Più di tre mesi trascorsi a lavorare nei campi agricoli
della provincia di Latina con uomini obbligati a lavorare come schiavi. Tre
mesi nell’inferno dei braccianti indiani che raccontano il volto oscuro
dell’Italia. Un paese che nasconde parte di sé sotto le gonne del malaffare,
espressione di un capitalismo baro, cinico, violento, spregiudicato e fondato
sullo sfruttamento lavorativo, a volte in complicità con mafiosi di ogni genere
e imprenditori sempre pronti a elogiare il potente di turno. Tre mesi dentro le
serre pontine, compagno di lavoro di persone a cui nessuno chiedeva mai il
nome. Uomini considerati solo strumenti per il profitto del padrone. Questa è
la sintesi della mia esperienza di ricerca sociologica condotta sulla comunità
punjabi in provincia di Latina e sul bracciantato agricolo, attività nella
quale molti di loro sono impiegati.
Braccianti che dovevano obbedire, senza discutere. Uomini
con le mani callose e sporche di terra, la schiena piegata per 10, 12 e a volte
anche 14 ore al giorno per raccogliere pomodori, cocomeri, ravanelli o
insalata. Il tutto per circa 20-30 euro al giorno. Accade ogni giorno nelle
campagne del pontino. In provincia di Latina si contano circa 30mila punjabi,
in prevalenza residenti nei Comuni costieri a spiccata vocazione agricola.
Uomini, oggi sempre più anche donne, costretti a coltivare e a raccogliere gli
ortaggi che poi prendono le autostrade della Grande distribuzione Organizzata,
filiera sporca responsabile di tanta parte dello sfruttamento lavorativo, per
finire nei piatti dei cittadini-consumatori di tutta Europa. Sono lavoratori
col turbante che ho imparato a conoscere, che ho intervistato a centinaia, che
ho guardato negli occhi anche quando si inumidivano dicendomi che avevano
sbagliato a venire in Italia. Pensavano al nostro paese come una grande
occasione di riscatto sociale ed economico per sé e la propria famiglia,
l’opportunità di vivere “all’occidentale”, di vedere il mondo che gli avevano
raccontato amici e parenti. E invece si sono trovati a lavorare piegati nei
campi agricoli per poche centinaia di euro al mese sotto lo sguardo vigile del
caporale o del padrone di turno e a dire sempre “sì capo”.
Partivo ogni mattina in bicicletta con un gruppo di
braccianti indiani da Bella Farnia, piccolo residence vicino Sabaudia, per
arrivare nel campo agricolo indicatoci dal caporale. Per ore a raccogliere
fiori di zucca o cocomeri, sperando che nessuno dei miei compagni pronunciasse
il mio nome italiano. Ero lì, sulla mia terra, per osservare le modalità del
reclutamento, dell’intermediazione illecita (caporalato), ascoltare le parole
dei lavoratori, fare la loro stessa fatica, guardare il datore di lavoro e poi
provare a studiare il tutto, con gli occhi del sociologo e l’indignazione
dell’essere umano, cercando di non smettere mai di restare umano. E ho
osservato datori di lavoro pretendere dai lavoratori di essere chiamati
padrone, obbligare i braccianti indiani a fare tre passi indietro e ad
abbassare la testa prima di rivolgersi al capo italiano. Ho visto braccianti
indiani lavorare tutti i giorni della settimana per un mese intero ed essere
pagati appena 400 euro. Ed io con loro. Ho parlato con lavoratori indiani che
dopo aver lavorato per settimane senza sosta e aver chiesto un giorno di riposo
sono stati allontanati, licenziati, cacciati con ignominia. Ho intervistato i
braccianti aggrediti e rapinati del mensile faticosamente guadagnato da bande
di criminali italiani. Gli indiani mi spiegavano che denunciare è inutile. Non
conoscono i nomi degli aggressori e anche quando ne vengono a conoscenza non si
permetterebbero mai di farli alla polizia, perché spesso sono i figli o gli
amici del padrone o i propri compagni di lavoro italiani. Meglio stare in
silenzio dunque, che denunciare e perdere il lavoro. Ho incontrato lavoratori
indiani che hanno subito spedizioni punitive solo per aver chiesto il
riconoscimento di un giusto salario, come Hardeep, che dei giovani italiani in
auto tentarono di investire mentre tornava con la sua bicicletta verso casa al
termine di una faticosissima giornata di lavoro. Oppure Sarbjeet che sfuggì per
poco al tentativo che dei delinquenti fecero di tramutarlo in una torcia umana,
gettandogli addosso una tanica di benzina. O ancora Lathi, al quale ruppero
entrambe le gambe. Per non parlare di tutti quei lavoratori indiani (ma anche
rumene, bangladesi e a volte anche italiani) investiti per strada mentre si
recano o tornano dal campo di lavoro e lì abbandonati. E poi gli incidenti sul
lavoro mai denunciati. Le percosse e le violenze subite da chi osa alzare la
testa e il silenzio costante delle istituzioni, che sollecitate sul tema,
rispondono sempre che si tratta solo di casi isolati. I padroni hanno molti
soldi, pagano campagne elettorali, spostano migliaia di voti. Meglio scegliere
con attenzione i propri avversari politici. Meglio stare dalla parte del più
forte che di coloro che non votano, non parlano italiano e non si ribellano. E
così la politica pontina discute poco di questo tema. Il silenzio, loro
pensano, paga e molto.
