Fare della decrescita,
come hanno fatto certi autori, una variante dello sviluppo sostenibile,
costituisce un controsenso storico, teorico e politico sul significato e sulla
portata del progetto. La necessità, provata da tutta una corrente dell’ecologia
politica e dei critici dello sviluppo, di rompere con il linguaggio fasullo
dello sviluppo sostenibile, ha portato a lanciare, quasi per caso, la parola
d’ordine della decrescita. All’inizio, quindi, non si trattava di un concetto,
e in ogni caso di una idea simmetrica a quella della crescita, ma di uno slogan politico di provocazione, il cui contenuto
era soprattutto diretto a far ritrovare il senso dei limiti; in particolare, la
decrescita non è una recessione e neppure una crescita negativa. La parola
quindi non deve essere presa in considerazione alla lettera: decrescere solo
per decrescere sarebbe altrettanto assurdo di crescere soltanto per crescere.
Tuttavia, i decrescenti volevano far
crescere la qualità della vita, dell’aria, dell’acqua e di una pluralità di
cose che la crescita per la crescita ha distrutto. Per parlare in modo più
rigoroso, si dovrebbe indubbiamente usare il termine a-crescita, con l’ «a»
privativo greco, come si parla di ateismo. In quanto si tratta, d’altronde,
esattamente di abbandonare una fede e una religione. È necessario diventare
degli atei della crescita e dell’economia, degli agnostici del progresso e
dello sviluppo. La rottura della decrescita incide quindi
insieme sulle parole e sulle cose, implica una decolonizzazione
dell’immaginario e la realizzazione di un altro mondo possibile.
La rottura con il
produttivismo e la truffa dello sviluppo sostenibile
Seppure esiste un certo margine di incertezza nel
concatenersi degli avvenimenti, l’emergere di un movimento radicale che propone
una alternativa reale alla società dei consumi e al dogma della crescita,
rispondeva sicuramente a una necessità che non è certo esagerato definire
storica. Di fronte al trionfo dell’ultra liberalismo e all’arrogante
affermazione della famosa Tina (acronimo di There is non alternative,
non vi sono alternative) da parte della Margaret Thatcher, le piccole
massonerie che si opponevano allo sviluppo e che auspicavano il rispetto
dell’ecologia non potevano più accontentarsi di una critica teorica quasi
confidenziale usata solo dai sostenitori del terzomondismo.
Inoltre l’altra faccia del trionfo dell’ideologia del
pensiero unico non era altro che lo slogan consensuale dello «sviluppo sostenibile», un bell’ossimoro lanciato dal Pnue (Programma delle Nazioni Unite per
l’Ambiente) per tentare di salvare la religione della crescita che
doveva fronteggiare la crisi ecologica, e visione nella quale il movimento
antiglobalizzazione sembrava essere perfettamente a suo agio. Diventava urgente
contrapporre al capitalismo di mercato globalizzato un altro progetto di
civilizzazione, o, più esattamente, di dare visibilità ad un disegno, da tempo
in gestazione, ma che si evolveva in modo molto nascosto, quasi sotterraneo. Il
movimento che prende il nome della decrescita trova il suo atto di nascita
durante il colloquio «Disfare lo sviluppo, rifare il mondo», che si è tenuto
all’Unesco nel marzo del 2002, una avventura culturale confermata dalla
nascita, qualche mese più tardi, del giornale La décroissance che
le ha procurato un eco più diffuso.
Diventato rapidamente la bandiera sotto la quale
raccogliersi di tutti coloro che aspirano a costruire una reale alternativa a
una società di consumo ecologicamente e socialmente insostenibile, la
decrescita costituisce ormai uno spettacolo significativo per rendere evidente
la necessità di una rottura rispetto alla società della crescita e per far
emergere una civilizzazione basata su una abbondanza frugale.
