e Israele lo temeva e lo teme perché questo
rallenta il suo progetto. Un progetto di cui solo chi è ingenuo o in
malafede può limitarsi ad accusare soltanto il governo fascista attuale, perché
è lo stesso progetto del socialista Ben Gurion o della socialista Golda Meir le
cui mani grondano di sangue palestinese non meno di quelle dei fascisti
Netanyahu o Smotrich o Ben Gvir. Il piano, strategico illegale e criminale, è
quello dell’annessione di tutta la Palestina lasciando, tutt’al più, delle
“riserve” in cui rinchiudere i palestinesi che non avranno lasciato la loro
terra. Non sono nostre illazioni ma fatti comprovati dai documenti
desecrati che formano l’ossatura di alcuni volumi dello storico ebreo israeliano
Ilan Pappé.
Davanti a
tutto ciò, che è solo una parziale sintesi della ben più drammatica realtà,
suona – sebbene involontariamente – ingiurioso chiedere “pace giusta”
attraverso la nonviolenza del popolo sotto occupazione militare e coloniale.
Citando
Franz Fanon, che di colonialismo purtroppo se ne intendeva, nei momenti
decisivi, quelli in cui il colonialismo sembra vacillare, si introduce la
nozione della nonviolenza come pratica richiesta all’oppresso e non certo,
ovviamente, all’oppressore. “La nonviolenza – scrive Fanon ne ‘I
dannati della terra’ – è un tentativo di risolvere il problema
coloniale attorno a un tappeto verde… ma se le masse, senza aspettare che le
sedie siano disposte attorno al tappeto verde, non ascoltano più che la propria
voce e cominciano gli attentati…” allora si vedono “i buoni amici”
correre alla ricerca di un compromesso prendendo le distanze dalla violenza
degli oppressi.
Concludiamo,
mentre arrivano dalla Palestina – non certo attraverso i media mainstream –
notizie di nuovi arbitrari arresti e sapendo che la lista dei martiri si
allungherà. Concludiamo, dunque, riflettendo su un principio molto semplice, un
principio al quale dovrebbe attenersi anche il giornalismo onesto, e cioè che
la solidarietà autentica verso una comunità, un popolo, o uno Stato aggredito
esige rispetto. Rispetto per il diritto di quel popolo all’autodeterminazione
e, contemporaneamente, esige il riconoscimento della violenza originaria,
perché è quella che va condannata, altrimenti non si fa informazione onesta ma
servile, sia che si tratti di favorire il ricco pedofilo sia che ci si prostri
a servizio di uno Stato canaglia.
Jenin
e il velo strappato dell’ipocrisia - Pasquale
Liguori
Ogni giorno, da troppi
decenni, i palestinesi sono calpestati dalla vile pressione dell’occupazione
militare, umiliati da crimini e dall’apartheid loro imposta da Israele,
indifferente alle numerose risoluzioni di condanna Onu e non ottemperante alle
norme di diritto internazionale e penale.
Di tanto in tanto,
quando proprio non può esser più nascosta la portata sanguinaria dei crimini
giunti al picco del loro luttuoso bilancio, i media mainstream sono costretti a
far cronaca. E allora si scosta appena un po’ il velo ipocrita che abitualmente
tace di quel torrente quotidiano di sangue, soprusi e illeciti che scorre
impetuoso su quelle terre vessate. Spesso lo si fa, però, con aumentata
ipocrisia inneggiante alle gesta dell’unica democrazia in Medio Oriente
(Israele che, per il linguaggio in voga, è invece l’aggressore) che si oppone a
fazioni terroriste (invero, i palestinesi aggrediti che resistono).
