lunedì 27 marzo 2017

Rapporto ESCWA cancellato: “Le prassi israeliane nei confronti del popolo palestinese e la questione dell’apartheid”


Il rapporto completo della Commissione ONU economica e sociale per l’Asia Occidentale (ESCWA) di Richard Falk e Virginia Tilley è stato rimosso dal sito web della Commissione delle Nazioni Unite (ESCWA).

La redazione di Zeitun ritiene molto importante tradurre e pubblicare almeno la sintesi del rapporto, che denuncia il regime di apartheid che Israele esercita contro il popolo palestinese sia all’interno dei propri confini che nei territori occupati, compresa Gerusalemme est.

Questo rapporto giunge alla conclusione che Israele ha stabilito un regime di apartheid che domina il popolo palestinese nel suo complesso. Consci della gravità di questa affermazione, gli autori del rapporto concludono che prove a disposizione dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio che Israele è responsabile di politiche e prassi che configurano il crimine di apartheid, in base alla definizione giuridica contenuta nella legislazione internazionale.
L’analisi contenuta in questo rapporto si basa sul corpus delle leggi e dei principi internazionali sui diritti umani, incluse la Carta delle Nazioni Unite (1945), la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) e la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione Razziale (1965), che ripudiano l’antisemitismo ed altre ideologie di discriminazione razziale. Il rapporto basa la sua definizione di apartheid anzitutto sull’articolo II della Convenzione Internazionale sulla Soppressione e Punizione del Crimine di Apartheid (1973, d’ora in poi Convenzione sull’Apartheid):
Il termine “crimine di apartheid”, che include politiche e prassi simili alla segregazione e discriminazione razziale praticate in Sudafrica, si applica a …atti inumani compiuti allo scopo di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale di persone su un altro gruppo razziale e di opprimerlo in modo sistematico.
Benché il termine “apartheid” sia stato originariamente associato alla situazione specifica del Sudafrica, oggi rappresenta una fattispecie di crimine contro l’umanità in base al diritto internazionale consuetudinario e allo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, secondo cui per “il crimine di apartheid” si intendono atti inumani….compiuti nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione sistematica da parte di un gruppo razziale nei confronti di un altro gruppo o gruppi razziali e commessi con l’intenzione di perpetuare tale regime.
In questo contesto, il rapporto riflette il consenso degli esperti sul fatto che la proibizione dell’apartheid è universalmente applicabile e non è stata messa in discussione dalla fine dell’apartheid in Sudafrica e in Africa sud occidentale (Namibia) .
Le prassi israeliane nei confronti del popolo palestinese e la questione dell’apartheid.
L’approccio giuridico alla questione dell’apartheid adottato in questo rapporto non deve essere confuso con l’uso del termine nel discorso corrente come espressione dispregiativa. Considerare l’apartheid come singole azioni e prassi ( quale ad esempio “muro dell’apartheid”), come fenomeno generato da condizioni strutturali astratte come il capitalismo (“apartheid economico”), o comportamento sociale privato da parte di certi gruppi razziali verso altri (razzismo sociale), può essere opportuno in certi contesti. Tuttavia questo rapporto riconduce la sua definizione di apartheid al diritto internazionale, che comporta responsabilità per gli Stati, come specificato nelle norme internazionali.
La scelta delle prove si basa sulla Convenzione sull’Apartheid, che sancisce che il crimine di apartheid consiste in specifici atti inumani, ma tali atti acquisiscono lo status di crimini contro l’umanità solo se intenzionalmente finalizzati allo scopo fondamentale di dominazione razziale. Lo Statuto di Roma specifica nella sua definizione la presenza di un ‘regime istituzionalizzato’ che risponde all’ “intenzione” di dominazione razziale. Poiché “scopo” e “intenzione” sono centrali in entrambe le definizioni, questo rapporto, per stabilire oltre ogni dubbio la presenza di tale scopo fondamentale, prende in esame elementi apparentemente disgiunti dalla situazione palestinese – in particolar modo la dottrina per la costituzione dello Stato ebraico come declinata nella legge ed il progetto delle istituzioni statali israeliane.