La rottura con lo sviluppismo, forma di
produttivismo da offrire in uso ai Paesi cosiddetti in via di sviluppo, è stata quindi la base
fondante di questo progetto alternativo. Ciò si è dapprima manifestato sotto
forma di denuncia dell’etnocentrismo del concetto di sviluppo,
prima ancora della rottura nei confronti del produttivismo come logica
distruttiva dell’ambiente. Su questo punto, il contributo degli antropologi
(Marcel Mauss, Karl Polanyi, Marshall Salhins, ad esempio), ignorato dagli
economisti, è stato fondamentale.
Si tratta allora, con la decrescita di un altro
paradigma economico, che contesta l’ortodossia neoclassica confrontabile con
ciò che è stato il keynesismo a suo tempo? Questo è il significato che tentano
di attribuirgli certe persone sulla scia del progetto di Bioeconomia di
Nicholas Georgescu-Roegen. È chiaro che esistono altre politiche economiche
possibili diverse dall’austerità imposta da Bruxelles all’interno di una
società della crescita. Il periodo chiamato «i trenta gloriosi», (1945-1975)
che ha visto il trionfo della regolamentazione keyneso-fordita ne costituisce
la prova. Tuttavia, in una società della crescita senza una crescita, cioè la
situazione in cui si trovano attualmente i paesi industrializzati, le politiche
economiche alternative a quelle di ispirazione neo-liberista, sembrano
impossibili da realizzare senza rimettere in causa il sistema economico e/o
aggravare la crisi ecologica.
La denuncia della truffa dello sviluppo
sostenibile è fondamentale per comprendere la necessità della rottura che la
decrescita comporta e comprenderne tuta la portata. Questa, in effetti, è insieme un ossimoro e un pleonasma. Un ossimoro
perché in realtà ne la crescita ne lo sviluppo sono in alcun modo sostenibili o
durevoli. Questo è ciò che dimostra l’ecologia ed è il contributo di Nicholas
Georgescu- Roegen: «Una crescita infinità è incompatibile con un pianeta
finito». Un pleonasma, perché Walt Whitman Rostow ne Le tappe della crescita economica definisce lo
sviluppo come una «crescita che si autosostiene», che sarebbe come dire che una
crescita sostenibile o durevole, è una crescita durevole che dura.
Contrariamente a quanto sostengono alcuni dei suoi
difensori, lo sviluppo sostenibile non si è allontanato dal suo significato e
dalla sua funzione originali. Inventata, secondo la leggenda, da alcuni sinceri
ecologisti, il progetto sarebbe stato deviato da alcune cattive imprese transnazionali preoccupate per il green washing, la spinta a mostrare un aspetto
ecologico, e da responsabili politici senza scrupoli. Questo mito, che è duro a
morire, non resiste all’analisi dei fatti. Lo sviluppo sostenibile fu
lanciato esattamente come una marca di detersivo e con una
accurata sceneggiatura, alla Conferenza di Rio del giugno 1992, da un buono, Maurice Strong segretario del Pnud. Poiché
l’operazione seduttiva è pienamente riuscita al di la delle aspettative, le folle sono cadute nella trappola, inclusi gli intellettuali
critici di Attac e gli ecologisti. Verso la fine degli anni
Settanta, lo sviluppo sostenibile si è imposto contro l’espressione più neutra
di «ecosviluppo» , adottata nel 1972 alla Coferenza di Stoccolma, sotto la
pressione della lobby industriale statunitense e grazie all’intervento personale
di Henry kissinger. L’ecosviluppo sembrava troppo «ecologico» e poco
«sviluppo» , soprattutto dopo che il paesi del Sud del Mondo se ne sono
impadroniti alla conferenza di Cocoyoc del 1974, con lo scopo di rivendicare un
nuovo ordine economico internazionale.