In questa proposta
rovesciata dei fatti, se confrontata a quanto gli stessi media diffondono circa
gli eventi in Ucraina, si narra dunque di un’azione militare preventiva
condotta nella Cisgiordania settentrionale, a Jenin, diretta a neutralizzare un
manipolo di terroristi asserragliati in un campo profughi. Si è trattato invece di un’ingente e cruenta
operazione come non si registrava da anni contro la già super-affollata e
disagiata comunità di palestinesi in passato spossessati delle loro terre e dei
loro averi e, di nuovo, vittime oggi di una furia devastatrice e genocida da
parte dell’esercito di occupazione israeliano.
Il bilancio: almeno 12 morti, circa 4mila sfollati,
strade divelte, reti idriche ed elettriche compromesse a fronte della cattura
di qualche cesto di petardi e alcune bombole di gas.
Privi del sostegno di
un organismo di riferimento quale dovrebbe essere l’Autorità palestinese, vista
peraltro come ente inetto e persino collaborazionista col regime israeliano, i
giovani del luogo provano a resistere contro un futuro che per loro si
preannuncia oscuro, se non funesto.
In un quadro così
deplorevole di dolore e ingiustizie appare utile dar
voce alla denuncia ufficiale a riguardo esposta da alcune Relatrici speciali
delle Nazioni Unite e diramata attraverso un comunicato stampa di
seguito riportato e tradotto alla lettera.
Esperti ONU*: gli attacchi aerei israeliani e le operazioni di
terra a Jenin potrebbero costituire un crimine di guerra.
GINEVRA (5
luglio 2023). Gli attacchi aerei e le operazioni di terra condotte da Israele
nella Cisgiordania occupata che hanno preso di mira il campo profughi di Jenin
uccidendo almeno 12 palestinesi, potrebbero prima
facie costituire crimine di guerra, hanno oggi dichiarato le
Relatrici delle Nazioni Unite.
“Le operazioni delle forze militari israeliane
nella Cisgiordania occupata, con uccisioni e ferimenti gravi della popolazione
occupata, con la distruzione delle loro abitazioni e delle infrastrutture e con
lo sfollamento arbitrario di migliaia di persone, costituiscono gravi
violazioni del diritto internazionale e degli standard sull’uso della forza
potendo configurarsi come crimine di guerra“, hanno affermato.
Tra il 3 e il 4 luglio, le forze israeliane hanno ucciso
almeno 12 palestinesi, tra cui cinque bambini, e ne hanno feriti più di 100, in
una delle più grandi operazioni militari israeliane degli ultimi anni nella
Cisgiordania occupata. Gli
attacchi hanno costretto alla fuga migliaia di palestinesi e hanno danneggiato
infrastrutture, case e condomini.
“Gli attacchi sono
stati i più feroci in Cisgiordania sin dalla distruzione del campo di Jenin
avvenuta nel 2002”, hanno dichiarato le Relatrici Onu che hanno poi ricordato
le numerose segnalazioni di ambulanze a cui è stato impedito di entrare nel
campo profughi di Jenin per evacuare i feriti, ostacolando il loro accesso alle
cure mediche del caso.
È stato riportato che circa 4.000 palestinesi sono
fuggiti dal campo profughi di Jenin nella notte tra lunedì e martedì, a seguito
degli attacchi aerei mortali.
“È straziante vedere migliaia di rifugiati
palestinesi, già in origine sfollati dagli anni 1947-1949, costretti a uscire
dal campo in preda alla paura nel cuore della notte”, hanno dichiarato
le Relatrici.
Stigmatizzando le
cosiddette operazioni “antiterrorismo” condotte dalle forze israeliane, gli
esperti hanno altresì affermato che gli attacchi non trovano alcuna
giustificazione sul piano del diritto internazionale.
“Tali attacchi
rappresentano una punizione collettiva della popolazione palestinese che viene
etichettata quale “minaccia alla sicurezza collettiva”, secondo il punto di
vista delle autorità israeliana”, hanno dichiarato.
Le esperte Onu hanno espresso inoltre grave
preoccupazione per la tipologia di armi e le tattiche militari impiegate dalle
forze di occupazione israeliane contro la popolazione di Jenin in almeno due
occasioni nelle ultime due settimane.
