Édouard Glissant è morto il 3 febbraio 2011. Se il 3
febbraio non fosse marcato dalla morte di Glissant, sarebbe un giorno
dimenticato come tutti gli altri, in fondo alla tomba dell’indifferenziato,
almeno per me. Era Glissant infatti, ed è, il mio maestro più potente nel
mondo. Insieme al suo professore al
liceo di Fort-de-France, piccola capitale della piccola isola della Martinica
nelle Antille, Aimé Césaire, insieme all’altro allievo di Césaire allo stesso
liceo, Frantz Fanon, tutti e tre meticci discendenti dalla tratta degli schiavi
africani. Glissant ha segnato all’inizio degli anni 90 la mia svolta
anticolonialista e transculturale. Mi ha messo sulla via della poetica della decolonizzazione
degli europei e dell’anticolonialismo militante. Allora, la svolta
creola avvenne per me al contempo con l’incontro con gli scrittori migranti del
mondo che venivano a scrivere in italiano fra noi e che continuano a farlo. I
tre maestri poetici martinicani – che non ho mai conosciuti di persona, ma di
cui ho fatto tradurre dal francese qualche libro, di Glissant e di Césaire, il
primo per Meltemi e il secondo per Città aperta, mentre il volto di Fanon lo
misi al centro della copertina, multicolore e chiassosa, pensata insieme alla
musica e alla copertina di un cd di Carlos Santana, su un mio libro per Odradek
– scaricarono da dentro il mio spirito Heidegger, Gadamer, il pensiero debole
ecc. mettendoli sotto il tappeto, e togliendo da sotto il tappeto
l’introduzione di Jean Paul Sartre a«I dannati della terra»
e il libro stesso di Fanon.
Che cosa ha insegnato Glissant a me e agli studenti
che ebbi? Che gli europei devono
cominciare a creolizzarsi, come fa il mondo tutto, seguendo i ritmi, i tempi, i
paesaggi, la musica, la triste storia coloniale degli europei
invasori, l’ardore dei poemi del Caribe nel «pensare con il mondo» (Glissant).
Che noi europei siamo rimasti molto indietro, intanto, tutti presi dalla crisi
finanziaria, dall’euro, dalla degradazione della nostra civiltà diventata
incivibile1 e
da altri mali. Mi insegnò che, per non restare sempre più indietro, dobbiamo
re-imparare la nostra storia europea appunto “pensando con il mondo”. Ma
l’inciampo e lo sbando sono che non sappiamo più farlo. Infatti, quando toccò a
noi, nel e dal 1492, pensammo tanto il mondo che lo destrutturammo prendendolo
in mano, e lo malmenammo da allora e tuttora lo malmeniamo, smemorati di non
averlo mai amato. E allora, come
facciamo a creolizzarci mentalmente noi europei? Facendoci amici dei migranti,
visto che sono arrivati a vivere con noi, ascoltando le cose che loro dicono e
che sono diverse dalle cose che diciamo noi. Diverse come?
Molto diverse. Per conoscere la portata della diversità oggi cercate un libro
di Glissant, «Poetica del diverso». Io cominciai da lì.
E cos’altro fece il maestro interiore per me? Mi insegnò che la creolizzazione va
pensata così: il meticciato + l’imprevedibile, una relazione e una
definizione impreviste, come Obama. Uno che troppo presto è svanito nel girone
dell’impotenza. E cosa ancora dire di Glissant? Tutto il mondo, il Tout-Monde.
Lo imparerete a vedere con lui: attraverso poesie, romanzi, saggi e
un’antologia personale di scritture di poetici di tutto il mondo, e alla fine
della sua vita, un libro non tradotto in italiano: «La Terre
le Feu l’Eau et les Vents, une anthologie de la poésie du Tout-Monde»
(Paris, Galaade Editeurs 2010).