Lo sviluppo sostenibile del quale si ritrova
l’invocazione in tutti i programmi politici, «ha solo la funzione – precisa
Hervè Kempf – di mantenere i profitti e di evitare il cambiamento delle
abitudini, modificando appena la superficie». Il fatto che il principale promotore dello sviluppo sostenibile, Stephan
Schmidheiny, si sia rivelato un assassino seriale è quasi
troppo bello per coloro che da anni si scagliano violentemente contro questo
pseudo concetto per denunciare l’intera truffa. Questo miliardario svizzero,
fondatore del World Business Council for Sustainable
Development, eroe di Rio 1992, e che si
presenta sul suo sito come filantropo, non è altro che l’ex-proprietario dell’impresa Eternit, chiamata
in causa durante il processo per l’amianto di Casale Monferrato. L’industriale
condannato dal tribunale di Milano a sedici anni di prigione e il paladino
dell’ecologia industriale e della responsabilità sociale di impresa si sono
scoperti essere la stessa identica persona.
Il progetto della decrescita non è ne
quello di un’altra crescita, né quello di un altro sviluppo (sostenibile,
sociale, solidale, ecc.). Esige di uscire dalla religione della crescita, ma questo aspetto merita di essere spiegato meglio. La crescita è un fenomeno
naturale e in quanto tale è indiscutibile. Il ciclo biologico della nascita,
dello sviluppo, della maturazione, del declino e della morte degli esseri
viventi e la loro riproduzione sono anche la condizione della sopravvivenza
della specie umana, che che deve metabolizzarsi con il suo contesto vegetale e
animale. Gli uomini con molta naturalezza hanno celebrato le forze cosmiche che
garantivano il loro benessere nella forma simbolica del riconoscimento di
questa interdipendenza e del loro debito verso la natura per tutti questi
aspetti.
Il problema nasce quando la distanza tra il simbolico
e il reale scompare. Mentre tutte le società umane
hanno dedicato un culto giustificato alla crescita, solo l’Occidente moderno ne
ha fatto la sua religione. Il prodotto del capitale,
risultato di una astuzia o di una frode commerciale, e quasi sempre di uno
sfruttamento della forza dei lavoratori, è considerato simile all’accrescimento
di una pianta. Con il capitalismo l’organismo economico, cioè
l’organizzazione della sopravvivenza della società, non più in simbiosi con la
natura, ma attraverso un suo sfruttamento senza pietà, deve crescere in modo
infinito, come deve crescere il suo feticcio, il capitale. La riproduzione del
capitale/economia mettono insieme, confondendoli, la fecondità e
l’accrescimento, il tasso di interesse e il tasso di crescita.
Questa apoteosi dell’economia/capitale si trasforma
nel fantasma dell’immortalità della società dei consumi. È in questo modo che
noi viviamo nella società della crescita. La società
della crescita può essere definita come una società dominata da una economia
della crescita e che tende a lasciarsene assorbire. La crescita per la crescita
diventa così l’obiettivo primordiale se non addirittura l’unico dell’economia e
della vita. Non si tratta più di crescere per soddisfare
dei bisogni riconosciuti, cosa che sarebbe ancora positiva, ma di crescere per
crescere. La società dei consumi è l’approdo normale di una società
della crescita. Ciò si basa su una triplice mancanza di limiti: una produzione senza limiti e quindi sono illimitati anche i prelievi delle risorse,
rinnovabili e non rinnovabili; assenza di limiti nei consumi,
e quindi anche nella produzione di bisogni e di prodotti superflui; mancanza di limiti nella produzione di rifiuti e
quindi nelle emissioni di scarichi e di inquinanti (dell’aria, della terra e
dell’acqua).
Per essere sostenibile e durevole, qualunque società
deve porsi dei limiti. Ora, la nostra, si vanta di essersi liberata da
qualunque vincolo e ha optato per la dismisura. Certo, nella natura umana
esiste qualche elemento che spinge l’uomo a superarsi continuamente. Ciò
costituisce insieme la sua grandezza e una minaccia. Così tutte le società,
eccetto la nostra, hanno cercato di canalizzare questa capacità e di farla
lavorare per il bene comune. In effetti, quando la si spende nello sport non
commercializzato, questa aspirazione può non essere nociva. Viceversa, essa
diviene distruttiva quando si lascia libero corso alla pulsione dell’avidità
(«ricercare sempre qualcosa in più») nell’accumulazione di merci e di
denaro. Si deve quindi ritrovare il senso del limite per garantire
la sopravvivenza dell’umanità e del pianeta. Con la decrescita, si intende
uscire da una società fagocitata dal feticismo della crescita. E per questo la
decolonizzazione dell’immaginario è indispensabile.