“I palestinesi nel
Territorio palestinese occupato sono persone protette dalla giurisdizione
internazionale, garantite da tutti i diritti umani, compresa la presunzione di
innocenza”, hanno dichiarato le Relatrici. “Non possono essere trattati come
una minaccia collettiva alla sicurezza da parte della Potenza occupante, tanto
più mentre questa porta avanti l’annessione della terra palestinese occupata e
l’espropriazione e lo sfollamento dei palestinesi ivi residenti”.
Le esperte hanno quindi
sottolineato che le operazioni di Israele a Jenin sono un’amplificazione della
violenza strutturale che permea i territori palestinesi occupati da decenni.
“L’impunità di cui
Israele ha goduto per decenni per i suoi atti di violenza non fa che alimentare
e intensificare il ciclo ricorrente di violenza”, hanno dichiarato.
Le Relatrici Onu
chiedono che Israele sia chiamato a rispondere, secondo quanto previsto dal
diritto internazionale, della sua occupazione illegale e degli atti di violenza
che la perpetuano. “Per porre fine a
questa violenza incessante, l’occupazione illegale di Israele deve terminare.
Non può essere corretta o marginalmente migliorata, perché è sbagliata fino al
midollo“, hanno infine dichiarato.
* Francesca Albanese, Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani
nei Territori palestinesi occupati dal 1967; Paula Gaviria
Betancur, Relatrice
speciale sui diritti umani degli sfollati, Reem Alsalem, Relatrice speciale sulla violenza contro donne e
ragazze.
Il comunicato originale
è qui reperibile https://www.ohchr.org/en/press-releases/2023/07/israeli-air-strikes-and-ground-operations-jenin-may-constitute-war-crime-un
L’antisemitismo come pretesto - Pasquale
Liguori
Reprimere la rivendicazione dei diritti palestinesi mediante la definizione operativa di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) è il tema affrontato dal rapporto pubblicato il 6 giugno a cura dell’European Legal Support Center-Centro europeo con base ad Amsterdam, impegnato nel supporto legale in difesa del movimento di solidarietà con il popolo palestinese.
Il documento riferisce di oltre cinquanta casi di violazione dei diritti
umani accaduti in Paesi europei nel quinquennio 2017-22 riguardanti persone
sostenitrici dei diritti dei palestinesi o critiche verso la politica sionista
di Israele. Tutte raggiunte dall’accusa di antisemitismo secondo gli schemi
prospettati dalla definizione IHRA.
All’IHRA aderiscono 35 Stati con l’obiettivo di combattere il negazionismo
dell’Olocausto e l’antisemitismo. Seppur promossa come non giuridicamente
vincolante, la definizione operativa IHRA di antisemitismo è sempre più
utilizzata in numerosi contesti istituzionali assumendo evidente valenza
legale, inibendo la libertà di espressione e di aggregazione: non sono rari i
casi di autocensura da parte di chi, seppur mosso da intenti etici, preferisce
mortificanti silenzi per non incappare nell’infamante taccia di antisemita.
La definizione IHRA in questione recita che l’antisemitismo “è una certa
percezione degli ebrei, che può essere espressa come odio nei loro confronti”.
A supporto di questa descrizione oggettivamente carente sul piano della
nitidezza, IHRA ha prodotto una serie di esempi tutelanti qualsiasi iniziativa
messa in atto dallo Stato di Israele.
Con l’espansione internazionale dell’adozione di tale definizione, libertà
di espressione e critica all’operato politico e militare di Israele risultano
potentemente ostacolate. Attività di inchiesta e cronaca, di ricerca
storica, politica e giuridica, di un veritiero resoconto sui crimini umanitari
e di guerra compiuti dall’occupazione nei Territori Palestinesi sono
quotidianamente oggetto di violente e pretestuose campagne stigmatizzanti un presunto
carattere antisemita.
