In Italia il rapporto debito/PIL ha
ripreso rapidamente a crescere dopo lo scoppio della crisi del 2007. Il
maggiore aumento in precedenza risaliva all’inizio degli anni ’80, con il
“divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia e l’abbattimento dei controlli sui movimenti
di capitale. Wall Street diventava la calamita finanziaria del mondo,
obbligando l’Italia ad alzare i tassi di interesse per competere con quelli
promessi oltreoceano.
L’abbattimento dei controlli è
anche uno dei motivi per cui non riusciamo a diminuire il cuneo fiscale, per
quanto ogni governo lo metta in agenda per contrastare la disoccupazione.
Difficile farlo se buona parte delle entrate derivano dal lavoro perché non si
possono tassare i capitali o anche solo parlare di una patrimoniale. Le
conseguenze non sono solo sull’occupazione, ma anche in un aumento delle
diseguaglianze legato alla disparità di trattamento tra rendita e reddito.
L’impossibilità di tassare i capitali
finanziari non ha impatti unicamente sui lavoratori, ma anche sulle imprese: se
avvio un’attività produttiva devo mettere in conto un elevato peso fiscale, che
diventa decisamente minore in ambito finanziario. Una distorsione che
contribuisce all’ipertrofia finanziaria e alla mancanza di investimenti
nell’economia.
Un discorso che riguarda anche
le banche, per le quali è più semplice investire sui mercati finanziari che non
concedere prestiti a famiglie e imprese che spesso rimangono escluse dall’accesso
al credito. Dovremmo allora interrogarci su come rilocalizzare la finanza e
fare sì che il risparmio venga impiegato nei territori in cui è raccolto.
Questo significa controllare i movimenti di capitale.
Un effetto distorsivo tanto più
marcato quanto più grandi sono i patrimoni interessati. I piccoli risparmiatori
spesso non vanno oltre l’investimento in titoli di Stato – e quando lo fanno
magari vengono truffati come insegnano i recenti casi bancari. All’estremo
opposto, gli High Net Worth Individual o individui con un alto patrimonio hanno
a disposizione stuoli di gestori e consulenti per fare fruttare i loro milioni,
e magari per metterli al riparo dal fisco in qualche paradiso fiscale.
Lo sviluppo di queste
giurisdizioni è l’emblema stesso dell’abbattimento di ogni controllo sui
movimenti di capitale. Tra gli enormi problemi creati c’è la concorrenza sleale
tra le imprese che lavorano su scala nazionale e le multinazionali che possono
insediarsi in territori di comodo per nascondere i profitti. L’esperienza
insegna che inseguire l’isoletta tropicale di turno è come fermare una valanga
a mani nude. Per contrastare i paradisi fiscali occorre agire dove originano i
capitali che sfruttano i vuoti legislativi per sottrarsi al fisco, e dotarsi di
strumenti per controllarli.
La questione non riguarda solo
l’economia legale, ma in maniera se possibile ancora più inaccettabile quella
sommersa e criminale. Come spiegare la facilità con cui le mafie posso
organizzare i peggiori traffici in giro per il mondo? Dal riciclaggio alla
corruzione, l’assenza di controlli sui movimenti di capitale è nuovamente al
cuore del problema.
Un problema non solo fiscale o
finanziario. Gli stabilimenti produttivi vengono dislocati nelle zone dove sono
minori le legislazioni ambientali o sul lavoro. L’assenza di controlli sui
flussi di capitale è un ricatto alla capacità dei governi di operare
nell’interesse dei propri cittadini. Il risultato è da un lato delocalizzazioni
selvagge e deindustrializzazione, dall’altro una vera e propria corsa verso il
fondo tra nazioni in materia fiscale, ambientale, sociale, dei diritti del
lavoro.
Una corsa che non si svolge
unicamente su scala internazionale ma anche europea. A dispetto dello stesso
nome di “Unione” europea, ci troviamo in una situazione di competizione
esasperata. Una competitività che si gioca sul costo del lavoro, vista
l’impossibilità di svalutare la moneta, ma prima ancora che origina dalla
completa libertà di movimento dei capitali all’interno di un’Europa in mezzo a
un guado, impantanata in una unione monetaria e dei capitali senza unione delle
normative e dei diritti.
A fronte di questa situazione,
tra chi vuole uscire dall’euro alcuni sottolineano come sarebbe possibile
un’uscita da sinistra a condizione di introdurre contestualmente dei controlli
sui flussi di capitale. È curioso che quello che dovrebbe essere al centro
della battaglia politica venga però presentato come una mera condizione al
contorno, come se fosse di facile realizzazione. Per dirla con una battuta, chi
dice che uscire dall’euro è facile, basta introdurre dei controlli sui
movimenti di capitale e poi si può uscire, ricorda chi dice che disegnare un
cavallo è facile, basta disegnare un unicorno e poi cancellare il corno. Ancora
più incomprensibile la posizione di chi, da destra, vuole uscire pensando di
potere recuperare una qualche “sovranità monetaria” mentre i capitali sono
liberi di varcare le frontiere a proprio piacimento.
L’elenco potrebbe continuare.
Che si guardi alle politiche economiche o monetarie, al lavoro, al welfare,
alla legalità, alla giustizia sociale, alla mancanza di investimenti, l’assenza
di qualsiasi controllo sui movimenti di capitale è al cuore del problema. A
dispetto della sua centralità, il tema difficilmente approda nel dibattito pubblico,
per difficoltà tecniche ma prima ancora culturali. Dopo oltre tre decenni di
sbornia neoliberista, alcune questioni sono ormai date per assodate, o peggio
ancora considerate “naturali”, come se fossero regolate da leggi immutabili
quali quelle della fisica. Al cuore di un mercato finanziario che si pretende
asettico e oggettivo c’è il dogma della completa libertà di movimento dei
capitali.
Occorre cambiare radicalmente
approccio, e non solo per arginare lo strapotere finanziario. Nel momento in
cui le peggiori destre fanno fortuna parlando di controllare i flussi di esseri
umani e dall’altra parte dell’Atlantico si millantano guerre commerciali per
fermare i flussi di merci, sarebbe ora di affermare che i controlli che bisogna
introdurre sono sui flussi di capitale. Non è possibile continuare a giocare in
difesa, così come non è possibile rimanere in attesa della prossima crisi
finanziaria, per poi magari invocare salvataggi pubblici. È ora di
contrattaccare e di aprire uno spazio politico a sinistra, ponendo il controllo
dei movimenti di capitale al centro dell’agenda come primo fondamentale passo
per ribaltare gli attuali inaccettabili rapporti di forza tra finanza e
democrazia.
(Questo articolo è stato
pubblicato su Sbilanciamoci.info e su www.nonconimieisoldi.org)
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