Il progetto di una
società dell’abbondanza frugale
La parola decrescita indica ormai un progetto
alternativo complesso e che possiede una portata analitica e politica che non
può essere contestata. Si tratta di costruire un’altra società, una società
dell’abbondanza frugale, una società post-crescita (Niko Paech), cioè della
prosperità senza crescita (Tim Jackson). In altre parole, non si tratta di
creare all’improvviso un progetto economico, fosse pure di un’altra economia,
ma un progetto societario che comporta di uscire dall’economia come realtà e
come logica imperialista. Ciò che viene prima è dunque la decolonizzazione
dell’immaginario.
L’idea e il progetto della decolonizzazione
dell’immaginario hanno due fonti principali: la filosofia di Cornelius
Castoriadis da una parte e la critica antropologica dell’imperialismo dall’altra. Queste due fonti si trovano in modo molto
naturale, a fianco della critica ecologica, alle origine della decrescita. In
Castoriadis l’accento è posto naturalmente sull’immaginario, mentre negli
antropologi dell’imperialismo riguarda la decolonizzazione. Per cercare di
pensare ad una uscita dall’immaginario dominante, si deve in primo luogo
riandare al modo con il quale ci siamo entrati, vale a dire al processo di
economicizzazione degli spiriti che si è verificato nello stesso momento della
mercificazione del mondo. Per Castoriadis, come per noi, l’incredibile
resilienza ideologica dello sviluppo si fonda su una non meno stupefacente
resilienza del progresso. Come lo esprime mirabilmente:
«Nessuno più crede veramente nel progresso. Tutti
vogliono avere qualcosa in più nell’anno successivo, ma nessuno crede che la
felicità dell’umanità consista veramente nella crescita del 3 per cento
all’anno del livello dei consumi. L’immaginario della crescita è certamente
sempre lì: è sicuramente il solo che resiste nel mondo occidentale. L’uomo
occidentale non crede più a nulla, se non nel fatto che potrà avere presto un
televisore ad alta definizione» .
D’altra parte, nell’analisi dei rapporti Nord/Sud, la
forma di sradicamento di una credenza si formula volentieri attraverso la
metafora della decolonizzazione. Il termine colonizzazione, utilizzato
correntemente dall’antropologia antimperialista per quanto riguarda le
mentalità, si ritrova nel titolo di numerose opere. Ad esempio, Serge Gruzinski
pubblica, nel 1988, La colonizzazione
dell’immaginario, il cui sottotitolo evoca anche il processo di
occidentalizzazione.
Con la crescita e lo sviluppo, si tratta proprio di
avviare un processo di conversione delle mentalità, quindi di natura ideologica
e quasi religiosa, diretto a fondare l’immaginario del progresso e
dell’economia, ma la violazione dell’immaginario, per riprendere la bella espressione di Aminata
Traorè, rimane simbolica. Con la colonizzazione dell’immaginario in Occidente,
noi abbiamo a che fare con una invasione mentale di cui noi siamo le vittime ma
anche gli agenti. Si tratta ampiamente di una autocolonizzazione, di una servitù in parte volontaria.
La decolonizzazione dell’immaginario comporta quindi
all’inizio, ma non soltanto, un cambiamento della logica o del paradigma, o,
ancora, una vera e propria rivoluzione culturale. Si tratta di uscire
dall’economia, di cambiare i valori, e qundi, in qualche modo, di
disoccidentarsi. E precisamente il programma
sviluppato nel progetto sul dopo sviluppo dei «partigiani» della decrescita.
