Per noi europei la principale conseguenza dello
sfruttamento delle risorse, della devastazione ambientale e soprattutto dei
cambiamenti climatici in corso non sono fenomeni di ordine ambientale o
metereologico, che pure non mancano, ma è il
flusso di profughi e migranti che cercano rifugio in Europa dopo aver
abbandonato territori che non offrono loro più alcuna possibilità di
sopravvivenza o di futuro. Fatichiamo a rendercene conto perché continuiamo a
ignorare la gravità del degrado ambientale che ha investito i paesi di origine
di quei flussi, ma anche perché il rapporto tra degrado ambientale ed emigrazione
non è quasi mai diretto. Quando l’habitat di una comunità non è più in grado di
sostenerne tutti i membri è facile che scoppino conflitti armati per il
controllo di risorse sempre più scarse e contese, che possono esplodere in
stragi di massa. Per questo distinguere tra
profughi di guerra, profughi ambientali e “migranti economici” è praticamente
impossibile.
Inoltre, prima di prendere la strada per l’Europa le comunità colpite da un
forte degrado ambientale o da un conseguente conflitto si spostano innanzitutto
verso territori vicini, nella speranza di poter fare ritorno al loro paese il
più presto possibile. Di questi profughi e sfollati l’Africa e il Medio Oriente
ne contano ormai milioni: ben più di quelli che i Governi dell’Unione Europea
considerano alla stregua di un’invasione. Ma accanto a questi processi di
massa, le modalità di espatrio di coloro che imboccano il cammino verso
l’Europa sono in genere selettive: lo affrontano per lo più solo i membri più
giovani e più intraprendenti di una comunità; spesso sono anche i più istruiti
e a volte i meno poveri, quelli che possono permettersi il costo altissimo di un viaggio condotto tra rischi mortali e feroci
violenze. Il loro scopo è soprattutto guadagnare per contribuire al sostentamento
della famiglia di origine. Ma all’origine di quel viaggio c’è sempre un degrado
ambientale che precede o segue un conflitto.
L’Italia si trova per questo al centro di una regione
euro-afro-mediterranea che va dal Portogallo all’Ucraina e alla Siria e dalla
Svezia alla Nigeria e alla Somalia. A unificare tutti questi paesi sono, da un
lato, le politiche economiche e militari adottate o condivise dall’Unione
Europea; o il riflesso di queste politiche sui paesi che le subiscono
direttamente o indirettamente. Dall’altro lato, sono la presenza irreversibile,
nel cuore del continente, di cittadini e residenti di origine straniera che
provengono dai territori periferici di questa regione e il flusso dei profughi,
di guerra, economici, e soprattutto ambientali che lo sta investendo. Che è,
ben più delle politiche economiche, il principale elemento intorno a cui si
stanno ridisegnando gli schieramenti politici nel cuore dell’Europa, e anche al
di fuori di essa: accogliere o respingere? E come? E a che prezzo?
L’Italia è al centro di questa regione euro-afro-mediterranea sia perché è
uno dei paesi europei che risente di più le conseguenze negative delle
politiche economiche adottate dall’Unione Europea, sia perché è ormai il
principale punto di approdo dei flussi di profughi alla cui origine concorrono
molto anche queste politiche. Sono flussi i cui oneri la maggioranza dei paesi
dell’Unione Europea è ben intenzionata a scaricare sul nostro paese, che
rischia così tra non molto di assolvere, per conto dell’Unione Europea, allo
stesso ruolo che oggi il Governo italiano e l’Unione stanno cercando di
assegnare alla Libia: quello di carceriere dei profughi che sbarcano sulle
nostre coste.
I governi italiani hanno cercato di eludere per anni la centralità dei
problemi che nascono da questa collocazione geografica e da questi due
processi, economico e migratorio, intrecciati tra loro ben più di quanto finora
evidenziato. E hanno soprattutto cercato di eludere il compito di mettere i
cittadini italiani e i propri partner europei di fronte agli scenari che
possono derivare dall’attuale inerzia, adottando palliativi estemporanei e
contraddittori, divisi tra pulsioni
securitarie, ricalcate su quelle delle destre xenofobe, ancorché avvolte in un
ipocrita linguaggio umanitario e interventi di salvataggio, accoglienza e custodia mal progettati, mal gestiti e mal tollerati.
