giovedì 25 febbraio 2016

un'intervista a Julio Cortázar

Quando Julio Cortázar è morto di cancro nel febbraio del 1984 all’età di sessantanove anni, il quotidiano di Madrid El Pais lo acclamò come uno dei più grandi scrittori latino-americani pubblicando su due giorni undici pagine piene di tributi, ricordi e addii.
Benché Cortázar abbia vissuto a Parigi dal 1951, ha regolarmente visitato la natia Argentina finché non è stato ufficialmente esiliato nei primi anni 70 dalla giunta argentina, risentita per alcuni suoi brevi racconti. Con la vittoria dello scorso autunno del governo di Alfonsín per mezzo di elezioni democratiche, Cortázar ha avuto la possibilità di fare un’ultima visita alla suo paese d’origine. Il ministro della cultura di Alfonsín ha scelto di non dargli alcun benvenuto ufficiale, temendo che le sue vedute politiche fossero troppo a sinistra. Ma lo scrittore è stato nondimeno salutato come un eroe al rientro. Una notte, a Buenos Aires, uscendo da un cinema dopo aver visto un nuovo  film basato sul romanzo di Osvaldo Soriano “No habrá más penas ni olvido” (Mai più pene nè oblio), Cortázar e i suoi amici hanno incontrato degli studenti che manifestavano, e questi, intravedendo lo scrittore, gli hanno fatto largo nel corteo accalcandosi intorno a lui. Le librerie sui viali erano ancora aperte e gli studenti si sono affrettati per fare incetta delle copie dei libri di Cortázar affinché potesse autografargliele. Un edicolante, scusandosi di non avere più libri di Cortázar gli ha offerto un romanzo di Carlos Fuentes da autografare.
Cortázar è nato a Bruxelles nel 1914. Quando, dopo la guerra, la sua famiglia fece ritorno in Argentina, lui crebbe a in Banfield, non lontano da Buenos Aires. Conseguì una laurea come insegnante di scuola e andò a lavorare in una città della provincia di Buenos Aires fino agli inizi degli anni 40, per giunta scrivendo per se stesso. Una delle sue prime storie pubblicate –“Casa tomada”(La casa presa) -  originato da un suo sogno, apparse nel 1946 su una rivista curata da Jorge Luis Borges. Comunque, è stato dopo il suo trasferimento a Parigi nel 1951 che ha iniziato a pubblicare sul serio. A Parigi, ha lavorato come traduttore e interprete per l’UNESCO e altre organizzazioni. Tra gli autori da lui tradotti, ci sono Poe, Defoe e Marguerite Yourcenar. Nel 1963,è con il suo secondo romanzo - “Rayuela” (Il gioco del mondo) –, sulle ricerche metafisiche ed esistenziali dell’Argentina attraverso la vita notturna di Parigi e Buenos Aires, che s’é creato il nome di Cortázar.
Sebbene sia conosciuto soprattutto come uno dei maestri moderni del racconto breve, i quattro romanzi di Cortázar hanno dimostrato una pronta innovazione di forma, mentre, allo stesso tempo, esploravano questioni basilari sull’uomo nella società. Questi comprendono: “Los premios” (1960); “62: modelo para armar” (1968), in parte basato sulla sua esperienza di interprete; e “Libro de Manuel” (1973), sul rapimento di un diplomatico latinoamericano. Ma sono le storie di Cortázar che hanno più direttamente richiesto il suo coinvolgimento con il fantastico. Il suo più celebre racconto ha fatto da base per l’omonimo film di Antonioni: Blow-Up. Sinora, sono apparse cinque raccolte dei suoi racconti in inglese; la più recente è “We Love Glenda So Much” (Queremos tanto a Glenda; Tanto amore per Glenda). Poco prima di morire, è stato pubblicato un diario di viaggio – “Los autonautas de la cosmopista, viaje atemporal París-Marsella”(Gli autonauti della cosmo strada – viaggio atemporale sull’autostrada Parigi-Marsiglia) – in cui ha collaborato con sua moglie,Carol Dunlop, durante un viaggio da Parigi a Marsiglia a bordo di un camper. Pubblicato simultaneamente in spagnolo e francese, Cortázar cedette tutti i diritti d’autore al governo sandinista del Nicaragua: il libro da allora è un campione di vendite. Sono state pubblicate anche due raccolte postume dei suoi articoli di carattere politico sul Nicaragua e sull’Argentina.
Lungo tutto l’arco dei suoi anni d’esilio a Parigi, Cortázar ha vissuto in diverse zone della città. Nell’ultimo decennio, i diritti dei suoi libri gli hanno permesso di comperarsi una casa. L’appartamento, in cima a un edificio in un quartiere di grossisti e di negozi di porcellane, sarebbe potuto essere il teatro di una delle sue storie: spazioso, benché affollato di libri e con le pareti foderate dai dipinti degli amici.
Cortázar era un uomo alto – 1,95 mt – benché più magro di quanto rivelino le sue fotografie. Gli ultimi mesi prima di quest’intervista, sono stati particolarmente difficili per lui, dal momento che Carol, la sua ultima moglie di trent’anni più giovane di lui, è recentemente morta di cancro. Per di più, i suoi lunghi viaggi, specialmente in America Latina, lo hanno ovviamente esaurito. Quando abbiamo iniziato a parlare, era tornato a casa appena da  una settimana, rilassandosi finalmente sulla sua sedia preferita a fumare la pipa.