Ma chi sono i poetici? Quelli come noi. Noi chi? Quelli che reiventano le proprie vite
ogni venti anni, più o meno, e sono sempre, anche se in sofferenza, “innamorati
del mondo” attraverso la poesia che rende poetici,
se siete disposti ad accettare il loro pensiero arrivando a creare il futuro
dell’imprevisto. «Innamorarsi del mondo attraverso i poeti» è il pensiero di un
altro grande poeta contemporaneo delle piccole Antille, Derek Walcott,
dell’isola di Santa Lucia, anglofono e Nobel della letteratura nel 1992.
So che cosa state pensando: perché non ci dici che
cosa è un “tombeau”? La voce che lo spiega su wikipedia è felice, leggetela. Tombeau (tomba, sepolcro in francese) è
un testo che fa un omaggio artistico, soprattutto musicale, al ricordo di
maestri e amici defunti. Il più famoso tombeau, per me, è quello di
Maurice Ravel, «Tombeau de Couperin», per solo
pianoforte. Ravel così onora la fama e il ricordo di François Couperin, maestro
della musica barocca francese [1668-1733]. Ravel, però, ha legato nella
composizione questa memoria nobile con la memoria “sacra” di sette suoi amici
morti nella Prima guerra mondiale. La suite per piano solo fu suonata la prima
volta a Parigi nel 1919.
Adesso ripensate a Glissant, ascoltando con lui e con
me, noi insomma, proprio la
suite di Ravel captata da youtube. E se la musica che vi ho
proposto vi attira ancora un po’, cercate e ascoltate anche quella
di Couperin. Avrete agito così da
transculturanti-in-via-di-creolizzazione, rizomatici incipienti e opachi,
insaturi e vedenti. Avrete suonato il
vostro piano europeo sulla tomba di Glissant, dovunque essa si trovi. Diventando
così più creoli attraverso le sue parole e le sue concezioni. E cominciate, se
non lo avete ancora fatto, a leggere le sue opere e quelle dei poetici del
Caribe, Césaire e Fanon, Chamoiseau, Carpentier, Walcott, Kamau Brathwaite e
tanti altri, anche latino-américani.
P.S. Se volete ascoltare un’altra pagina immortale di
Ravel sui nostri antenati morti, al «Tombeau de Couperin»
affiancate un testo meravigliosamente triste e gentile alla maniera europea, «Pavane
pour une infante défunte», per piano solo, trascritto
anche per orchestra dallo stesso Ravel. Così
ci ritroveremo, una volta prima o dopo, “tutti in un punto”, come nel racconto
di Calvino. Non solo per ricordare, ma anche per creare incessantemente
l’imprevedibile della creolizzazione.
Nota dell’autore
1 “Incivibile” è un creolismo, fatto innestando
nell’ “invivibile” l’“incivile”, che ho inventato in questi giorni di gennaio.
Nota di
Comune-info
(*) Le “scor-date”, come quella
firmata da Gnisci, sono state un appuntamento quotidiano del blog di Daniele
Barbieri & altre/i, oggi diventato Bottega.
Dall’11 gennaio 2013, per circa due anni, ogni giorno ci hanno accompagnato con
un rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero
dominante e l’ignoranza che lo nutre hanno dimenticato o rammentato “a
rovescio”. Adesso Daniele e gli altri autori hanno deciso di fermare quel ritmo
insostenibile (per chi lo teneva per pura passione) e prendersi una lunga pausa
di riflessione. Ma la straordinaria ricchezza dell’archivio viene comunque
messa a disposizione giorno per giorno nella Bottega. Ancora grazie.
Settembre 2010. Il professor
Armando Gnisci annuncia le sue dimisioni volontarie dall’Università
un articolo di Roberta Lamaddalena, uscito in Pubblica Istruzione il 23
OTTOBRE 2010
– Dal primo novembre 2010 il Prof. Armando
Gnisci, docente di Letterature comparate del Dipartimento di Italianistica e
Spettacolo della Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, si ritirerà
dall’insegnamento accademico con un volontario pre-pensionamento. “Ci tengo a
comunicarvi ufficialmente e sinceramente questa notizia perché sappiate con
chiarezza e certezza il motivo della mia sparizione. Viviamo, infatti, in un’epoca in cui la
menzogna, la volgarità e l’oblio informano la comunicazione e formano
addirittura la nostra educazione” scrive in una lettera del 6 settembre rivolta
agli studenti. Una decisione importante per un uomo che ha dedicato tutta la
sua esistenza all’insegnamento e alla ricerca.