In un quadro già così complicato nel poter far luce sui fatti di Palestina,
non giova alla prospettiva di una libera e corretta informazione la
sottoscrizione del documento IHRA da parte del nostrano Ordine dei giornalisti,
iniziativa questa quanto meno discutibile, siglata nell’ambito di un evento
organizzato dall’Ambasciata israeliana in Italia il 20 giugno a Roma.
Va detto che l’Italia ha da qualche anno adottato la definizione
IHRA e anzi, attraverso il Coordinatore Nazionale per la lotta contro
l’antisemitismo istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri nel
gennaio 2020, ha emesso un documento di Strategia nazionale contro
l’antisemitismo e delle linee guida sulla formazione scolastica poggianti sugli
intendimenti più restrittivi e coercitivi promossi nella definizione IHRA.
Secondo Giovanni Fassina, direttore dell’ELSC, “è tempo che la Commissione
europea riconosca e affronti il fatto che le politiche promosse e attuate in
aderenza alla definizione dell’IHRA, sia da parte dell’Unione Europea che degli
Stati membri, siano pesantemente dannose per i diritti fondamentali e
incoraggiano il razzismo antipalestinese”.
Insomma, un tema incandescente che con l’aiuto del professor Nicola
Perugini, docente di Politiche internazionali all’Università di Edimburgo in
Gran Bretagna, proviamo ad approfondire.
Partiamo dalla definizione operativa IHRA che, nella sua interezza, afferma
“L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa
come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono
dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso
istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”. Cosa, in
prima battuta, è rilevante commentare a riguardo?
Quel “certa percezione” è il problema di partenza della definizione di
antisemitismo IHRA. Siamo al cospetto di un enunciato che si struttura con una
precisa scelta politica di vaghezza. “Una certa percezione”, infatti, è quanto
di più vago ci possa essere per un fenomeno che ha invece precisi connotati
riconducibili all’odio razziale. E, invece, una simile definizione crea
immediata confusione. Già leggendo la prima riga della definizione IHRA ci si
rende conto di maneggiare uno strumento molto malleabile in termini non solo di
definizione in sé, ma anche per la sua prerogativa di tradursi in un chiaro
riferimento a valenza politica e legale con buona pace di chi formalmente
sostiene che non si tratti di un documento legale ma soltanto di una semplice
definizione.
Cosa ispira il documento IHRA? Quali sono le sue radici, da dove si
origina?
IHRA è un’alleanza politica in cui gli Stati aderenti hanno rilevante peso;
essa è un organismo storicamente consolidatosi attorno a pressioni politiche
israeliane o filoisraeliane. La definizione operativa IHRA di antisemitismo
compie i primi passi negli Stati Uniti a opera di gruppi di pressione
filoisraeliani che intorno al 2005-6 cominciano a concentrarsi sul concetto
di new antisemitism. Ma cosa è, in fondo, questo nuovo
antisemitismo? Altro non è che l’antisionismo. Quindi, secondo lo spirito del
contesto in cui matura, il nuovo antisemitismo è in pratica odio verso Israele.
È lì, nel quadro di influenze pro-Israele che affondano le radici della
definizione IHRA.
Una siffatta definizione di antisemitismo alimenta un clima di negazionismo
dell’operato illecito attuato da politiche sioniste. Vi è però anche un
crescente dissenso verso questi orientamenti e il rapporto dell’ELSC si segnala
in particolar modo in questo panorama.