Che il regime israeliano sia finalizzato a questo scopo fondamentale trova conferma nel corpo delle leggi, solo alcune delle quali, per ragioni di spazio, vengono prese in considerazione nel rapporto. Un esempio rilevante è la politica della terra. La Legge Fondamentale di Israele (Costituzione) sancisce che la terra di proprietà dello Stato di Israele, dell’Autorità Israeliana per lo Sviluppo o del Fondo Nazionale Ebraico non potrà essere trasferita in alcun modo, stabilendo che la sua gestione resti permanentemente sotto la loro autorità. La Legge della Proprietà dello Stato del 1951 prevede la devoluzione della proprietà (inclusa la terra) allo Stato in ogni area “in cui vige la legge dello Stato di Israele”. L’Autorità Israeliana per la Terra (ILA) gestisce la terra dello Stato, che consiste nel 93% della terra all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti di Israele e vi è per legge vietato l’uso, lo sviluppo o la proprietà da parte di non-ebrei. Queste leggi incarnano il concetto di “finalità pubblica”, come espresso nella Legge Fondamentale. Tali leggi possono essere modificate dal voto della Knesset (Parlamento israeliano), ma non la Legge Fondamentale: la Knesset vieta a tutti i partiti politici di mettere in discussione quella finalità pubblica. Di fatto, la legge israeliana rende illegale l’opposizione alla dominazione razziale.
L’ingegneria demografica è un altro settore della politica che serve allo scopo di mantenere Israele uno Stato ebraico. La più conosciuta è la legge israeliana che conferisce agli ebrei di tutto il mondo il diritto di entrare in Israele ed ottenere la cittadinanza israeliana, qualunque sia il loro Paese di origine ed a prescindere dal fatto che possano o meno dimostrare legami con Israele-Palestina, mentre d’altro lato nega ogni analogo diritto ai palestinesi, compresi quelli con documenti di possesso di antiche case nel Paese. L’Organizzazione Mondiale Sionista e l’Agenzia Ebraica dispongono di autorità legale come agenzie dello Stato di Israele per agevolare l’immigrazione ebraica e salvaguardare in primo luogo gli interessi dei cittadini ebrei su questioni che vanno dall’uso della terra ai piani di sviluppo pubblici ed altri aspetti considerati vitali per lo Stato ebraico. Alcune leggi con contenuti di ingegneria demografica sono formulate con linguaggio implicito, come anche quelle che consentono ai consigli ebraici di respingere le richieste di residenza da parte di cittadini palestinesi.
La legge israeliana permette normalmente ai coniugi di cittadini israeliani di trasferirsi in Israele, ma nega ingiustamente questa possibilità se si tratta di palestinesi dei territori occupati o che vivono all’estero. Su scala molto maggiore, è una prerogativa della politica israeliana rifiutare il ritorno di tutti i palestinesi rifugiati e in esilio (in totale circa sei milioni di persone) nel territorio sotto il controllo di Israele.
Per attribuire ad un regime la qualifica di apartheid devono essere presenti altre due caratteristiche di un regime sistematico di dominazione razziale. La prima riguarda l’identificazione delle persone oppresse come appartenenti ad uno specifico “gruppo razziale”. Questo rapporto recepisce la definizione della Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione Razziale, che definisce “discriminazione razziale” “ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, la stirpe, o l’origine nazionale o etnica, che abbia l’obbiettivo o l’effetto di annullare o ridurre il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, con pari dignità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali nell’ambito politico, economico, sociale, culturale o altri della vita pubblica.” Su questa base il rapporto ritiene che nel contesto geopolitico della Palestina, ebrei e palestinesi possano essere considerati “gruppi razziali”. Inoltre la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione Razziale viene espressamente citata nella Convenzione sull’Apartheid.
La seconda caratteristica sono la delimitazione ed il carattere del gruppo o dei gruppi coinvolti.
Lo status dei palestinesi come popolo titolato ad esercitare il diritto all’autodeterminazione è stato giuridicamente stabilito nel modo più autorevole dalla Corte Internazionale di Giustizia nel suo parere consultivo del 2004 sulle conseguenze legali della costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati. Su questa base, il rapporto prende in esame il trattamento da parte di Israele del popolo palestinese nel suo complesso, considerando le chiare situazioni di frammentazione geografica e giuridica del popolo palestinese come una condizione imposta da Israele. (L’allegato II tratta la questione di una corretta identificazione del “Paese” responsabile della negazione dei diritti palestinesi previsti dalle leggi internazionali).
Il rapporto rileva che la frammentazione strategica del popolo palestinese è il principale metodo con il quale Israele impone un regime di apartheid. Anzitutto prende in esame le prassi israeliane verso il popolo palestinese e la questione dell’apartheid, di come la storia del conflitto, la divisione, l’annessione di diritto e di fatto e la prolungata occupazione in Palestina abbiano portato il popolo palestinese ad essere diviso in diverse zone geografiche amministrate da diversi ordinamenti legislativi. Questa frammentazione agisce nel senso di stabilizzare il regime israeliano di dominazione razziale sui palestinesi ed indebolire la volontà e la capacità del popolo palestinese di organizzare una resistenza unitaria ed efficace. Vengono utilizzati metodi differenti a seconda di dove vivono i palestinesi. Questo è il mezzo principale con cui Israele impone l’apartheid e al tempo stesso impedisce la presa di coscienza internazionale di come funziona il sistema in quanto insieme complementare per costituire un regime di apartheid.
