giovedì 30 marzo 2017

Il poeta – Anna Fresu



A José Craveirinha,
poeta, mozambicano
 Il poeta guardava le pareti della sua cella, una volta bianche. Col manico del cucchiaio incideva parole, sfogava la sua angoscia. A volte il suo sguardo si velava per un rivolo di sangue che colava da una ferita che il sopracciglio corrugato faceva riaprire. Aveva ripetuto solo il suo nome, quello di un Zé Ninguém, di un nessuno di memoria paterna. Ma nelle sue vene scorrevano i fiumi della sua terra, Maputo, Limpopo, Zambesi, Rovuma… quelli di sua madre, ragazza del sud che l’amore aveva portato fra le braccia di quel suo padre, povero emigrante. Nella testa sentiva ancora le note struggenti di un fado che suo padre gli cantava al suono della chitarra. Nel cuore, i battiti del tamburo che riecheggiavano nel “silenzio amaro” del suo quartiere di legno e zinco.
Altro non aveva detto. Non i nomi di chi andava a raggiungere su quel treno lento che varcava la frontiera, né i luoghi dove si riunivano, né le azioni che preparavano. Per dimenticare i colpi, il dolore, ripeteva i suoi versi che l’avevano incriminato. Quasi un sorriso sulle labbra spaccate. Allora anche i tiranni, stupidi, ottusi, conoscevano la forza della poesia, sapevano quanto un verso letto  o passato di bocca in bocca potesse consolare, infiammare gli animi, gridare giustizia, libertà!
Ora non aveva carta su cui scrivere, foglietti che sua moglie avrebbe portato fuori nascosti nella scollatura. Le poesie diventarono brevi, incisive, sferzanti perché lei potesse impararle a memoria le rare volte che le era concesso vederlo. I suoi libri incriminati, i suoi autori “pericolosi”, sua moglie li aveva nascosti con cura alle retate della polizia, neppure lui sapeva dove. Sapeva che un giorno li avrebbe ritrovati, li avrebbe letti ai suoi nipoti perché respirassero bellezza e libertà. Avrebbe voluto tingere le pareti con i colori del pittore della cella accanto, anche lui pericoloso sovversivo, nero per giunta, che dipingeva danzatori e volti che urlavano oppressione, colori della loro terra, il verde della savana dopo la pioggia, il rosso della sabbia e del leone, il marrone della pelle e del baobab, le geometrie dei teli che le donne avvolgevano ai fianchi.
Avrebbero ridato memoria e impeto ai suoi sensi offuscati quando lo riportavano in cella dopo gli interrogatori.
Avrebbe voluto che i muri si allargassero in un campo di calcio dove correre e tirare a un pallone perché le sue membra intorpidite e dolenti riacquistassero vigore. Di sua moglie ormai solo la traccia di un piatto di upsha che il carceriere rimestava cercando chissà quale segreto. E la visione di lei in cucina, i bei capelli setosi avvolti in un fazzoletto, le mani abili a tritare foglie e cipolla, a pestare arachidi. Lui seduto al tavolo troppo piccolo – quante volte lo avevano detto – a scrivere su un quaderno per starle vicino e rubarle ogni tanto un sorriso. Maria. Dove sarà ora quel sorriso non più scambiato, non con i vicini che girano lo sguardo e gli amici che non ti salutano. Di sicuro lo conservi dentro, mentre aspetti tutti i giorni davanti al portone della prigione. Lo getti in faccia in sfida ai poliziotti  che vorrebbero allontanarti. Maria. Sposa sorella compagna di ogni giorno e di quelli che verranno.
Tu sai, Maria, che non mi spezzeranno, che mi avvolgerai ancora nella “carezza bruna e bionda del tuo amore” e che la “certezza di pace” del nostro affetto non sarà più soltanto una speranza.
(da: “Sguardi altrove”, Anna Fresu, Vertigo edizioni, Roma 2013)
da qui

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