Di fronte a parole, decisioni e pretese sempre più ciniche e feroci, non si
può continuare ad affrontare giorno per giorno, da posizioni difensive, il
conflitto tra accogliere e respingere. Non è un confronto ad armi pari: gli uni
possono riversare ogni giorno il loro veleno da tutti i teleschermi del paese;
gli altri, per far sapere che esistono, che stanno lavorando e continueranno a
farlo, hanno dovuto riunirsi in centinaia di migliaia per le strade di
Barcellona e di Milano. Ma occorre ora affrontare la dimensione globale del
problema, di cui questa contrapposizione è solo la manifestazione più
eclatante. E bisogna affrontarla guardando agli scenari che si prospettano di
qui a qualche anno o decennio.
L’unico riferimento fatto da Renzi ai problemi che le politiche di
austerità e la chiusura delle frontiere tra il resto dell’Unione Europea e
l’Italia pone al nostro paese è stato usare il tema dei profughi per strappare
alla Commissione Europea qualche decimo di punto di deficit in più e promettere
ai suoi elettori di “picchiare i pugni sul tavolo” a Bruxelles (ma questo era
già un refrain, anche cantato, dei 5stelle); poi minacciare di
non pagare più il contributo italiano al bilancio dell’Unione se non vengono
attuate le previste ricollocazioni dei profughi. Che non sono certo una
soluzione di ampio respiro e che dovrebbero comunque venir rinegoziate ogni
anno, mano a mano che arrivano nuovi profughi, mentre sono ancora ferme al
punto di partenza. La soluzione non sta in quelle quote, bensì nella revisione radicale della convenzione di Dublino, nell’abolizione del permesso di soggiorno, come richiesto dalla Carta di Palermo,
o nell’introduzione di un permesso, anche a termine, valido per tutti i paesi
dell’Unione, per consentire sia i ricongiungimenti familiari che la
ricomposizione di legami comunitari che le quote ostacolano.
Quanto al contenimento dei flussi, il governo Renzi ha proposto un piano –
il Migration Compact – nel quale il finanziamento di politiche di sviluppo
confuse e generiche per eliminare – secondo lui – i fattori all’origine delle
migrazioni si mischiano a politiche securitarie, per indurre i paesi di origine
o di transito di quei flussi ad arrestarli o a rimpatriare chi è già approdato
in Europa. Modello del Migration Compact è l’accordo tra Unione
Europea e Turchia che Renzi aveva prima denunciato come disumano e che poi ha proposto
di estendere a tutti i paesi africani di origine o transito dei profughi. Ma
poche centinaia di milioni o qualche miliardo, soprattutto se affidati, come
proposto dal Migration Compact, a società europee come ENI o EDF, che sono le
responsabili dirette di disastri ambientali come i pozzi petroliferi in Nigeria
o le miniere di uranio in Niger, non solleveranno certo dalla miseria mezzo
miliardo di africani, ma anzi l’aggraveranno. E anche dal punto di vista
securitario, in Africa il modello dell’accordo con la Turchia non può
funzionare. La Turchia è uno stato solido – anche troppo – nel pieno controllo
del suo territorio, nonostante il conflitto interno con i curdi; è un’economia
emergente e il passaggio obbligato tra Medioriente ed Europa. E nonostante ciò
quell’accordo è una spada di Damocle che pende sull’Europa dei respingimenti.
La governance dell’Africa centro-mediterranea è invece spezzettata, debole e
inefficace in tutti i campi.
L’Unione Europea ha comunque recepito quel documento senza prendere
iniziative sostanziali nella direzione da esso indicata. Così i governi italiani, ma anche quelli di altri paesi membri, hanno
cominciato a procedere da soli, con accordi amministrativi, cioè di polizia,
non sottoposti al vaglio del Parlamento, con governi di paesi quali Sudan,
Niger, Libia, Nigeria o Egitto, che non offrono alcuna garanzia di rispetto dei
diritti umani né degli accordi stipulati. Sono dittature, governi fantoccio, o
addirittura, come in Libia, capitribù direttamente implicati nello sfruttamento
della tratta. Ma come era prevedibile, l’approccio securitario è poi approdato alla
prospettiva di una vera e propria guerra ai migranti, con dislocazioni di
truppe ai confini, per ora, di Ciad e Niger, per far arretrare le linee di
sbarramento in Stati che si suppone più facili da controllare – e perché mai? –
della Libia.