Non ho dubbi sul fatto che quello dell’ESLC rappresenti il rapporto più
avanzato che dimostra come la definizione IHRA si traduca in violazioni dei
diritti umani. È altresì importante ricordare che Tendayi Achiume, relatrice
speciale Onu sul razzismo, aveva pubblicato nell’ottobre 2022 un report in cui
precisava come la definizione IHRA costituisca rischio di violazione dei
diritti umani fondamentali. ELSC, dal suo canto, è da tempo impegnato nella
raccolta di informazioni e prove di tali violazioni. Il recente report è un
documento fondamentale che dimostra su scala europea l’entità e la diffusione
del problema. Ho potuto personalmente collaborare con ELSC riguardo ad alcuni
casi: posso dire con cognizione di causa che per l’estensione del report si è
fatto ricorso a una parte minima del loro enorme database di casi di violazioni
dei diritti umani.
Ritornando alla questione della valenza legale della definizione operativa
IHRA, ho ascoltato la registrazione di un recente intervento della giornalista
Fiamma Nirenstein che senza infingimenti ha dichiarato spavalda l’essenza
legale dello strumento. Salvo poi, nell’ambito dello stesso evento in cui ha
preso parola, essere emendata dalla rituale formulazione espressa da Luigi
Maccotta, capo delegazione italiano all’IHRA, costretto a precisare che
la definizione IHRA non è giuridicamente vincolante…
Ma di fatto lo diventa. Desidero a tal proposito fare l’esempio che più mi
è vicino: l’IHRA è stata adottata dalle università britanniche a partire dal
2019 a seguito di un’iniziativa dell’allora ministro dell’Educazione Gavin
Williamson che, scrivendo direttamente agli atenei, minacciò un consistente
taglio di fondi se non avessero adottato la definizione IHRA. Insomma, un vero
e proprio ricatto. Da quel momento, si è registrata un’impennata di adozioni
dell’IHRA da parte delle università britanniche e, seppur nominalmente priva di
valenza giuridica, la definizione IHRA è sempre centrale nel dar via a
procedimenti legali per antisemitismo.
Quali pene, restrizioni o anche ritorsioni sono inflitte a coloro che nel
panorama accademico non siano risultati in linea con i toni della definizione
IHRA?
Parliamo di persone che perdono il lavoro o che subiscono tagli economici e
annullamenti di contratti o a cui viene inibita carriera accademica. Vala la
pena di ricordare il caso di Shahd Abusalama, docente proveniente da Gaza che,
diffamata da stampa e gruppi israeliani, venne sospesa dall’insegnamento alla
Sheffield University il giorno precedente la sua prima lezione di docenza salvo
poi essere riammessa in ruolo solo a seguito di una potente protesta
internazionale. O anche tutti i numerosi casi documentati sul sito della
British Society for Midldle Eastern Studies (Brismes) con le evidenze messe a
fuoco dal suo Committee on Academic Freedom: si fa riferimento a casi di
licenziamento, pressioni di vario genere, inviti annullati. A Glasgow, per
esempio, a Somdeep Sen, che doveva presentare il suo libro Decolonising
Palestine (tradotto in Italia da Meltemi), venne richiesto di inviare
preventivamente le slide da presentare e garantire che la
presentazione non violasse le definizioni di IHRA. Ecco, la definizione
operativa IHRA non è più uno strumento di definizione di un problema, è uno
strumento attraverso cui organizzazioni fedeli alla politica di Israele
progettano insieme con gruppi di studenti quelle proteste che aprono la strada
ad azioni disciplinari di varia intensità, dalla sola minaccia fino alla
perdita di lavoro per il malcapitato. Insomma, uno strumento politico che si
occupa di contenuti così importanti riguardanti la discriminazione razziale non
può non avere ripercussioni legali. Lo sforzo per farlo passare come
giuridicamente rilevante è un segreto di Pulcinella.
Nel documento IHRA, viene declinata una serie di esempi di antisemitismo.
Colpisce che una buona parte riguardano proprio comportamenti coinvolgenti lo
Stato di Israele. Cosa si può dire a riguardo?
