domenica 19 agosto 2012

beni comuni e la soluzione sotto il tappeto


Il bilancio dello Stato in pareggio, al quale siamo impegnati ad arrivare entro il 2013, non porta automaticamente alla ripresa economica; e le misure di aumento delle imposte e riduzione della spesa non portano automaticamente a un bilancio in pareggio, anzi, l’esperienza greca fa balenare il rischio che, a causa dei tagli eccessivi, il deficit si avviti su se stesso. Il mondo della finanza sta prendendo atto in concreto di queste amare verità e, per conseguenza, sposta il discorso dal deficit al debito: se riuscissimo ad abbattere il debito - come d’altronde ci impone, nell’arco di vent’anni, il «patto fiscale» sottoscritto in sede europea - si ridurrebbero molto gli interessi sul debito stesso e navigheremmo in acque più tranquille. Nascono di qui gli studi e le proposte rese note in questi giorni per ridurre sensibilmente il debito pubblico mediante la vendita di beni di proprietà dello Stato e di altri enti…
…Infine, siamo proprio sicuri di voler vendere gran parte del patrimonio pubblico? Come dice un vecchio proverbio, «si vende una volta sola» e il depauperamento del patrimonio nazionale sarebbe un’altra spoliazione delle generazioni giovani, già chiamate a farsi carico del debito pensionistico. Occorre probabilmente decidere caso per caso: mentre è difficile trovare serie obiezioni alla vendita di una parte delle opere d’arte giacenti nei magazzini dei musei per finanziare il ministero dei Beni Culturali, sempre a corto di fondi, meno sicura sarebbe l’opportunità di disfarsi della quota pubblica dell’Eni, certamente molto appetibile sul mercato, in quanto si tratta dell’unica grande impresa italiana rimasta a carattere chiaramente globale e dal significato chiaramente strategico.

Probabilmente il bene patrimoniale più rapidamente disponibile è l’oro delle nostre riserve. Gli accordi internazionali ci permettono di metterne sul mercato solo piccole quantità ogni anno (pari all’incirca a uno-due miliardi di euro), ma il resto potrebbe essere dato in garanzia di una linea di credito con un ente internazionale per un pronto intervento in caso di spread troppo elevato, oppure per ricomprare una parte dei titoli di debito dagli interessi più costosi.

I beni da vendere appartengono a quattro categorie. I beni culturali, e cioè i gioielli che rappresentano la storia e il prestigio del nostro paese, luoghi spesso a disposizione di tutta la popolazione. Beni che sono alla base di uno degli articoli fondamentali della prima parte della Costituzione verranno svenduti senza remore: non ce lo possiamo permettere più, secondo la religione dei professori. Vedremo che dirà al riguardo il Presidente della Repubblica che in passato ha richiamato all'intangibilità delle radici culturali dell'Italia.
Il secondo gruppo appartiene ai beni strumentali, cioè a tutte quelle proprietà che tuttora ospitano una funzione pubblica…
La svendita del patrimonio immobiliare pubblico non avrà alcun effetto per far uscire il paese dalla crisi economica. Servirà a far quadrare i bilanci di molti istituti di credito e fondi speculativi che a parole si dice di combattere. E servirà a far arretrare le vite di coloro che fin qui «hanno vissuto sopra le loro possibilità», come dice il professor Monti. Obiettivo da raggiungere anche svendendo le radici del nostro paese.

2. Dove diavolo sono finiti i soldi?
Secondo Henry, il termine offshore non corrisponde più a un luogo fisico, nonostante una quantità di posti come Singapore e la Svizzera continuino a specializzarsi nel fornire ai ricchi di tutto il mondo «residenze fisiche sicure a bassa tassazione».
Ma oggi la ricchezza offshore è virtuale. Henry descrive «siti nominali, ultra-portatili, multi-giurisdizionali e spesso temporanei all'interno di reti di organizzazioni e accordi legali e semi-legali». 
Una compagnia può essere ubicata all'interno di una giurisdizione, ma posseduta da un gruppo di aziende situato altrove e amministrata da un insieme di società in una località terza. «In definitiva il termine offshore si riferisce a un insieme di potenzialità» piuttosto che a un posto o a una serie di posti. 
Il documento nota anche che è importante distinguere tra «paradisi intermedi«, cioè quei posti che la gente normalmente immagina quando pensa ai paradisi fiscali (come le Isole Cayman di Romney, le Bermuda e la Svizzera) e i «paradisi di destinazione», che includono Stati Uniti, Gran Bretagna e perfino Germania. Queste ultime sono destinazioni richieste, perché mettono a disposizione «mercati azionari efficienti e disciplinati, banche sostenute da un'ampia popolazione di contribuenti e compagnie d'assicurazione; sistemi legali ben sviluppati, avvocati competenti, sistemi giudiziari indipendenti, e il principio di legalità».
In altre parole la stessa gente che non paga le tasse spostando in giro il suo denaro approfitta, al fine di evadere, dei servizi finanziati dai contribuenti. E negli Stati Uniti alcuni Stati hanno cominciato, fin dagli anni Novanta, a fornire, a buon mercato, organizzazioni «il cui livello di segretezza e protezione nei confronti dei creditori e i cui vantaggi fiscali fanno concorrenza a quelli dei tradizionali paradisi fiscali offshore». Se a questo si aggiunge che i ricchi e le multinazionali negli Stati Uniti pagano sempre meno tasse, ne risulta che stiamo provando ad attirare quelli che stanno cercando nasconderci il denaro…

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