JASON WEISSIn alcune delle storie del tuo libro più recente – Deshoras (Disincontri) – il fantastico sembra sconfinare nel mondo reale più che mai. Ti sei sentito come se il fantastico e il luogo comune divenissero una cosa sola?

JULIO CORTÁZAR: Sì, in quelle storie ho avuto la sensazione come se ci fosse minore distanza tra ciò che chiamiamo fantastico e ciò che chiamiamo reale. Nelle mie narrazioni precedenti, questa distanza era maggiore, dato che il fantastico era davvero tale e qualche volta toccava il sovrannaturale. E naturalmente, il fantastico si accompagna alla metamorfosi, cambia. La nozione del fantastico che si aveva all’epoca dei romanzi gotici in Inghilterra, per esempio, non ha niente a che vedere con il concetto che ne abbiamo oggi. Ora noi ridiamo quando leggiamo il Castello di Otranto di Horace Walpole: fantasmi vestiti di bianco, scheletri che vanno in giro facendo rumori con le catene. Oggi, la mia nozione del fantastico è più vicina a ciò che chiamiamo realtà. Forse, perché la realtà si avvicina sempre di più al fantastico.

JW: Negli ultimi anni, hai speso gran parte del tuo tempo per sostenere varie lotte di liberazione in America Latina. Ti ha aiutato ad avvicinare il reale e il fantastico, rendendoti più serio? 

JULIO CORTÁZAR: Beh, non mi piace l’idea di “serio”, perché non credo di essere serio, almeno non nel senso comune di uomo serio o donna seria. Ma negli ultimi anni gli impegni relativi ad alcuni regimi latinoamericani - Argentina, Cile, Uruguay e, soprattutto ora, Nicaragua – mi hanno assorbito a tal punto che, secondo me, in determinate storie ho usato il fantastico per trattare questo argomento in modo molto vicino alla realtà. Quindi, mi sento meno libero di prima. Cioè, trent’anni fa scrivevo cose che mi venivano in mente e le giudicavo usando solo criteri estetici. Ora, sebbene continui a giudicarle con criteri estetici data la mia natura primaria di scrittore, mi sento un autore tormentato, molto preoccupato dalla situazione in America Latina; di conseguenza questo stato spesso scivola nella mia scrittura, in maniera cosciente o incosciente. Malgrado le storie con veri e propri riferimenti a questioni ideologiche e politiche, i miei racconti non sono essenzialmente cambiati. Continuano a essere storie del fantastico.
Il problema per uno scrittore engagé, o impegnato come li chiamano adesso, è di continuare a essere uno scrittore. Se ciò che scrive diventa semplicemente letteratura dal contenuto politico, può diventare veramente mediocre. Ed è ciò che è accaduto a molti scrittori. Perciò, il problema è l’equilibrio. Per me, ciò che devo sempre fare è letteratura, la più alta possibile. . . per andare oltre il possibile. Ma, allo steso tempo, devo cercare di inserire una mescolanza di realtà contemporanea. E questo risulta essere un equilibrio davvero difficile. Nel racconto contenuto in Deshoras(Disincontri) sui topi, intitolato “Satarsa” - un episodio basato sulla lotta contro le guerriglie argentine – la tentazione era quella di rimanere al solo livello politico.

JW: Qual è stata la reazione a questo tipo di racconti? Ti risulta una grande differenza tra le reazioni ricevute dagli ambienti letterari rispetto a quelli politici?

JULIO CORTÁZAR: Certo. In America Latina, i lettori borghesi indifferenti alla politica o quelli schierati con la destra, beh, loro non si preoccupano degli stessi problemi che turbano me, ovvero lo sfruttamento, l’oppressione e così via. Quelle persone si rammaricano del fatto che i miei racconti prendano spesso una piega politica. Altri lettori amano le mie storie; sono  soprattutto quelli giovani e che condividono le mie opinioni, il mio sentire, il mio bisogno della lotta e che adorano la letteratura. I cubani apprezzano Reunión (Reunión. Che Guevara e lo sbarco a Roma). Apocalisse di Solentiname è un racconto che i nicaraguensi leggono e rileggono con grande piacere.