Dal 1967 in poi, i palestinesi in quanto popolo sono vissuti in quelle che il rapporto definisce quattro “ ambiti”, in cui i vari settori della popolazione palestinese vengono chiaramente trattati in modo diverso, ma hanno in comune l’oppressione razziale che deriva dal regime di apartheid. Questi “ambiti” sono:
1.                 Il diritto civile, con particolari restrizioni, che governa i palestinesi che sono cittadini di Israele;
2.                 La legge di residenza permanente che governa i palestinesi residenti a Gerusalemme;
3.                 La legge militare che governa i palestinesi, compresi quelli nei campi profughi, che vivono dal 1967 in una situazione di occupazione aggressiva in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza;
4.                 La politica di negazione del ritorno dei palestinesi, sia rifugiati che esiliati, che vivono fuori dal territorio sotto controllo israeliano.
Il primo ambito comprende circa 1.7 milioni di palestinesi che sono cittadini di Israele. Nei primi 20 anni di esistenza del Paese hanno vissuto sotto la legge marziale ed ancor oggi vengono oppressi per il fatto di non essere ebrei. Questa politica di dominazione si manifesta attraverso peggiore qualità dei servizi, leggi che impongono zone soggette a restrizioni e limitate disponibilità di bilancio per le comunità palestinesi; limitazioni nelle opportunità di lavoro e professionali e il contesto prevalentemente segregato in cui ebrei e palestinesi cittadini di Israele vivono. I partiti politici palestinesi possono condurre campagne per limitate riforme e maggiori finanziamenti, ma la Legge Fondamentale proibisce loro di mettere in discussione la legislazione che perpetua il regime razziale. Questa politica è rafforzata dalle implicazioni derivanti dalla distinzione che avviene in Israele tra “cittadinanza” (ezrahut) e “nazionalità” (le’um): a tutti i cittadini di Israele viene attribuita la prima, ma solo agli ebrei la seconda. Diritti “nazionali” per la legge israeliana significa diritti nazionali ebrei. La lotta dei cittadini palestinesi di Israele per l’uguaglianza e per riforme civili in base alla legge israeliana è perciò tenuta separata da parte del regime da quella degli altri palestinesi.
Il secondo ambito comprende circa 300.000 palestinesi che vivono a Gerusalemme est, che subiscono discriminazioni nell’accesso all’educazione, alla sanità, al lavoro, alla residenza e ai diritti di edificazione. Subiscono anche espulsioni e demolizioni di case, funzionali alla politica israeliana di “bilanciamento demografico” a favore dei residenti ebrei. I palestinesi di Gerusalemme est sono classificati come residenti permanenti, il che li inserisce in una categoria separata creata per impedire che il loro peso demografico e soprattutto elettorale si possa sommare a quello dei cittadini palestinesi in Israele. In quanto residenti permanenti, non hanno una condizione giuridica che consenta loro di mettere in discussione la legge israeliana. Inoltre, identificarsi apertamente con i palestinesi dei territori occupati comporta il rischio politico di essere espulsi in Cisgiordania e di perdere il diritto anche solo di visitare Gerusalemme. Così, l’epicentro urbano della vita politica palestinese è intrappolato in una bolla giuridica che limita la capacità dei suoi abitanti di opporsi legalmente al regime di apartheid.
Il terzo ambito è il sistema di legislazione militare imposto su circa 4.6 milioni di palestinesi che vivono nei territori palestinesi occupati, 2.7 milioni in Cisgiordania e 1.9 milioni nella Striscia di Gaza.
I territori sono amministrati in un modo che corrisponde pienamente alla definizione di apartheid secondo la Convenzione sull’Apartheid: ad eccezione del genocidio, tutti gli evidenti “atti inumani” elencati nella Convenzione sono continuamente e sistematicamente perpetrati da Israele in Cisgiordania. I palestinesi sottostanno alla legge militare, mentre i circa 350.000 coloni ebrei sono sottoposti alle leggi civili di Israele. Il carattere razziale di questa situazione è confermato ulteriormente dal fatto che tutti i coloni ebrei della Cisgiordania godono della tutela del diritto civile israeliano per il fatto di essere ebrei, che siano o no cittadini israeliani. Questo sistema giuridico duale, di per sé problematico, è indicativo di un regime di apartheid se accompagnato dalla gestione discriminatoria su base razziale della terra e dello sviluppo condotta da istituzioni di nazionalità ebraica, che sono incaricate di amministrare “la terra dello Stato” nell’interesse della popolazione ebrea. A sostegno dei risultati complessivi di questo rapporto, l’allegato I illustra più in dettaglio le politiche e le prassi di Israele nei territori palestinesi occupati, che costituiscono violazione dell’articolo II della Convenzione sull’Apartheid.