È lo stesso silenzio che fino a poco tempo fa copriva le
urla di chi denunciava il radicamento delle mafie nel pontino, dei killer di
camorra e delle loro relazioni con l’economia e la politica pontina. Mafie e
sfruttamento lavorativo, riciclo del denaro e truffe, violenza e silenzi. Gli
indiani piegati nei campi a lavorare come schiavi, i padroni a volte servi dei
mafiosi a contare soldi, mentre tutto intorno il silenzio assordante di quasi
tutte le istituzioni. Solo la Questura di Latina di recente si è svegliata e
con coraggio ha iniziato ad ascoltare le nostre denunce. E allora continuiamo a
denunciare, a raccontare e a vivere stando dalla parte degli schiavi di questo
capitalismo. O almeno ci proviamo consapevoli che non si tratta di episodi
isolati, di casualità, ma della manifestazione di una particolare e sempre più
diffusa organizzazione del lavoro e poi sociale che comprende padroni e schiavi
coinvolti in rapporto di dipendenza, coi primi che comandano e i secondi che
obbediscono. Mancano le catene, per il resto la condizione di servo o di
schiavo è drammaticamente evidente. Così nasce il sistema pontino di
reclutamento e sfruttamento della manodopera bracciantile straniera, indiana in
particolare, nei campi agricoli. L’espressione più truce di un capitalismo
globalizzato, senza più remore e coscienza. Gli indiani vengono sfruttati e non
denunciano, i padroni sfruttano e tacciono, il sindacato, soprattutto la Cgil,
fa quel che può, le mafie proliferano, i cittadini fanno finta di nulla.
Le storie dei braccianti punjabi pontini sono state
raccontate più volte da In Migrazione (www.inmigrazione.it) con articoli, dossier e
documentari. Un impegno costante dedicato a chi spesso non riesce ad esprimere
la propria rabbia. I nuovi schiavisti si fanno chiamare imprenditori. Sono
invece solo sfruttatori, espressione di un capitalismo che pare vincente ma che
è invece fragilissimo e sull’orlo costante della crisi.
Dopo le nostre denunce, avendo avuto accanto sempre la
Cgil, sono iniziate le reazioni. Intimidazioni, violenze, provocazioni,
peraltro sempre denunciate. Ma anche i primi arresti di imprenditori e
faccendieri, i sequestri di alcune aziende agricole, le denunce contro i primi
caporali, a volte anche indiani, le inchieste di Medici senza Frontiere, Medici
per i Diritti Umani, di Amnesty International. Una grande coalizione di donne e
uomini che con coraggio hanno raccolto le testimonianze dei braccianti indiani
e hanno analizzato, studiato e raccontato un inferno invisibile solo agli occhi
di chi vuole essere distratto.
Molti i casi inquietanti. Forse due su tutti meritano di
essere raccontati. Il primo riguarda l’uso di sostanze dopanti da parte dei
braccianti indiani per sopportare le fatiche fisiche e psicologiche subite nei
campi agricoli. Vendita nei campi e assunzione di sostanze nocive che avveniva
e avviene ancora con la complicità colpevole del padrone di turno. Alcuni
braccianti, infatti, assumono metanfetamine, antispastici e oppio per riuscire
a soddisfare gli ordini del padrone che esige sempre di più. Se hai 50 anni non
puoi lavorare per 12 ore al giorno tutti i giorni senza sosta. Ma non puoi
permetterti neanche di perdere quel lavoro. E allora ti dopi. Prendi oppio,
magari con vergogna e di nascosto come mi è capitato più volte di vedere,
perché hai ancora uno o due ettari di carote da raccogliere e sei così stanco
che non riesci quasi a restare in piedi. Il dossier di In Migrazione, Doparsi
per lavorare come schiavi
(http://www.inmigrazione.it/it/dossier/2014—doparsi-per-lavorare-come-schiavi)
ha riportato le prime testimonianze dai braccianti indiani che raccontano il
loro inferno fatto di sostanze dopanti, fatica, sfruttamento e ancora
pochissimi soldi, mentre il saggio contenuto nella collettanea Migranti e territori analizza questo fenomeno
con maggiore precisione e lo confronta con la storia del bracciantato agricolo
italiano della prima metà del Novecento. Dei circa 9 euro l’ora di lavoro
previsti dal contratto provinciale al lavoratore ne arrivano solo tre o
quattro. Il resto rimane nelle tasche del padrone, che li spartisce con il
commercialista di turno, artefice anch’egli dello sfruttamento lavorativo e con
lui tutti quei professionisti che consentono al padrone di evitare i controlli
amministrativi e ispettivi, mimetizzandosi tra le pieghe del sistema ufficiale.
