(articolo su “L’unità“ – 27 Settembre 2002)
Non si
finisce più di contare i morti, i clandestini annegati che giorno dopo giorno
emergono dai fondali renosi del mare che bagna le coste meridionali di Sicilia,
i cadaveri che le onde ributtano sulle spiagge dai nomi di una classicità
scaduta da tempo immemorabile – Porto Empedocle, Baia Dorica, Costa Ellenica –
cadaveri sulla sabbia come detriti di un’immane risacca. Sono vittime, questi
poveri cristi fuggiti da Liberie, Tunisie, Algerie, Marocchi, Iraq o Palestine,
prima che dei mercanti di vite umane, della nostra opulenza, della nostra
arroganza, della nostra empietà e ferocia, della nostra ottusa indifferenza.
Eppure, da quelle plaghe siciliane in cui oggi si raccattano cadaveri, e così
dalla Calabria, dalla Sardegna, sono partite in passato masse di diseredati per
raggiungere il Maghreb. Anche loro clandestini, anche loro sfruttati dai boss
mafiosi, anche loro che s’avventurano su carrette di mare, loro che in quel
periglioso Canale perivano nei naufragi. Ma in Tunisia questi nostri
clandestini, questi nostri emigranti trovarono accoglienza, lavoro, speranza;
si stabilirono nei porti della Goletta, di Biserta, di Sousse, di Monastir, di
Mahdia, nelle campagne di Kelibia e di capo Bon, nelle regioni minerarie di
Sfax e di Gafsa. Nel 1911, le statistiche davano una presenza italiana
ufficiale di 90mila unità. Nel 1914, Andrea Costa, vicepresidente della Camera,
visita le regioni dove vivevano le comunità italiane. Dice, in un discorso ai
lavoratori : «Ho visitato la Tunisia da un capo all’altro; sono stato tra i
minatori del sud e fra gli sterratori della strade nascenti, e ne ho ricavato
il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella loro viltà, abbandonandovi
pecorinamente alla vostra sorte». E’ a partire dal 1968 che avviene
l’inversione di rotta: tunisini, algerini, marocchini cominciano ad approdare
sulle nostre coste. Approdano soprattutto i tunisini a Trapani e si
sparpagliano per le campagne, si stanziano nell’antico quartiere arabo di
Mazara del Vallo la città dove nell’827 erano approdati i loro antenati per la
conquista della Sicilia. Il sociologo di Mazara, Antonino Cusumano, ha scritto
il libro “ Il ritorno infelice “ su questa emigrazione di tunisini in Sicilia.
Emigrati da una Tunisia lontana da quella striscia costiera delle vacanze
«esotiche» di noi europei, da quell’anello di lussuosi alberghi, di Abu Nuwas,
di proprietà degli Emirati Arabi. Emigrati contadini che il fallimento della
riforma agraria promossa da Bourghiba, che portava il bel nome di Rigenerazione
del suolo, ha buttato nella miseria, emigrati braccianti, pescatori, minatori
che l’odierna politica di Ben Alì relega al di sotto di un livello di
sopravvivenza. Mi trovavo, nel giorno del naufragio di Porto Empedocle, dei 27
morti liberiani, a pochi chilometri da quel mare, a Palma di Montechiaro, il
paese fondato nel ‘600 dai principi di Lampedusa, i «gattopardi» di
GiuseppeTomasi. Ma il paese anche, quello, che Danilo Dolci scelse nel 1960
come paese simbolo di depressione, miseria, per un convegno sulle condizioni di
vita e di salute in zone arretrate della Sicilia occidentale. Fra studiosi,
politici, parteciparono a quel convegno Carlo Levi, Paolo Sylos Labini, Tommaso
Fiore, Girolamo Li Causi, Leonardo Sciascia, Ignazio Buttitta. Mi trovavo
dunque a Palma di Montechiaro per un convegno su madre Francesca Saverio
Cabrini, la santa degli emigrati, colei che operò negli Stati Uniti e in
Sudamerica fra i nostri poveri emigrati laggiù. Nel 1879, Giustino Fortunato
così scriveva: « Con lo sviluppo dell’emigrazione meridionale negli Stati
Uniti, il sistema di mediazione esercitato dalle agenzie per mezzo dei
“notabili” diventa un efficace strumento per esportare nelle Little Italy d’oltre
oceano le forme di sfruttamento camorristico o mafioso (…) Spesso infatti i
boss italo-americani sono in contatto diretto con gli agenti italiani, i quali
procurano contemporaneamente passeggeri alle compagnie di navigazione e
manovali alle imprese americane». I naufraghi di Scoglitti speravano, con la
falsa notizia, con l’inganno della «sanatoria» della nuova legge italiana
sull’immigrazione, di poter andare a lavorare, come molti loro connazionali,
nelle imprese ragusane delle serre, in quegli immensi labirinti di calore e di
veleni che sono i campi coperti di plastica. Non ce l’hanno fatta, sono rimasti
al di qua delle serre, riversi in quelle dune di sabbia, dette «macconi», di
spiagge chiamate abulicamente Baia Dorica e Costa Ellenica. Là, coperti da
teli, in attesa dei pietosi raccattacadaveri. A questi naufraghi, ultime,
ennesime vittime dell’attuale nostro mondo crudele, vogliamo dedicare come
fosse un «requiem», i versi di Morte per Acqua di T.S.Eliot:
Fleba il
Fenicio, morto
da quindici
giorni,
Dimenticò il
grido dei gabbiani
e il flutto
profondo del mare,
E il
guadagno e la perdita.
Una corrente
sottomarina
Gli spolpò
le ossa in sussurri,
Mentre
affiorava e affondava
Traversò gli
stadi
della
maturità e della gioventù
Entrando nei
gorghi.
Gentile o
Giudeo,
o tu che
volgi la ruota e guardi
nella
direzione del vento,
Pensa a
Fleba, che un tempo
è
Stato bello
e ben fatto al pari
di te.
Nessun commento:
Posta un commento