Il quarto ambito è relativo ai milioni di palestinesi rifugiati ed esiliati contro la loro volontà, la maggior parte dei quali vive in Paesi limitrofi. Gli è vietato il ritorno alle loro case in Israele e nei territori palestinesi occupati. Israele difende la sua negazione al ritorno dei palestinesi con un linguaggio apertamente razzista: si presume che i palestinesi costituiscano una “minaccia demografica” e che il loro ritorno andrebbe ad alterare il carattere demografico di Israele al punto da annullarlo come Stato ebraico.
La negazione del diritto al ritorno gioca un ruolo essenziale nel regime di apartheid,
assicurando che la popolazione palestinese nella Palestina mandataria non cresca al punto da minacciare il controllo militare israeliano dei territori e/o da fornire ai palestinesi cittadini di Israele la leva demografica per richiedere (ed ottenere) pieni diritti democratici, annullando in tal modo il carattere ebraico dello Stato di Israele.
Benché il quarto ambito sia relativo alle politiche di negazione del diritto dei palestinesi al ritorno in base alle leggi internazionali, in questo rapporto esso viene trattato come parte integrante del sistema di oppressione e dominazione del popolo palestinese nel suo complesso, dato il suo ruolo cruciale in termini demografici nel mantenere il regime di apartheid.
Il rapporto rileva che, considerati nel loro insieme, i quattro ambiti costituiscono un regime complessivo sviluppato allo scopo di garantire la continua dominazione sui non-ebrei in tutta la terra sotto l’esclusivo controllo di Israele in qualunque campo. In una certa misura, le differenze di trattamento destinate ai palestinesi sono state provvisoriamente considerate accettabili dalle Nazioni Unite, in assenza di una valutazione circa la possibilità che configurassero una forma di apartheid. Alla luce dei risultati di questo rapporto, questo perdurante approccio internazionale che prende in considerazione aspetti separati necessita di una revisione.
Per rispetto della correttezza e della completezza, il rapporto esamina diverse contro-argomentazioni avanzate da Israele e dai sostenitori delle sue politiche, che negano che la Convenzione sull’Apartheid sia applicabile al caso Israele-Palestina. Esse comprendono le seguenti affermazioni: la determinazione di Israele a rimanere uno Stato ebraico è in linea con le prassi di altri Stati, come la Francia; Israele non è tenuto a trattare in modo uguale i palestinesi non cittadini e gli ebrei, proprio perché i primi non sono cittadini; il modo in cui Israele tratta i palestinesi non riflette alcuno “scopo” o “intenzione” di dominio, è piuttosto una condizione temporanea dettata ad Israele dalla realtà del perdurante conflitto e dalle esigenze di sicurezza. Il rapporto dimostra che nessuna di queste argomentazioni regge all’esame dei fatti. Un’ ulteriore rivendicazione del fatto che Israele non può essere considerato colpevole di crimini di apartheid poiché i cittadini palestinesi di Israele hanno diritto al voto, si basa su due errori di interpretazione giuridica: un paragone eccessivamente letterale con la politica di apartheid sudafricana e il fatto che la questione del diritto di voto è scollegata da altre leggi, soprattutto da quanto previsto dalla Legge Fondamentale, che vieta ai partiti politici di mettere in discussione il carattere ebraico, quindi razziale, dello Stato.
Il rapporto giunge alla conclusione che il peso delle prove giustifica oltre ogni ragionevole dubbio l’affermazione che Israele è colpevole di imporre un regime di apartheid al popolo palestinese, che comporta il commettere un crimine contro l’umanità, il cui divieto è considerato jus cogens (norma cogente, ndtr.) nel diritto internazionale consuetudinario. La comunità internazionale, soprattutto le Nazioni Unite e le relative agenzie, e gli Stati membri hanno l’obbligo legale di agire nei limiti delle loro possibilità per impedire e punire situazioni di apartheid che vengono sottoposte con competenza alla loro attenzione. Più specificamente, gli Stati hanno un compito collettivo: a) non riconoscere come legittimo un regime di apartheid; b) non aiutare o sostenere uno Stato nel mantenere un regime di apartheid; c) cooperare con le Nazioni Unite ed altri Stati per porre fine ai regimi di apartheid. Anche le istituzioni della società civile e i singoli individui hanno il compito morale e politico di usare i mezzi a loro disposizione per risvegliare l’attenzione su questa perdurante impresa criminale e di fare pressione su Israele per convincerlo a smantellare le strutture di apartheid, in conformità con il diritto internazionale. Il rapporto termina con raccomandazioni generali e specifiche alle Nazioni Unite, ai governi nazionali, alla società civile ed ai soggetti privati sulle azioni che dovrebbero intraprendere, alla luce della constatazione che Israele mantiene un regime di apartheid nell’esercitare il controllo sul popolo palestinese.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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