JW: Cos’è che ha determinato l’intensificazione del tuo impegno politico?

JULIO CORTÁZAR: I militari in America Latina: sono loro quelli che mi fanno lavorare più duramente. Se venissero rimossi, se ci fosse un cambiamento, allora potrei riposarmi un pò e mettermi a lavorare su poesie e racconti esclusivamente letterari. Ma sono loro a fornirmi il lavoro da fare.

JW: In diversi momenti, hai detto che per te la letteratura è come un gioco. In che senso?

JULIO CORTÁZAR: Secondo me, la letteratura è una forma di gioco. Ma ho sempre aggiunto che esistono due forme di gioco: il calcio, per esempio, che è fondamentalmente un’attività ludico-sportiva, e poi esistono giochi che sono molto profondi quanto seri. Quando i bambini giocano, benché si stiano divertendo, lo fanno molto seriamente. È importante. È talmente importante per la loro età, così come lo sarà l’amore dieci anni dopo. Ricordo di quando ero piccolo e i miei genitori mi dicevano: “D’accordo, hai giocato abbastanza, ora vieni a farti il bagno”. Lo trovavo completamente stupido, perché per me il bagno era un fatto sciocco. Non m’importava di niente, ma giocare con i miei amici costituiva una cosa seria. La letteratura è così: è un gioco, ma nel quale si può mettere in ballo la propria vita. Si può fare tutto per quel gioco.

JW: Hai cominciato a interessarti al fantastico già da giovane?

JULIO CORTÁZAR: È iniziato durante la mia infanzia. La maggior parte dei miei compagni di classe non avevano alcun senso del fantastico. Prendevano le cose per come erano . . . questa è una pianta, questa una poltrona. Ma per me le cose non erano così ben definite. Mi ha incoraggiato una persona molto fantasiosa e tuttora viva: mia madre. Invece di dirmi “No, no, dovresti essere serio”, le faceva piacere che usassi la fantasia; quando mi sono rivolto al mondo del fantastico, lei mi ha aiutato regalandomi dei libri da leggere. Ho letto Edgar Allan Poe per la prima volta quando avevo solo nove anni. E rubai quel libro, perché mia madre non voleva, lei pensava che fossi troppo giovane per leggerlo. E aveva ragione: il libro mi spaventò e mi ammalai per tre mesi, perché credetti alle cose che avevo letto. . . croire dur comme fer, credere ciecamente come dicono i francesi. Non avevo alcun dubbio che il fantastico fosse assolutamente naturale. Ecco come sono andate le cose. E quando diedi questo genere di libri ai miei amici, dissero “Ma no, preferiamo leggere le storie dei cowboys” - cowboys che erano particolarmente popolari a quel tempo. Non lo capivo. Preferivo il mondo del sovrannaturale, del fantastico.

JW: Quando poi, molti anni dopo, hai tradotto l’opera completa di Poe, da questa lettura più ravvicinata sei riuscito a scoprire cose nuove per te?

JULIO CORTÁZAR: Molte, molte cose. Ho esplorato il suo linguaggio, criticato sia dagli inglesi che dagli statunitensi perché ritenuto troppo barocco. Non essendo io né inglese né statunitense, posso osservarlo da un’altra prospettiva. So che ci sono aspetti superati, esagerati, ma questo non è niente in confronto al suo genio. A quei tempi, scrivere The Fall of the House of Usher (La caduta della casa degli Usher), LigeiaBerenice o The Black Cat (Il gatto nero), o qualunque di questi, dimostra un vero genio per il fantastico e il sovrannaturale. Ieri, ho fatto visita a un amico in rue Edgar Allan Poe. Sulla strada c’è una targa commemorativa che recita: “Edgar Poe, scrittore inglese”. Lui non era affatto inglese. Dovremmo farla cambiare e protestare tutti e due!

JW: In aggiunta al fantastico, nella tua scrittura si trovano affetto e calore reali per i tuoi personaggi.

JULIO CORTÁZAR: Quando si tratta di personaggi bambini o adolescenti, ho molta tenerezza nei loro confronti. Credo che siano molto reali nei miei racconti; li tratto con molto amore. Quando scrivo un racconto in cui il personaggio è un adolescente, io sono l’adolescente mentre lo scrivo. Diverso è con i personaggi adulti.

JW: Molti dei tuoi personaggi si basano su persone che hai conosciuto?

JULIO CORTÁZAR: Non direi molti, ma qualcuno. Molto spesso ci sono personaggi che sono un misto di due o tre persone. Per esempio, ho messo insieme un personaggio femminile da due donne che ho conosciuto. E questo dona al personaggio nel racconto o nel libro una personalità più complessa, più intricata.