Questo è il capitalismo globale? Le riforme del lavoro vanno sempre in questa
direzione. Aiutano il padrone, riconoscendogli un ruolo sociale che non merita,
sbilanciando i rapporti di potere a suo vantaggio e contribuendo a rendere il
lavoratore ancora più dipendente dalla sua volontà. Ciò vale anche per le
ultime riforme, Jobs Act compreso. Si mortificano i diritti dei lavoratori, la
loro capacità di autodeterminare la propria condizione economica e sociale, di
lottare per i propri diritti, di rappresentanza e si rende muta la dialettica
propria del rapporto tra capitale e lavoro. Di Vittorio reagirebbe portando
milioni di lavoratori, braccianti e operai, in piazza. Darebbe loro la voce che
oggi non hanno. Noi, senza dubbio, facciamo ancora troppo poco.
Il secondo caso riguarda quello di un lavoratore indiano
che dopo aver lavorato per circa tre anni per una retribuzione di circa 400
euro al mese decise di rivolgersi proprio a In Migrazione, per cercare di avere
giustizia. Dopo aver sporto denuncia, a distanza di due anni, si attende ancora
la prima udienza. Nel mentre quel lavoratore, dalla lunga barba e col turbante,
è stato allontanato dal suo ex datore di lavoro e costretto, insieme ai due
testimoni faticosamente trovati, a cercare lavoro fuori regione. Questa è la
giustizia italiana. Le sue inefficienze nascondo ingiustizie che colpiscono
ancora i più deboli e scavano un fossato quasi invalicabile tra poveri e
ricchi.
Intanto gli studi, le interviste, le indagini continuano.
Siamo stati ascoltati dalla Commissione antimafia del Parlamento italiano, ci
siamo costituiti come parte civile nel primo processo contro un imprenditore
agricolo fondano accusato dai suoi stessi lavoratori indiani di truffa
documentale e sfruttamento. Abbiamo avviato il primo sportello legalità con il
progetto Bella Farnia finanziato dalla Regione Lazio e Arsial, e durato solo
sei mesi ma capace di determinare alcune svolte fondamentali. In sole sei mesi,
infatti, abbiamo organizzato un corso di italiano per circa 20 persone, fatto
più di 80 consulente legali gratuite a lavoratori che sino ad allora avevano
conosciuto solo le pratiche dello sfruttamento e la rabbia strumentale del
padrone. Di queste ben 15 sono diventate vere e proprie vertenze giudiziarie
dalle quali ci aspettiamo un minimo di giustizia. Una buona pratica, in
sostanza, riconosciuta anche dal CNR e da alcuni importanti giornali tedeschi,
che meriterebbe di continuare ad operare per saldare un nuovo patto, ancora
fragile, tra la comunità punjabi pontina e gli italiani onesti. Proprio nel
pontino è nata la proposta di introdurre, dopo averlo aggiornato, il reato di
caporalato nel 416bis (associazione mafiosa) così consentendo il sequestro e
poi la confisca delle aziende che praticano la riduzione in schiavitù dei
lavoratori. Ma non basta. Bisogna rimettere al centro il lavoro, i diritti, la
giustizia sociale, saper riconiugare tutto questo in chiave moderna includendo
nella battaglia gli imprenditori onesti e capaci, sconfiggere malaffare, mafie
e le norme e prassi peggiori della Grande distribuzione Organizzata. Proprio
nel Sud pontino esiste il Mercato ortofrutticolo di Fondi, già al centro delle
cronache giudiziarie italiane per la presenza di clan mafiosi che in
associazione lo utilizzavano per i propri loschi affari. Nella battaglia per i
diritti dei lavoratori della terra rientra la lotta contro le mafie dunque, e
la liberazione del Mof dal giogo degli interessi trasversali e dei traffici
illeciti e leciti di mafiosi e sfruttatori che insieme strangolano parte
dell’agricoltura pontina e nazionale.
Intanto ogni giorno nei campi agricoli pontini si ripete
la pratica dello sfruttamento. Coi caporali che lucrano, i padroni che
speculano, i lavoratori che si dopano e a volte muoiono di fatica, i
commercialisti e alcuni consulenti del lavoro che riempiono di soldi le loro
casseforti. Il sistema agromafioso così descritto va sconfitto quanto prima sul
piano culturale, economico e giudiziario. Sapremo presto se esiste questa
volontà politica o meno. Sapremo presto se anche questo governo sta coi padroni
o coi lavoratori. Una via di mezzo, stante la situazione di fatto, non esiste,
se non al costo di accettare una mediocre e ipocrita posizione mediana che
vuole tenere tutto e tutti insieme per puro calcolo di convenienza politica. A
noi non resta che continuare ad ascoltare i lavoratori, le loro storie, le
aspettative di vita, i loro progetti e a denunciare, con cognizione di causa e
coraggio, quanti sulle spalle piegate dei braccianti indiani hanno costruito le
loro fortune, facendosi chiamare padroni e obbligando gli indiani ad abbassare
la testa. Abbassare la testa poi chissà ancora per quanto tempo.
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