mercoledì 10 maggio 2017

Quando padron Marzotto finì giù dal piedistallo - Gianni Sartori

19 aprile 1968: soltanto un inizio…
Ricordi a cascata di Gianni Sartori: frammenti di lotte sociali nel vicentino del biennio operaio
«Esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra» (Walter Benjamin)
Avendo letto «I tre moschettieri» e anche il seguito ritenevo che il giro di boa, l’eventuale amarcord finale fosse quello dei fatidici “Vent’anni dopo”. Per questo verso la fine del 1987 (in vista del ventennale, ma con qualche mese di anticipo) avevo scritto un autocelebrativo “Non è colpa mia se avevo sedici anni nel ’68” ripescando una frase di Andrea Gobetti – il nipote di Piero, speleologo torinese, militante di Lotta Continua e amico di Tonino Micciché (*) dove mischiavo arbitrariamente ricordi di manifestazioni e di attività speleiste, in particolare l’esplorazione della Grotta del Torrione Vallesinella, agosto 1968, nelle Dolomiti di Brenta.
Sono poi transitati, a passo di (lunga) marcia, non solo il ventennio ma anche il trentennio (appena intravisto) e senza quasi farsi notare anche il quarantennio. Ma nel frattempo avevo letto «Le falangi dell’ordine nuovo», il fumetto di Bilal e Christin dove gli ex componenti di una Brigata internazionale riprendono le armi contro i rigurgiti fascisti mezzo secolo dopo la guerra civile spagnola. In realtà la vicenda si svolge verso la fine degli anni settanta, quindi a 40 – non 50 – anni dallo scioglimento delle Brigate internazionali. Tuttavia, considerato che nel ’68 avevo 16 anni, mi potevo scalare tranquillamente una decina di anni rispetto a Pritchard, Barsac, Avidsen, Stransky, Castejon e gli altri personaggi settantenni della storia. Questo mi aprì, mentalmente, la possibilità di rinviare un’eventuale, definitiva rimpatriata al cinquantennio. Prospettiva ritenuta comunque lontana e improbabile da raggiungere, per lo meno da vivi.
Invece eccolo qua, famelico e ormai alle porte. Penso tristemente che per chi oggi ha l’età che io avevo nel ’68, la mia generazione corrisponde non a quella dei partigiani (per noi sessantottini) e nemmeno dei volontari in Spagna, ma più o meno a quella dei bolscevichi del 1917 o – più o meno – ai marinai di Kronstadt del 1921. Se è troppo complicato, poi vi spiego.

Rivedo una scritta apparsa anche sui muri della Bertoliana, la biblioteca pubblica vicentina, nel 1971: «1871: La Comune – 1921: Kronstadt … 1971: ?».
Come detto, siamo ancora in attesa (pur se i Curdi nel Rojava ci stanno provando, per quanto umanamente possibile).
Resta il fatto che la mitica Kronstadt, per la mia generazione quasi altrettanto lontana della Comune di Parigi, risaliva soltanto a qualche decennio prima, più o meno appunto come ora il ’68.
Quindi, prima di scordarsi, oltre a quel che siamo diventati, anche quello che eravamo, meglio prendere nota.