JW: Intendi dire che quando senti la necessità di ispessire un personaggio, ne combini due insieme?

JULIO CORTÁZAR: Le cose non funzionano così. Sono i personaggi a darmi la direzione. Vale a dire: osservo un personaggio – è lì – e vi riconosco qualcuno di mia conoscenza, oppure occasionalmente due un pò mischiati tra loro. Ma lì finisce. Dopotutto, il personaggio agisce per conto suo. Dice cose…Mentre scrivo un dialogo, di loro non so mai cosa stanno per dire. In realtà, dipende da loro: io mi limito a battere a macchina ciò che dicono. Delle volte, scoppio a ridere o tiro via una pagina e dico: “Ecco, hai detto delle cose stupide. Via!”, e inserisco un altro foglio e ricomincio daccapo il loro dialogo.

JW: Perciò, non sono i caratteri che hai conosciuto a spingerti a scrivere?

JULIO CORTÁZAR: No, nient’affatto. Spesso ho un’idea per una storia, ma ancora non ho i personaggi. Mi viene in mente una strana idea: qualcosa sta per accadere in una casa di campagna, la immagino…ho un grande senso visivo quando scrivo, immagino completamente la scena: vedo tutto. Quindi, immagino questa casa di campagna e poi, all’improvviso, comincio a ubicare i personaggi. A questo punto, uno dei personaggi potrebbe  essere qualcuno di mia conoscenza. Ma non è una cosa certa. Alla fine, la maggior parte dei miei personaggi risultano essere inventati. E poi, naturalmente, ci sono io. In Rayuela (Il gioco del mondo), ci sono molti riferimenti autobiografici nel personaggio di Oliveira: non sono io, ma molto deriva dai miei primi giorni da bohémien a Parigi. Tuttavia, chi legge Oliveira come il Cortázar a Paris cadrebbe in errore. No, no, ero molto diverso.

JW: Questo è perché desideri che la tua scrittura non sia autobiografica?

JULIO CORTÁZAR: Non mi piace l’autobiografia. Non scriverò mai le mie memorie. Naturalmente, mi interessano le autobiografie degli altri, ma non la mia. Se scrivessi la mia autobiografia, dovrei essere sincero e onesto. Non saprei raccontare un’autobiografia immaginaria. Quindi, dovrei fare un lavoro da storico, diventare un auto-storico. E questo mi annoia, perché preferisco inventare, immaginare. Naturalmente, accade molto spesso che, quando ho un’idea per un romanzo o un racconto, situazioni e momenti della mia vita si collocano in quel contesto. Nel mio racconto Deshoras (Disincontri), l’idea del ragazzo innamorato della sorella maggiore del suo amico, in realtà è basata su una situazione autobiografica; ma da lì in avanti, dominano il fantastico o l’immaginario.

JW: Come procedi con l’inizio delle tue storie? Usi un particolare passaggio, un’immagine?

JULIO CORTÁZAR: Con me, racconti e romanzi possono iniziare dovunque. Come per la scrittura in sé, quando inizio a scrivere, la storia mi è girata in testa per molto tempo, talora per settimane. Seppure non in maniera chiara: è una sorta di idea generale della storia. Magari quella casa dove c’è una pianta rossa nell’angolo e so che c’è un uomo anziano che cammina intorno a quella casa. Questo è tutto quello che so. Succede così. E poi ci sono i sogni. Durante questo periodo di gestazione, i miei sogni sono pieni di riferimenti e allusioni a ciò che esisterà nel racconto. Alle volte, l’intera storia è un sogno. Uno dei miei primi e più famosi racconti – Casa tomada (La casa presa) – è un mio incubo che, appena risvegliato, ho subito scritto. Ma, in generale, ciò che viene fuori dai sogni sono frammenti di riferimenti. Vale a dire che, mentre sogno, la storia è scritta al suo interno. Perciò, quando ho detto che le storie possono iniziare dovunque, è perché, a quel punto, non conosco l’inizio o la fine. L’inizio è quando comincio a scrivere. Non decido come deve iniziare una storia: semplicemente, inizia lì, in quel momento, poi continua e, molto spesso,  non ho una chiara idea sulla fine, non sapendo ciò che sta per accadere. È con la gradualità, mentre la storia và avanti, che le cose diventano più chiare e improvvisamente vedo la conclusione.