Alla base di tutte queste misure c’è l’idea è che il
fenomeno sia temporaneo e non permanente, congiunturale e non strutturale, che lo si possa
arrestare e invertire con accordi internazionali e barriere fisiche e militari.
Ma ciò che intanto si persegue e si pratica è
abbandonare i profughi a un destino di violenza e di morte per dissuaderne
altri dall’imbarcarsi nello stesso viaggio. A questo serve, tra l’altro, la
criminalizzazione delle Ong impegnate nei salvataggi in mare, da cui i Governi
dell’UE si sono deliberatamente ritirati.
Quei flussi sono invece destinati a crescere quali
che siano le misure adottate per fermarli. Ma se non rappresenterebbero un
problema per un’Unione europea che si attrezzasse per accoglierli, l’Italia
lasciata sola finirà comunque per rimanerne sopraffatta. Per impedire che una
mala gestione, estemporanea e sempre affrontata come emergenza comprometta,
come già sta facendo, la stessa convivenza vanno quindi apprestati piani di
lungo periodo; a partire dal paese di approdo, che per molti anni è e resterà
quasi solo il nostro.
Occorre innanzitutto metterlo al centro del dibattito sul futuro dell’Unione Europea, sviluppando una fortissima pressione sugli altri governi e sugli altri
cittadini europei perché vengano apprestati canali regolari e non
discriminatori di ingresso in tutti paesi, che è l’unico modo non ipocrita per
combattere la tratta dei trafficanti, i loro giganteschi introiti, il
finanziamento del terrorismo, il dissanguamento che essi provocano nelle
economie da cui si originano i flussi. Poi vanno messi sotto accusa, con molta
più forza di ora, i fautori del respingimento e del rimpatrio: sia in termini
morali, mettendo in chiaro che respingere significa condannare centinaia di
migliaia, se non milioni, di esseri umani alla morte, alla schiavitù o a ogni
altro tipo di violenza; sia spiegando che respingere i profughi tra le braccia
degli aguzzini da cui cercano di fuggire significa esporli al reclutamento
nelle loro formazioni armate, estendere i fronti di guerra, rendere inabitabili
non solo per loro, ma anche per noi, i loro paesi, come lo sono oggi la Libia e
i territori in mano allo Stato islamico. Costituire l’Europa in fortezza può
rendere difficile penetrarvi, ma rende anche impossibile uscirne, perché
l’intero continente sarà sempre di più circondato, come in parte lo è già ora,
da guerre e bande armate.
Ma le politiche di respingimento accrescono anche l’ostilità dei circa
quaranta milioni di abitanti di origine straniera – di cui venti di religione
musulmana – già insediati in Europa come cittadini europei o soggiornanti
regolari. Ostilità entro cui cova, sempre più spesso, un terrorismo stragista,
autoctono e non importato, che abbiam rivisto all’opera solo due giorni fa. Ma
anche il rancore diffuso di intere comunità, già sfociato, e che può
risfociare, in conflitti interni su basi sociali ammantate di riferimenti
etnici o pseudoreligiosi. Respingere i nuovi arrivati, criminalizzare e
perseguitare le comunità di origine straniera è il modo migliore per
alimentare, in una spirale senza fine, questi processi.
Il cammino da imboccare deve essere comunque messo a
punto dal basso e non solo dai governi, coinvolgendo sia le comunità europee
autoctone che quelle migranti. Non può essere definita fin da ora, ma alcuni dei
suoi capisaldi si possono già enunciare. Si tratta comunque inevitabilmente di
un programma radicale, assimilabile a un vero e proprio regime change a livello
europeo, per ora da sviluppare soprattutto come strumento di mobilitazione e di
condizionamento dei Governi in carica, cercando i necessari collegamenti con
tutti i movimenti attivi su questi temi. In sintesi:
Primo: Politiche di
austerità e incapacità di accogliere sono strettamente legate. “Non c’è posto” per
i profughi perché non c’è più posto per tanti cittadini europei, dato che
l’austerità continua a sottrarre lavoro, reddito, casa e servizi a tutta la parte
inferiore della piramide sociale. Non si può gestire i flussi crescenti dei
profughi senza affrontare anche la disoccupazione e la povertà tra un numero
crescente di cittadini europei: con un vasto programma di spesa pubblica, non
per grandi opere inutili e dannose, ma per mille e mille piccoli interventi nel
tessuto della società.