Alcuni esempi hanno a che fare con casistiche effettivamente reali di
antisemitismo. Se, ad esempio, critico Israele ricorrendo a stereotipi
antisemiti, “razzializzando” Israele, è chiaro che mi trovo in una posizione
antisemita. Al contrario, se mi trovo in una classe a spiegare un libro che in
maniera storicamente accertata dimostra come il momento fondativo stesso
dell’entità statale si sia articolato dentro una logica di discriminazione
razziale e di pulizia etnica, rientriamo in uno degli esempi citati da IHRA per
cui non è lecito affermare che Israele è frutto di un’impresa razzista.
Sappiamo invece che è uno Stato che si fonda sull’espulsione di 750mila persone
e su quella che storici israeliani, palestinesi, internazionali hanno definito
un’opera di pulizia etnica: è difficile quindi non invocare la questione del
razzismo. L’esempio IHRA dunque va a silenziare qualsiasi dibattito critico
sulle pratiche di pulizia etnica iniziate nel 1947 e continuate sino ai nostri
giorni. Sono di questi giorni, infatti, i pogrom contro palestinesi
asserragliati nelle loro case, in villaggi distrutti dal fuoco appiccato da
coloni devastatori e criminali. E non sono io a dire che si tratta di pogrom,
lo afferma lo stesso esercito di occupazione israeliano che assiste poi
complice a tali pratiche sanguinarie.
Quale altro, controverso esempio IHRA ritiene utile ricordare?
L’altro esempio volutamente molto scivoloso, vago è quello dei cosiddetti
“doppi standard”. È l’esempio a cui si fa volentieri ricorso essendo quello più
citato e utilizzato per contrastare i contenuti di documenti che denunciano la
condotta di apartheid adottata da Israele. Cioè a dire, in assenza di altri
Stati accusati di apartheid, non può tale accusa essere unicamente indirizzata
allo Stato di Israele perché verrebbe a configurarsi una categoria
punitiva ad hoc solo contro Israele e dunque con un chiaro
approccio antisemita. Un’assurdità.
Insomma, un documento con così ampie ricadute globali sociali, culturali,
giuridiche e politiche che sembra una sorta di serbatoio di interessi di parte.
Quando si struttura un documento vago qualcosa la si azzecca: bisogna
infatti riconoscere che ci sono forme di critica a Israele che possono
trasformarsi e articolarsi come antisemitismo, come odio antiebraico. E questo
investe qualsiasi organizzazione politica: non esistono formazioni politiche
esenti da forme di razzismo. Però è chiaro che intento e sviluppo degli esempi
redatti da IHRA costituiscono un percorso repressivo, di silenziamento che va a
colpire i singoli individui fino alla perdita del lavoro specie poi in contesti
come quello accademico dove dovrebbe regnare libertà di espressione e di
dibattito.
Anche lei deve confrontarsi con la coltre inibente e sorvegliante dei
contenuti IHRA
Sì, è vero. Ogni volta che, ad esempio, preparo una lezione sulla
Palestina, volente o nolente, mi trovo costantemente a confrontarmici: gli
esempi più problematici dell’IHRA, in qualche modo, li interiorizzi e li
consideri. Sono dunque sensibile alla cosa, ma cerco di gestirla e alla fine
prevalgono valori di dignità e onestà professionale e intellettuale
trasgredendo quanto iniettato dalla definizione IHRA.
È mai stato accusato di antisemitismo?
No, almeno per adesso. Non escludo che possa però accadere con il
consolidamento progressivo di IHRA a cui si sta assistendo.
C’è da ricordare, però, che gli Stati Uniti hanno da poco diffuso un
documento strategico di contrasto all’antisemitismo in cui l’amministrazione
Biden-Harris, confermando l’adozione della definizione IHRA, assorbe i
contenuti della definizione Nexus con lo scopo di maggior
chiarezza e minore impatto sulla libertà di critica a Israele. Oltre a Nexus,
è importante ricordare la Jerusalem Declaration on Antisemitism, in
cosa differiscono questi due documenti dalla definizione IHRA?