JW: Quindi, scopri la storia mentrela scrivi

JULIO CORTÁZAR: Esatto. È come l’improvvisazione del jazz. Chiederesti mai a un musicista jazz cosa sta per suonarti? Ti riderebbe in faccia. Lui ha un tema, una serie di accordi che deve rispettare; allora, prende in mano la sua tromba o il sassofono e parte. Non è una questione di idea. Esegue la sua musica attraverso una serie di diverse vibrazioni interne. Alle volte riesce bene, altre volte no. E lo stesso è per me. Certe volte mi capita di essere un pò imbarazzato ad autografare i miei racconti. Mentre non succede per i romanzi: ci lavoro molto e c’è un’intera architettura. Ma per i miei racconti, è come se mi venissero dettati da qualcosa che è in me di cui non sono responsabile. Beh, a quanto sembra anche loro sono miei; quindi, credo di doverli accettare!

JW: Esistono degli aspetti nella scrittura di un racconto che ti creano problemi?

JULIO CORTÁZAR: In generale, no, perché, come spiegavo, il racconto è già creato da qualche parte in me. Quindi, ha la sua dimensione e struttura; se diventerà un racconto breve o piuttosto lungo, è come se fosse una questione decisa in anticipo. Ma, di recente ho iniziato ad accorgermi di alcuni problemi. Scrivo più lentamente e rifletto di più davanti al foglio. E scrivo in uno stile più sobrio, essenziale. Alcuni critici mi hanno rimproverato per questo, dicendomi che a poco a poco sto perdendo l’agilità nei miei racconti. Sembra che mi esprima con una maggiore economia di mezzi. Non so se sia meglio o meno: in ogni caso, è il mio stile attuale.

JW: Prima dicevi che per i romanzi c’è un’intera architettura. Significa che lavori in maniera molto differente?

JULIO CORTÁZAR: La prima cosa che ho scritto in Rayuela (Il gioco del mondo) è stato un capitolo che ora si trova al centro del romanzo. Si tratta del capitolo in cui i personaggi stendono un’asse di legno per andare dalla finestra di un appartamento a un’altra. L’ho scritto senza sapere che lo stessi scrivendo. Ho immaginato i personaggi, la situazione che si svolgeva a Buenos Aires. Faceva molto caldo, ricordo, e stavo vicino alla finestra con la mia macchina da scrivere. Ho visto questa situazione in cui un ragazzo cercava di far attraversare l’asse di legno alla propria moglie – dato che non voleva farlo lui – per andare a prendere delle cose inutili, dei chiodi. Ho scritto tutto; era lungo, circa quaranta pagine; e quando ho finito, mi sono chiesto: “Bene, ma che ho fatto? Siccome non è un racconto, che cos’è?”. Poi ho compreso di essere lanciato in un romanzo, benché non avrei potuto continuare da quel punto. Dovevo fermarmi e scrivere l’intera sezione di Parigi – quella che viene prima – che costituisce l’intero retroscena di Oliveira. Quando finalmente sono arrivato a questo capitolo dell’attraversamento dell’asse di legno, ho potuto riprendere a scrivere da quel punto. 

JW: Fai molte modifiche quando scrivi?

JULIO CORTÁZAR: Pochissime. Ciò è dovuto al fatto che la cosa è già stata elaborata dentro di me. Mi capita di vedere le bozze di alcuni dei miei amici scrittori, dove tutto è modificato, tutto cambiato, spostato, con frecce dovunque….. no, no, no: i miei manoscritti sono molto puliti.

JW: José Lezama Lima in Paradiso fa dire a  Cemí che “il baroccco . . . è ciò che riveste un vero interesse in Spagna e in America Latina”. Perché pensi che sia così?

JULIO CORTÁZAR: Non posso rispondere da esperto. Vero: il barocco risulta enormemente importante in America Latina, nelle arti come pure in letteratura. Il barocco può offrire una grande ricchezza: lascia che l’immaginazione si elevi nelle sue svariate direzioni vertiginose, come in una chiesa barocca con i suoi angeli decorativi e tutto il resto, o come nella musica barocca. Ma io diffido del barocco. Gli autori barocchi, molto spesso, si lasciano andare troppo facilmente nella loro scrittura, scrivendo in cinque pagine ciò che potrebbe benissimo esser scritto in una sola. Anche io devo essere caduto nel barocco date le mie origini, ma ne ho sempre diffidato. Non mi piacciono le frasi ampollose e voluminose, piene di aggettivi e descrizioni, che ronzano continuamente nell’orecchio del lettore. Ma so che è anche molto affascinante. È molto bello, ma non mi appartiene. Mi situo più sulla sponda di Jorge Luis Borges; lui è sempre stato un nemico del barocco: stirava il suo stile, quasi con delle pinzette. Beh, scrivo in modo molto diverso rispetto a Borges, ma mi ha insegnato una grande lezione di economia. Da giovanissimo, quando ho incominciato a leggerlo mi ha insegnato che bisogna cercare di esprimersi con economia, una magnifica economia. Forse, è la differenza tra una pianta considerata barocca con la moltiplicazione delle sue foglie - spesso molto belle – e una pietra preziosa, un cristallo, che  per me è ancora più bello.