Secondo: Sul lungo periodo il riequilibrio demografico della popolazione europea con nuovi apporti
dall’esterno, per evitare che si riduca a una comunità di soli vecchi, è inevitabile.
Si rischia così di dover richiamare, in un domani non lontano, una parte di
quelle popolazioni che oggi ci adoperiamo per respingere e far annegare. Il
milione e mezzo di profughi entrati in Europa nel 2015, quando ancora era
aperta la rotta balcanica, eguaglia a malapena i migranti economici accolti
ogni anno in Europa per tutto il secondo dopoguerra, fino al 2008, pur in
presenza, allora, di una crescita demografica autoctona che oggi è venuta meno.
Terzo: Per questo occorrono sia corridoi regolari di ingresso, sia politiche del lavoro inclusive,
costruite dal basso, fondate su progetti che promuovano la collaborazione tra
cittadini europei, soprattutto giovani, e nuovi arrivati. I campi di questi
interventi sono noti: assistenza alla persona, agricoltura innovativa di
piccola taglia (al posto dell’attuale schiavizzazione di profughi e migranti
non regolarizzati in forme criminali di agricoltura estensiva),
ristrutturazioni edilizie, salvaguardia degli assetti idrogeologici, fonti
energetiche rinnovabili, artigianato di riparazione, manutenzione dell’usato,
cultura e altro ancora. Sono per lo più attività legate alla lotta contro il
degrado ambientale e i cambiamenti climatici che, quando, e se, se ne
presenteranno le condizioni, possono essere trasferite da migranti di ritorno e
cooperanti europei anche nei paesi di origine ed essere il motore di un
riequilibrio ambientale ed economico di quei territori.
Quarto: Una creazione così vasta di impresa e
di lavoro non può essere affidata né al mercato, dove ognuno si cerca un lavoro
da sé, né solo a programmi governativi. Soltanto l’economia sociale e solidale, poiché abbina accoglienza e lavoro,
inclusione e produzione, è in grado di concepirli, promuoverli e gestirli;
ovviamente con un massiccio sostegno dei poteri pubblici.
Quinto: Immigrati e profughi costituiscono un
grande potenziale da valorizzare sia nella definizione di una prospettiva
politica di pacificazione dei paesi da cui sono fuggiti e di cui conoscono bene
conflitti e dinamiche; sia nella progettazione del risanamento ambientale e
sociale dei loro territori di origine grazie ai contatti che mantengono con le
comunità che hanno lasciato, ma anche grazie alle professionalità e soprattutto
alle relazioni che hanno acquisito in Europa. Per questo le loro comunità
possono e dovrebbero essere aiutate a organizzarsi per essere parti in causa
nelle trattative che nelle campagne per bloccare sia le guerre in corso nei
loro paesi di origine, sia le forme più devastanti della presenza economica dell’Europa
in quegli stessi territori.
Sesto: Premessa obbligata di tutto ciò è una
battaglia culturale per riavvicinare le persone tra loro; è nello scambio culturale e nella mescolanza dei rispettivi apporti, ma soprattutto
nella vicinanza alle loro sofferenze, che si possono creare le basi per la
riconquista di una dimensione umana alla politica. Il rigetto che molti
cittadini e cittadine europee manifestano verso profughi e migranti non è
dovuto solo alla paura di una loro propensione a delinquere o del terrorismo.
Questa certo non manca, ma viene spesso usata a copertura del rifiuto di
mescolarsi con persone e culture che mettono in forse abitudini e tradizioni a
cui ci si sente legati. È questo timore del diverso che va affrontato, senza
demonizzare o tacciare di razzismo (ben presente invece in chi lo promuove e lo
sfrutta) chi ne è solo portatore o vittima. Farsi concittadini di chi era
straniero: questo deve essere il nostro impegno.
Testo dell’intervento preparato
per il convegno Accogliere emergenze Promuovere diritti (Milano,
24 maggio 2017)
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