mercoledì 17 febbraio 2016

Osando pensare in grande - Giulio Angioni


Durante gli ultimi decenni della guerra fredda, dopo gli impegnatissimi primi anni costituenti e di costruzione e tenuta della democrazia, e in Sardegna dell’autonomia, si era costretti dai sussulti della storia a un impegno e a una progettualità che si sono attenuati nei tre lustri del berlusconismo. Il quale ha come conseguenza anche l’abbandono della progettualità sociale e politica, che in Sardegna per decenni è stata la progettualità che si etichettava con la rinascita economica e sociale, nel solco dell’autonomia, dell’autogoverno. Questo è appunto il luogo del ragionare e proporre ancora oggi: la vecchia e nuova progettualità della rinascita, forse non tanto fallita, bensì mai nata, solo abortita tanto quanto e insieme con la forma di autogoverno finora sperimentato, da ultimo ripreso e certo ancora da meglio organizzare a livello costituzionale, statutario, con una sovranità ricalibrata in ambito comunitario europeo.
Autonomia e rinascita. Chi contesterebbe che sono ancora questi i termini della questione sarda, oggi come ieri, cioè i modi del nostro autogoverno e i modi del nostro produrre più ricchezza e meglio socialmente distribuita?
I sessant’anni di autonomia che tenta la rinascita danno per quasi tutti i sardi un bilancio negativo. La Sardegna è cambiata in questi sei decenni, e molto, fin troppo e troppo presto, con vertigini culturali notevoli, misurabili nella dismisura anche estetica dell’uso delle risorse ambientali e dei modi tradizionali di vivere. Credo anche che si possa dire con qualche verità che ciò che è accaduto in Sardegna negli ultimi sessant’anni è accaduto per lo più come sarebbe accaduto senza governo regionale autonomo. E credo anche che sia questo che i sardi rimproverano e si rimproverano rispetto al governo regionale, che non tutti pensano nei termini quasi affettuosi di Mamma-Regione. Verso l’istituto regionale sardo c’è delusione e anche ostilità. La politica sporca del dire comune in Sardegna è soprattutto quella vicina della Regione, molto più di quella ancor più vicina della provincia e del comune. Infatti, tutto ciò che è accaduto di importante, nel male e nel bene, qui è accaduto nonostante, senza e contro l’autonomia regionale, a cominciare dalla rinascita mai nata. Ma anche dall’industrializzazione all’emigrazione, dall’istruzione pubblica alle forme nuove o finite di produzione negli ambiti tradizionali dell’agricoltura, della pastorizia, delle miniere, della salvaguardia e dello scempio dell’ambiente e dei modi dell’abitare e dell’urbanistica. Certo, anche per carenze e ambiguità di compiti autonomistici rispetto ai poteri centrali statali e comunitari. E si può anche capire che a chi ha vissuto la politica sarda e nazionale con passione e impegno, possa non apparire proprio così. Ma è abbastanza così per il senso comune dei sardi, a cui non si può rimproverare di non saper distinguere le responsabilità tra poteri regionali, nazionali e comunitari. Del resto, nell’Europa mediterranea e in genere nel mondo, il grande cambiamento è accaduto abbastanza allo stesso modo a prescindere dalle forme di autonomie locali. Il che non scusa i governi locali, anzi ne aggrava il coinvolgimento nel mal fatto oppure il ruolo di mosche cocchiere del ben fatto.
Ma si hanno ancora molte ragioni quando si confida nell’ottimismo di fondo e nella capacità dei sardi che credono possibile il riscatto, la rinascita, il rifiorimento, confidando in se stessi e nel loro modo di comprendere come e dove va il mondo, senza lasciarselo dire solo da Roma o da Bruxelles. La Sardegna oggi è più che mai nel mondo nel bene e nel male. Del male dei tempi condivide in peggio l’incapacità di usare le risorse disponibili, a cominciare da quelle che diciamo umane, cioè le sole esistenti in quanto capacità degli uomini concreti di costruire forme di vita concrete. E’ lampante e doloroso per tutti che forma di vita di oggi distrugge risorse ambientali e non utilizza gli uomini giovani più pronti all’azione sociale comune, al lavoro. Essere giovani oggi in Occidente, e in Sardegna anche di più, significa non avere né presente né futuro. Soprattutto perché non c’è progetto politico chiaro, pubblico, condiviso. Manca, cioè, l’idea di un buon futuro per la propria terra, per la propria comunità in quanto realtà costruite con un progetto sempre in costruzione, sempre in rinascita. Da qui, l’immenso spreco di tante risorse umane, che sono umane anche quando le diciamo naturali, territoriali, ambientali.
Non si insiste mai abbastanza sul tema del lavoro, che è rapporto operativo con la natura a fini umani, ma finalmente secondo una economia sana. Economia sana che oggi in Sardegna implica lotta per imporre, contro gli interessi peggiori del capitalismo sardo, italiano e internazionale di questi tempi, forme di lavoro produttivo meno subalterno e meno periferico di rapina. Secondo alcuni siamo passati ad un nuovo modo di produzione capitalistico, definito capitalismo cognitivo, che mette in valore non più la forza fisica degli operai, ma le capacità relazionali e comunicative, per cui si sarebbe passati in questi ultimi decenni dalla messa in valore di una forza produttiva materiale a una sempre più immateriale e intellettuale. Questa sorta di smaterializzazione del lavoro avrebbe portato alla indistinzione dei luoghi della produzione e della riproduzione, all’indistinzione tra fabbrica, università e metropoli capitalista. Dunque sarebbe scomparsa la classe operaia e la lotta di classe, perché si è passati dalla fabbrica degli oggetti (cioè dalla produzione di merce materiale) alla fabbrica delle parole (cioè alla produzione di merce immateriale). Insomma la classe operaia non esisterebbe più e anzi non produrrebbe più beni, perché non sarebbe più il lavoro a produrre i beni, ma la scienza e la tecnica. Una conseguenza politica di questa visione è che le conoscenze sarebbero diretti mezzi di produzione e così, per esempio, lo studente diverrebbe immediatamente produttivo nell’università, e l’università si trasformerebbe nella ‘fabbrica del sapere’.
Il sapere però non è direttamente produttivo, ma passa attraverso la riduzione del lavoro umano in capitale. Si sostiene che il capitalismo oggi con l’informatica valorizza tutto intero l’uomo, anche le sue capacità intellettuali e relazionali, utili per la produzione di quelle merci particolari che sono le informazioni. Ma le merci cognitive non si producono da sole, come nemmeno i macchinari della fabbrica, anche quando a produrli sono altri macchinari o altre merci cognitive come i programmi per i computer. Dietro le merci, materiali o immateriali, e oggettivato in esse c’è sempre il lavoro umano, fisico e intellettuale. La scomparsa della classe salariata dei lavoratori-operai è purtroppo solo un miraggio: sono cambiati solo i luoghi e le modalità del lavoro e dello sfruttamento dei lavoratori. Quando il lavoro nelle fabbriche non è stato delocalizzato (sempre di operai si tratta, anche se di altre nazioni più povere), esso è stato frantumato, subappaltato, esternalizzato, precarizzato, allargando progressivamente la fascia dei lavoratori non garantiti, spingendo i lavoratori nel lavoro nero, senza contare lo sfruttamento anche di tipo schiavistico degli extracomunitari con o senza permesso di soggiorno, ultimi fra gli ultimi. E intanto gran parte della Sardegna è messa all’asta: aziende agricole, complessi industriali, compendi territoriali pubblici.

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