JW: Quali sono le tue abitudini di scrittura? È cambiato qualcosa?

JULIO CORTÁZAR: L’unica cosa che non è cambiata – e mai lo farà – è la totale anarchia e il disordine: non ho assolutamente metodo. Quando sento di voler scrivere una storia, mollo tutto e scrivo il racconto. Alle volte, quando scrivo un racconto, nel mese o due che seguono, ne scrivo altri due o tre. In generale, i racconti vengono in serie. La scrittura di una storia mi lascia in uno stato recettivo e allora ne “catturo” un’altra. Capisci il tipo di immagine che uso? È più o meno così: la narrazione cade dentro di me. Ma può succedere che per un anno non scriva più niente…niente. Certo, in questi ultimi anni ho trascorso parecchio del mio tempo a scrivere articoli politici. I testi che ho scritto sul Nicaragua o sull’Argentina non hanno niente a che fare con la letteratura: sono prodotti militanti.

JW: Hai spesso dichiarato che è stata la Rivoluzione di Cuba a ridestarti sulle questioni latinoamericane e sui relativi problemi.

JULIO CORTÁZAR: E lo ripeto ancora.

JW: Esistono dei posti dove preferisci scrivere?

JULIO CORTÁZAR: In realtà, no. All’inizio, quando ero più giovane e fisicamente più resistente, qui a Parigi, per esempio, ho scritto una buona parte di Rayuela (Il gioco del mondo) nei cafè. Il rumore non mi infastidiva e, al contrario, erano dei posti molto congeniali: ci ho lavorato molto, leggendo o scrivendo. Ma crescendo, sono diventato più difficile: scrivo quando sono sicuro di avere un pò si silenzio. Non riesco a scrivere se c’è musica, assolutamente no: la musica è una cosa e la scrittura un’altra. Ho bisogno di una certa calma. Ma, detto ciò, un hotel, talvolta un aereo, la casa di un amico o qui in casa sono posti dove riesco a scrivere.

JW: Cos’è che ti ha dato il coraggio di prendere e partire per Parigi più di trent’anni fa?

JULIO CORTÁZAR: Coraggio? No, non c’è voluto molto coraggio. Ho semplicemente dovuto accettare l’idea che venire a Parigi, e tagliare i ponti con l’Argentina, a quel tempo significava essere molto poveri e avere problemi a tirare avanti. Ma tutto questo non mi ha spaventato: sapevo che, in un modo o nell’altro, ce l’avrei fatta. Sono venuto qui soprattutto perché Parigi, e la cultura francese nell’insieme, costituivano per me una forte attrazione. Quando mi trovavo in Argentina, avevo letto la letteratura francese con passione; perciò, volevo andarci e cercare di conoscere le strade e i luoghi che si trovano nei libri, nei romanzi, per esempio andare per le strade di Balzac o di Baudelaire: è stato un viaggio molto romantico. Ero, e sono, molto romantico. In realtà, devo stare attento quando scrivo, perché molto spesso potrei lasciarmi cadere dentro a…. non direi cattivo gusto, forse no, ma leggermente nella direzione di un esagerato romanticismo. Nella mia vita privata, non ho bisogno di controllarmi: sono davvero molto sentimentale, molto romantico, una persona tenera e che ha molta tenerezza da offrire. E ciò che ora sto dando al Nicaragua è tenerezza. È anche la convinzione politica che i sandinisti hanno ragione di ciò che stanno facendo a capo di  un’ammirevole lotta; ma non è il solo impeto politico: è che c’è un’enorme tenerezza, perché sono un popolo che amo – come amo i cubani e gli argentini. Beh, tutto questo costituisce parte della mia indole. Nella mia scrittura ho dovuto guardare a me stesso, soprattutto quando ero giovane; allora, scrivevo cose strappalacrime. Quello era vero romanticismo, la roman rose. Mia madre li leggeva e piangeva.

JW: Quasi tutte le opere conosciute, datano a partire dal tuo arrivo a Parigi. Ma non è vero che avevi già scritto molto prima? Qualcosa è già stato pubblicato di quel periodo.