Si tratta di documenti redatti da studiosi che hanno percepito il rischio
fondamentale di violazione delle libertà basilari e dell’espressione critica
insite nella definizione IHRA. Anche se in misura diversa, Nexus infatti
lo fa parzialmente, allargando i margini di critica legittima a Israele e le
sue politiche di violazione dei diritti umani, di spossessamento dei palestinesi.
La Jerusalem Declaration affronta il tema in modo più ampio e
va a definire tutta una serie di circostanze in cui esprimendo critiche verso
Israele non ci si trova automaticamente in una fattispecie di antisemitismo.
Questi documenti, va detto, non sono immuni da critiche: ad esempio, esponenti
palestinesi lamentano di non aver contribuito alla Jerusalem
Declaration perché si tratta di un documento che, prevedendo una serie
di giustificazioni, non fa altro che rinsaldare un quadro problematico di
legame tra difesa dei diritti palestinesi e antisemitismo. Il dibattito di
fondo è sulla reale necessità di disporre di una definizione ad hoc di
antisemitismo essendo esso parte di una questione più ampia delle lotte
antirazziste per le quali andrebbe ricercato un significativo minimo comun
denominatore piuttosto che plurimi codici che definiscono singole lotte
antirazziste. In sintesi, è vero che ci sono altre definizioni di antisemitismo
che vanno a tamponare la problematicità introdotta dalla definizione IHRA, ma è
anche molto aperto il dibattito se le definizioni di antisemitismo nel loro
insieme debbano o meno sussistere.
Quali elementi di novità introduce la nuova strategia Usa contro
l’antisemitismo?
L’amministrazione degli Usa dichiara l’adozione della definizione soltanto
una volta lungo l’intero testo strategico. “IHRA embraced” è menzionato in una
sola circostanza accompagnato dalla precisazione che si tratta di un documento
senza valore legale. Si tratta quindi di un “embrace” molto freddo. In ogni
caso, gli Usa recepiscono poi i contenuti Nexus e non quelli
della Jerusalem Declaration perché, come accennato, sono più
apertamente critici verso le definizione IHRA. Incorporando i concetti Nexus,
un minimo di tutela in più viene offerta a chi voglia esprimere analisi
critiche nei confronti dello Stato di Israele. D’altra parte, Biden tiene conto
del fatto che negli Usa vi è in crescita un mondo dell’ebraismo che non ama
associarsi incondizionatamente alle politiche israeliane. Sia chiaro però che
il documento strategico non riporta contenuti in cui antisionismo o comunque la
critica del sionismo vengano chiaramente difese e tollerate.
Antisemitismo equiparato ad antisionismo e critica al sionismo: è questo il
campo di battaglia affrontato dalle definizioni.
Non esiste soltanto lo scontro tra il campo pro-palestinese e quello
pro-israeliano. C’è un tentativo di proteggere il sionismo come ideologia e
quindi di non permettere nessuno scrutinio delle componenti razziste,
colonialiste e imperialiste del sionismo. Quindi la questione IHRA si inserisce
dentro un discorso di rimozione di memoria storica e del presente perché il
sionismo nelle sue forme razziste e colonialiste è tuttora vivo. Si cerca cioè
di andare a soffocare qualsiasi possibilità di equiparare il sionismo a forme
di razzismo.