Il problema dell’uscita dall’immaginario dominante o coloniale, per gli antropologi antimperialisti, come per
noi, è una questione centrale, ma molto difficile, perché non si può decidere
di cambiare il proprio immaginario, e ancora meno quello degli altri,
soprattutto se essi sono «dipendenti» dalla droga della crescita. La cura di
disintossicazione non è completamente possibile fino a quando la società della
decrescita non è stata realizzata. Si dovrebbe preliminarmente essere usciti
dalla società dei consumi e dal suo regime di «cretinizzazione civica», cosa
che ci blocca dentro un cerchio che occorre rompere.
Denunciare l’aggressione pubblicitaria,
oggi veicolo dell’ideologia, costituisce certamente il punto di partenza della
controffensiva diretta a uscire da ciò che Castoriadis chiama «l’onanismo
consumistico e televisivo». Il fatto che il giornale La décroissance sia edito dall’associazione Casseurs de pub , distruttori della pubblicità,
non è certamente dovuto al caso poiché la pubblicità costituisce una forza
essenziale nella società della crescita, e il movimento degli obiettori
della crescita è largamente e naturalmente connesso con la resistenza
all’aggressione pubblicitaria.
Infine, la decrescita non è l’alternativa, ma una matrice di
alternative che riapre l’avventura umana a una pluralità di
destini e lo spazio della creatività sollevando la cappa di piombo del
totalitarismo economico. Si tratta di uscire dal
paradigma dell’homo oeconomicus o dell’uomo a una dimensione di
Marcuse, principale fonte dell’uniformatizzazione planetaria e del
suicidio delle culture. Ne consegue che la società della a-crescita non si
affermerà nello stesso modo in Europa, nell’Africa a sud del Sahara, oppure in
America Latina, nel Texas e nel Chiapas, nel Senegal e nel Portogallo. Ciò che
importa è favorire o ritrovare la diversità e il pluralismo. Non si può dunque
proporre un modello chiavi in mano di una società della decrescita, ma
solamente un abbozzo degli elementi fondamentali di qualunque società non
produttivista sostenibile e degli esempi concreti di programmi di transizione.
Di sicuro, come in tutte le società umane, una società
della decrescita dovrà organizzare la produzione necessaria per la sua vita e a
questo scopo dovrà utilizzare in modo ragionevole le risorse offerte dal
proprio ambiente e consumarle attraverso la realizzazione di beni materiali e
di servizi, ma un pò come le società dell’abbondanza dell’età della pietra,
descritte da Marshall Salhins, che non sono mai entrate nell’epoca
dell’economia. Essa non lo farà costretta nel busto di ferro della rarità, dei bisogni,
del calcolo economico e dell’homo oeconomicus. Queste
basi immaginarie dell’istituzione dell’economia devono anche essere rimesse in
discussione. Come aveva ben visto ai suoi tempi il
sociologo Jean Baudrillard, il consumerismo genera «una pauperizzazione
psicologica», uno stato di insoddisfazione generalizzato, che, egli
dice, «definisce la società della crescita come il contrario di una società
dell’abbondanza».
La frugalità ritrovata permette di ricostruire una
società dell’abbondanza sulla base di quella che Ivan Illich definiva
la «sussistenza moderna». Vale a dire »un modo di
vivere in una economia post-industriale all’interno della quale le persone
possono ridurre la loro dipendenza rispetto al mercato , e dove sono pervenuti
proteggendo – con dei mezzi politici – una infrastruttura nella quale le
tecniche e gli strumenti servono, in primo luogo, a creare dei valori d’uso non
quantificati e non quantificabili dai fabbricanti professionisti di bisogni».
Su questa base si è imposta l’idea che una società senza crescita che sia
sostenibile, giusta e prospera non può essere che frugale.
L’abbondanza frugale quindi non è più un ossimoro ma
una necessità logica. «La scelta (…), nota intelligentemente Jacques Ellul, è tra una austerità subita, ingiusta,
imposta dalle circostanze sfavorevoli, e una frugalità comune, generale,
volontaria e organizzata, che deriva da una scelta più di libertà e meno di
consumo di beni materiali. Essa sarà legata ad un consumo diffuso di beni di
base (…) una abbondanza frugale».