JULIO CORTÁZAR: Scrivo da quando avevo nove anni, per tutta l’adolescenza e la prima gioventù, momento in cui ero già capace di scrivere racconti e romanzi che mi dimostravano quanto fossi sulla giusta strada. Ma allora non ero impaziente di pubblicare. Ero molto severo con me stesso, così come continuo a fare. Ricordo che i miei coetanei, una volta scritte delle poesie o un piccolo romanzo, si mettevano subito alla ricerca di un editore. Dicevo a me stesso: “No, non pubblicarli, non cedere”. Conservavo alcune cose, mentre altre le buttavo via. La prima volta che mi hanno pubblicato, avevo superato i trent’anni: avvenne proprio prima di partire per la Francia. Si trattava del mio primo libro di racconti – Bestiario – uscito nel ’51, lo stesso mese in cui presi la nave per venire qui. Prima di allora, avevo pubblicato un piccolo testo intitolato Los reyes (I re), e si trattava di un dialogo. Si trattò di una piccola edizione fatta da un amico che aveva un sacco di soldi e che faceva delle piccole pubblicazioni per se stesso E questo è quanto. Ah, no, c’è un’altra cosa – un peccato di gioventù: un libro di sonetti. L’ho pubblicato per conto mio, ma con uno pseudonimo.

JW: Sei il paroliere di un recente album di tango, “Trottoirs de Buenos Aires”. Che cosa ti ha fatto iniziare a scrivere tango? 

JULIO CORTÁZAR: Beh, sono un buon argentino e, soprattutto, un porteño – cioè, un residente di Buenos Aires, che è un porto. Il tango era la nostra musica e sono cresciuto in un’atmosfera di tango. Li ascoltavano alla radio, visto che la radio è nata quando ero piccolo, e fu subito un tango dopo l’altro. C’erano miei familiari, mia madre e una zia, che suonavano dei tango al piano e li cantavano. Grazie alla radio, abbiamo iniziato ad ascoltare Carlos Gardel e i grandi cantanti dell’epoca. Il tango divenne una parte della mia coscienza ed è la musica che mi rimanda alla mia gioventù e a Buenos Aires. Quindi, sono piuttosto attirato dal tango, benché allo stesso tempo sia critico, visto che non sono uno di quegli argentini che crede che il tango sia la meraviglia delle meraviglie. Credo che il tango nel suo insieme, specialmente se accostato al jazz, sia una musica molto povera. Musica povera, ma bellissima. È come quelle piante molto semplici,  non paragonabili all’orchidea o al bocciolo di rosa, ma che abbiano insita una straordinaria bellezza. Di recente, qui a Parigi dei miei grandi amici hanno suonato il tango: sono il Cuarteto Cedrón e hanno un eccellente suonatore di bandoneón - Juan José Mosalini. In quell’occasione abbiamo ascoltato e parlato di tango. Poi, un giorno mi è uscita una poesia che ho pensato potesse essere adattata in musica. Ma non lo sapevo davvero. Quindi, cercando tra le poesie inedite – la maggior parte delle mie poesie lo sono – ne ho trovate alcune brevi che questi amici potevano adattare alla musica, come poi hanno fatto. E abbiamo fatto anche l’operazione contraria: Cedrón mi ha dato un tema musicale su cui ho scritto le parole. Quindi, sono riuscito a farlo in tutt’e due i modi.

JW: Nelle note biografiche dei tuoi libri, c’è anche scritto che sei un trombettista dilettante. Hai mai suonato in qualche gruppo?

JULIO CORTÁZAR: No, È una mezza leggenda inventata dal mio caro amico Paul Blackburn, che sfortunatamente è morto piuttosto giovane. Sapeva che suonavo un pò la tromba, soprattutto a casa per conto mio, perciò mi ripeteva sempre: “Dovresti suonare insieme a qualche altro musicista”. E io gli rispondevo: “No, come dicono gli statunitensi – non ho ciò che serve”. Non avevo talento: suonavo solo per me, mettendo su dischi di Jelly Roll Morton o di Armstrong o del primo  Ellington – la cui melodia è più facile da seguire, specialmente nei blues, visto che hanno uno schema preciso. E mi divertivo a sentirli suonare, mentre mi aggiungevo a loro con la mia tromba. Ho suonato a lungo insieme a loro, ma certamente non con loro! Non ho mai osato accostarmi ai musicisti jazz; adesso la mia tromba è persa da qualche parte nell’altra stanza. Blackburn l’ha inserita in uno dei risvolti di copertina; e siccome c’è una foto in cui suono la tromba, le persone pensano che io la suoni realmente bene. Non ho mai voluto pubblicare qualche lavoro prima di esserne certo; lo stesso accade con la tromba: non ho mai voluto suonare prima di sentirmi sicuro di poterlo fare. E quel giorno non è mai arrivato.

JW: Avevi mai lavorato su un romanzo prima di Libro de Manuel?