Armando Gnisci, nato a Martina Franca nel 1946, ha
fondato a Roma la cattedra (allora istituita con Decreto del Presidente della
Repubblica) di Letterature comparate ed è diventato membro del Collegio dei
docenti del Dottorato di Ricerca in Italianistica della Sapienza. E’ autore di 40 libri tradotti in 12
lingue. Ha collaborato con numerose Università straniere, ha
istituito con altri studiosi nel 1985 la Società Italiana di Comparatistica
Letteraria (S.I.C.L.) ed è membro dell’Association Internationale de
Littèrature Comparèe, dell’International Association of Hungarian Studies,
dell’AISSLLI, e membro-assessore dell’International Association of
Intercultural Studies.
In un’intervista pubblicata il 20 ottobre su
www.letterefilosofia.it il Prof. Gnisci spiega i motivi della sua coraggiosa
scelta. “Mi sono dimesso dell’Università perché ho dato troppo (…) in un luogo
che è diventato sempre di più, a mio avviso, malato e inadeguato”. Continua poi
sottolineando che “la malattia
fondamentale sta nell’arretratezza culturale e morale della classe politica
italiana. (…) L’università e la
ricerca sono sempre più tagliabili, dimenticabili e trascurabili (…)
Com’è possibile tagliare le arti nel paese delle arti, in Italia, nazione che
ha costruito ville e palazzi e scritto musica per il mondo intero? I teatri
sono costretti ad auto-finanziarsi ospitando matrimoni. I valori di una
repubblica vera sono il welfare, lavoro e
dignità per i giovani e le donne, coscienza e conoscenza”. Alla domanda su che
ricordi nutra nei confronti della sua docenza presso la Facoltà di Lettere, il
Prof. Gnisci risponde “Non ho nessun bel
ricordo, ho sempre vissuto con rabbia e lottando contro” riferendosi ai
suoi colleghi e alla baronia universitaria come un “muro di chiusura” simile a
quello tra israeliani e palestinesi in cui ognuno rivendica solo il suo
territorio”. L’unica soddisfazione in un mondo universitario che tanto rispecchia
la crisi della nostra Repubblica e delle nostre istituzioni, sembrano essere i
giovani. “Vi saluto assicurandovi che l’unica parte dell’università dalla quale
non mi sono dimesso è la vostra” scrive rivolgendosi ai suoi studenti ma anche
a coloro che non l’hanno mai incontrato e che rappresentano le generazioni
future ammettendo “per anni ho sentito voi come i miei veri colleghi”. Lo scopo
di Armando Gnisci è stato, in tanti anni di insegnamento, quello di infondere
nei suoi studenti una conoscenza basata sul sapere comparativo. “Guardando
all’indietro il cammino intellettuale che ho percorso, posso dire che il mio
destino di comparatista letterario si è mosso e si è spostato da un sapere
letterario verso un sapere di sapere vitale, e cioè, percorrendo letterariamente
la via della mia vita, o interpretando la vita come una via”, (scrive in
Decolonizzare l’Italia) una via capace di portarci verso nuove aperture,
spostando il proprio io presso l’altro per uscirne “alterati” e più saggi.
L’appello che il professore fa ai giovani è continuare a perseguire quell’utopia di un
“meraviglioso mondo nuovo” (con evidente riferimento al Mondus Novus della
letteratura della migrazione). Per fare questo “serviamo noi letterati: per
poterlo immaginare e tradurre. E per indicarlo come il valore finale di una
educazione che non può finire mai, come ci hanno insegnato i nostri antenati
latini”.
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