Se l’orizzonte di senso così definito e sintetizzato
nella forma dei cerchi virtuosi delle 8R (Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare,
Ridistribuire, Rilocaliazzare, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare) presuppone una
rottura veramente rivoluzionaria, i programmi di transizione saranno necessariamente riformisti. Di
conseguenza, molte delle proposte «alternative» che non rivendicano
esplicitamente la decrescita possono trovare un loro spazio. La decrescita
offre così un quadro generale che da un senso a numerose lotte settoriali o
locali favorendo dei compromessi strategici e delle alleanze tattiche.
Uscire dall’immaginario economico implica tuttavia delle
rotture molto concrete. Si tratterà di fissare delle
regole che inquadrino e limitino lo scatenarsi delle avidità degli operatori
(ricerca del profitto, del sempre di più): protezionismo ecologico e sociale,
legislazione del lavoro, limitazioni delle dimensioni delle imprese,ecc. E in
primo luogo, la «demercificazione» di quelle tre merci fittizie (nel senso di
Polanyi) che sono il lavoro, la terra e la moneta. Il loro
ritiro dal mercato globalizzato segnerebbe il punto di inizio di una
reincorporazione/reincastramento dell’economico nel sociale, nello stesso tempo
di una lotta contro lo spirito del capitalismo. La ridefinizione della felicità
come «abbondanza frugale in una società solidale» corrispondente alla rottura
creata dal progetto della decrescita presuppone di uscire dal cerchio infernale
della creazione illimitata dei bisogni e dei consumi e dalla frustrazione
crescente che esso comporta. L’autolimitazione è la condizione per conseguire
una prosperità senza crescita ed evitare in questo modo l’annientamento della
civilizzazione umana.
Conclusione
I recenti dibattiti sulla significatività degli
indicatori di ricchezza, hanno avuto il merito di ricordare l’inconsistenza del
prodotto interno lordo, il Pil, come indice che
possa permettere di misurare il benessere, mentre costituisce il simbolo
feticcio indissolubilmente funzionale alla società della crescita. Non ci si è
abbastanza accorti in quell’occasione che è la stessa inconsistenza ontologica
dell’economia che è messa in evidenza nello stesso momento. Criticando il Pil,
sono le fondamenta stesse della fede nell’economia o dell’eonomia come
religione che vengono ridotte in pezzi. L’economia come discorso
presuppone il suo oggetto, la vita economica che non esiste come tale soltanto
in grazia ad essa. In effetti, quale che sia la definizione di economia
politica che si è scelta, quella dei classici (produzione, distribuzione,
consumo) o quella dei neoclassici (allocazione ottimale delle risorse rare di
uso alternativo), l’economia esiste solo a condizione di presupporre se stessa.
Il campo specifico della pratica e della teoria
perseguite non può essere delimitato se la ricchezza come l’allocazione delle
risorse concernono soltanto l’economia. Garry Becker è più coerente quando
afferma che tutto ciò che costituisce l’oggetto di un desiderio umano fa di
diritto parte dell’economia, salvo che se tutto è economico, niente lo è. In
questo caso, la quantificazione totale del sociale e l’ossessione calcolatrice che egli descrive non sono
che il risultato di un colpo di mano, quello della istituzione del capitalismo
come mercificazione totale del mondo. È proprio contro questo
progetto di trasformazione del mondo in merci che la globalizzazione ha
largamente contribuito a realizzare che intende reagire il movimento della
decrescita.
.
* Intervento preparato per un incontro promosso a
Dublino (il 24 e 25 febbraio 2017) dal titolo “La via della decrescita
come risposta all’inganno dello sviluppo sostenibile”.
Traduzione per Comune di Alberto Castagnola.
La decrescita "felice" dovrebbe essere il pilastro fondamentale di ogni politica seria, "sostenibile", innovativa e solidale.
RispondiEliminafinora abbiamo conosciuto una crescita incasinata, mangiatrice di futuro :(
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