JULIO CORTÁZAR: Ahimè, no, per ragioni molto chiare. Secondo me, un romanzo richiede una concentrazione e una quantità di tempo – almeno un anno – e di lavoro in tranquillità, senza mai abbandonarlo. E ora, non riesco. Infatti, una settimana fa, neanche sapevo che fra tre giorni dovrò partire per il Nicaragua. Quando torno, non ho idea di cosa farò. Ma questo romanzo è già scritto. È qui, nei miei sogni. Sogno di continuo questo romanzo. Non so cosa succede nel romanzo, ma ne ho un’idea. Come per i racconti, so che sarà abbastanza lungo, con qualche elemento fantastico, anche se non troppi. Sarà sul genere di Libro de Manuel, dove gli elementi fantastici sono mescolati insieme; e non sarà un libro a carattere politico: sarà un’opera di pura letteratura. Spero che la vita mi conceda un’isola deserta, anche se l’isola dovesse essere in questa stanza; e spero che mi conceda un anno, chiedo un anno. Ma quando questi bastardi – i somozisti e Reagan– agiscono per la distruzione del Nicaragua, non posso avere la mia isola. Non sono riuscito a iniziare niente, perché sono costantemente ossessionato da questo problema, che richiede la precedenza assoluta.

JW: E risulta abbastanza difficile, così come l’equilibrio di vita e letteratura.

JULIO CORTÁZAR: Sì e no. Dipende dal tipo di urgenze: se, come quella che ho appena menzionato, toccano la responsabilità morale di un individuo, allora sono d’accordo. Eppure conosco delle persone che si lamentano sempre, dicendo: “Oh, mi piacerebbe scrivere il mio romanzo, ma dovrei vendere la casa, e poi ci sono le tasse: che faccio?”. O motivi come:  “Lavoro in ufficio tutto il giorno, come credi che possa scrivere?”. Io ho lavorato tutto il giorno all’UNESCO, e poi tornavo a casa e scrivevo Rayuela. Quando uno vuole scrivere, scrive. Se si è condannati alla scrittura, si scrive.

JW: Lavori ancora come traduttore e interprete?

JULIO CORTÁZAR: No, ho smesso. Conduco una vita molto semplice. Ho i soldi necessari per comperare ciò che mi piace: dischi, libri, tabacco. Adesso, posso vivere dei miei diritti d’autore: mi hanno tradotto in così tante lingue, che con il denaro che ricevo posso vivere di rendita. Certo, devo stare un po’attento, visto che non posso uscire e comperarmi uno yacht…ma siccome non ho assolutamente alcuna intenzione di farlo…

JW: Fama e successo sono stati piacevoli?

JULIO CORTÁZAR: Ascolta, ti dico una cosa che non dovrei dire, perché nessuno ci crederà: per me, il successo non è un piacere. Sono grato di poter vivere grazie a ciò che scrivo, perciò mi devo rassegnare sia all’aspetto popolare come a quello critico che il successo comporta. Eppure, mi sentivo un uomo più felice quando ero uno sconosciuto. Molto più felice! Adesso, non ho più la possibilità di andare in America Latina o in Spagna senza essere riconosciuto ogni dieci metri, e poi gli autografi, gli abbracci. . . è davvero commovente, perché ho lettori che sono spesso abbastanza giovani. Sono contento che gradiscano il mio lavoro, ma è tremendamente penoso per la mia privacy: in Europa non posso andare in spiaggia, visto che ogni cinque minuti c’è un fotografo e, avendo un aspetto fisico che non posso camuffare – neanche se mi radessi la barba e indossassi degli occhiali da sole - con la mia altezza e le mie braccia lunghe, mi individuano da lontano. D’altro canto, sono momenti davvero molto belli. Un mese fa mi trovavo a Barcellona e, una sera, stavo camminando nel Quartiere Gotico e c’era una ragazza statunitense, molto carina che cantava e suonava benissimo la chitarra; era seduta a terra e cantava e suonava per guadagnarsi da vivere. Cantava un pò sullo stile di Joan Baez, con una voce chiara, purissima. E c’era un gruppo di giovani barcellonesi che la ascoltavano. Mi fermai ad ascoltarla, ma rimasi nell’ombra. A un certo punto, uno di quei ragazzi sui vent’anni, molto giovane, bellissimo, mi si è avvicinato. Aveva una torta in mano. Mi disse: “Julio, prendine un pezzo”. Ne presi un pezzo, lo mangiai e gli dissi:  “Grazie mille per essere venuto a offrirmelo”. E lui mi rispose: “Ma, ascolta, ti offro così poco in confronto a quanto mi hai regalato tu”. Dissi: “Non dirlo, non dirlo” e ci siamo abbracciati. Poi lui se n’è andato. Beh, cose come questa sono la miglior ricompensa per il mio lavoro di scrittore. Che un ragazzo o una ragazza ti si avvicinano per parlarti e ti offrano un pezzo di torta, è meraviglioso. Vale la pena di aver scritto.

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