In Italia, sembra essere recepito lo spirito più repressivo della critica
al sionismo che IHRA sottende…
In Italia, a dire il vero, non c’è intenso dibattito sulla questione. Se si
va a indagare, però, si scopre che i governi italiani succedutisi in questi
ultimi anni hanno adottato la definizione IHRA e anche in modo incisivo. Nei
documenti ufficiali definiscono antisemita il tentativo di configurare il
sionismo come movimento caratterizzato da componenti razziste, colonialiste e
imperialiste. Se si considerano, ad esempio, le Linee Guida sul contrasto
all’antisemitismo diramate dal Ministero dell’Istruzione, v’è esplicito
riferimento a tale impostazione: è il cuore di quelle linee guida che si
riflettono poi nell’impossibilità di insegnare il sionismo analizzandolo dal
punto di vista palestinese. In tutto questo sforzo aggressivo di cancellazione
della memoria storica viene di fatto destituita la possibilità di capire come i
palestinesi abbiano esperito il sionismo tanto nelle forme più estremiste e
protofasciste che in quelle più liberali. Per i palestinesi, infatti, il
sionismo è uno spossessamento in atto da quasi un secolo. I documenti italiani
sono perciò tra i più espliciti nel prevenire la critica al sionismo e stanno
venendo introdotti ampiamente ai vari livelli istituzionali e nei programmi di
formazione scolastica.
Il nostro attuale ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, evocando
alcuni passaggi della sua vita professionale, non ha fatto mistero di sentirsi
orgoglioso di esser stato definito “filosionista”.
Dobbiamo però andare più indietro rispetto ai tempi attuali. Questa
battaglia a tutela del sionismo va inscritta nell’azione di macromovimenti
politico-culturali come quelli del 2005 negli Usa con la definizione di new
antisemitism dell’American Jewish Committee che poi ha
dato vita a IHRA. Ebbene, quel discorso fece già breccia in Italia, prima
ancora di sedurre i fascisti. C’è stato un blocco culturale che in Italia ha
lavorato per anni all’equiparazione tra antisemitismo e antisionismo. Basta
riferirsi a esplicite citazioni contenute nei discorsi dell’allora presidente
Napolitano. O anche ricordare un episodio in cui io stesso ebbi a contrastare
Furio Colombo che, intervenendo nel 2006 alla festa dell’Unità di Pesaro,
paragonò la nascita di Israele alla presa di Porta Pia configurando il sionismo
come sano risorgimento, sano nazionalismo. Negare il rapporto tra imperialismo
e sionismo è negazionismo storico, lo dico qui dall’università dove insegno e
dove per 40 anni fu rettore Arthur James Balfour.
In tutto ciò, si registra un acuirsi delle politiche e comportamenti
sionisti e di spossessamento palestinese da parte dell’attuale governo
israeliano a guida Netanyahu. Quali considerazioni sente di poter fare?
In Israele è stato eletto un governo di estrema destra che porta avanti una
riforma del settore giudiziario che va a rafforzare il potere politico. La
risposta delle organizzazioni più progressiste, di centrosinistra e di una
parte delle componenti di destra liberale è stata quella di forte opposizione a
qualsiasi modifica del sistema giudiziario, mantenendo lo status quo.
Questa protesta che invade da mesi piazze e strade di Tel Aviv è stata
riportata dai media occidentali come sintomo di democrazia vibrante. Per i
palestinesi, la cosa ha praticamente nullo e triste significato: il
mantenimento dello status quo significa continuità operativa
di un settore giudiziario che storicamente, dalla Corte suprema fino alle corti
minori, non ha fatto altro che apporre un timbro certificativo alle politiche
di spossessamento delle terre palestinesi. Quindi, in Israele vi è uno scontro
in atto tra una destra radicale di sionismo estremo con un fronte liberale e
moderato che comunque sionista è. Nonostante i numerosi report di denuncia,
nessuna fazione politica contempla il tema dell’apartheid attuato da un intero
sistema politico e legale a danno dei palestinesi. Il tema dell’apartheid è escluso
dal dibattito parlamentare in Israele: è chiaro che poi la protervia coloniale
e occupazionista si consolidi con importanti dicasteri presieduti da persone
come Smotrich, che non ha difficoltà a definirsi fascista e a legittimare i
pogrom colonialisti fino a incitarli nel loro obiettivo di incendiare, radere
al suolo villaggi palestinesi.
L’intervista di Pas Liguori è uscita anche su Dinamopress
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