E comincio dal 19 aprile valdagnese del 1968.
C’ero, devo dire. Per caso e di sfuggita, ma c’ero. O quasi.
Eravamo partiti in autostop nel primo pomeriggio, io e l’Umberto, per andare in piscina a Valdagno (coperta, una rarità all’epoca). Il viaggio era stato particolarmente sfigato e arrivammo talmente tardi che stavamo già pensando di ritornarcene a Vicenza. Poi praticamente non riuscimmo nemmeno a entrare in paese. Tutti ci sconsigliavano vigorosamente, ci suggerivano di fare dietrofront e alla fine mi lasciai convincere dall’Umberto che «non era il caso di andarsele a cercare». Peccato, anche se probabilmente a quel punto i “disordini” erano conclusi e restava operativa soltanto la caccia all’uomo (preferibilmente dall’aspetto operaio) da parte di polizia e carabinieri. Comunque tornai il giorno dopo, recidivo. Stavolta da solo.
Fra i ricordi: le decine di manichini, prelevati dalle vetrine sfondate dei negozi Marzotto e gettati nel greto ciottoloso dell’Agno; i gradini frantumati del piedistallo della statua di Marzotto (abbattuta a furor di popolo) per ricavarne pietre; alcuni “trentini” in trasferta (Mauro Rostagno, Marco Boato… Curcio pare di no) completi di eschimi, patacche maoiste e barbe.
Ebbi qui modo di conoscere qualche abitante di Valdagno che apertamente rivendicava la partecipazione ai fatti del giorno prima. Alcuni li rividi in seguito a qualche manifestazione. E uno anche alla più modesta rivolta di Arzignano del 1972 per la minacciata chiusura della Pellizzari (**).
Ritrovati nel corso degli anni (almeno alcuni, per altri vado a memoria) ne ho raccolto impressioni e ricordi, talvolta discordanti, sulla “Madre di tutte le Rivolte Operaie” nel Vicentino.
LISETTA E BRUNO: LA PRIMA PIETRA NON SI SCORDA MAI
Una premessa.
Il 19 aprile 1969 era previsto lo sciopero di 24 ore per tutti i tessili. Di buonora i carabinieri si erano piazzati all’interno della portineria occupando diverse entrate e anche le scale in modo da garantire l’entrata ai crumiri, più che altro impiegati e dirigenti.
Raccontava Lisetta (SPI), all’epoca del nostro ultimo incontro: «Alle sette usciamo noi del primo turno, in sciopero dopo un’ora di lavoro. Ci fermiamo sui gradini e tentiamo di occupare anche noi la portineria. Siamo quasi tutte donne, ma i carabinieri non si fanno intenerire e ci scacciano colpendoci con i cinturoni. Cominciano così i primi tafferugli. Poi, mi pare verso le nove, arrivano centinaia di studenti (circa 300 nda) delle superiori in corteo. Tra le nove e mezzogiorno le cariche della Celere non si arrestano mai. I poliziotti non risparmiano botte e pestaggi e usano sia i manganelli che il calcio dei fucili. Vengono lanciati lacrimogeni a centinaia. Ma davanti alla fabbrica un picchetto di un migliaio di operai non fugge e continua a resistere… Alla sera, verso le diciotto…».
Interveniva a questo punto Bruno, il marito, anche lui operaio e protagonista della battaglia di Valdagno: «Ostia, ma vuoi lasciar parlare anche me un poco? Verso le diciotto, appunto, gli agenti arrestano due operai e li trascinano in portineria. Per rilasciarli il questore esige che venga sciolta la manifestazione. In risposta riceve una bordata di fischi e urla. Cominciano a volare le prime pietre, ne tiro qualcuna anch’io, mentre la Celere e i Carabinieri caricano nuovamente sparando lacrimogeni ad altezza d’uomo. A me, poi, li spareranno dall’alto verso il basso (micidiali! nda) perché mi ero rifugiato sotto le arcate di un ponte che scavalcava l’Agno».
Coincidenza. Un altro manifestante, incontrato quattro anni dopo ad Arzignano, mi raccontò che i carabinieri gli scagliarono addosso, dall’alto, diverse grosse pietre mentre si trovava in una situazione analoga.
Ma a questo punto è l’intera popolazione di Valdagno che scende in strada ribellandosi a Marzotto e ai suoi ascari.
«Io portai anche una delle corde – continuava Bruno – prendendola in prestito da un cantiere, per tirar giù la statua. E pensa che ero iscritto alla CISL…». Anche se di fornitori di corde nel corso degli anni ne ho incontrati almeno una decina, va detto che comunque abbattere la statua di Marzotto ebbe un forte valore simbolico, come quando lo fucilarono in effige nel 1945. «In quel caso forse anche troppo simbolico» aveva commentato Elio, un altro ex operaio presente alla conversazione con Lisetta e Bruno.
Alexis, un compagno greco rifugiato a Valdagno per sfuggire al regime dei colonnelli, mi aveva invece fornito una sua versione (non saprei quanto precisa) della scomparsa delle lettere che componevano la scritta sotto al monumento, quello abbattuto. Dopo essere state divelte, non sarebbero finite dentro al torrente Agno ma nella cantina di un professore che le aveva sequestrate a un suo allievo responsabile del prelievo. Verità o leggenda metropolitana?
Lasciamo ora raccontare il seguito della quasi insurrezione a un altro ex operaio in pensione, Igino: «Verso le 23 molti manifestanti cominciarono a rincasare e quasi contemporaneamente arrivarono altri celerini – un migliaio, si diceva – e altri “baschi blu”. Questi dalla Sardegna, sempre si diceva. Cominciarono subito a picchiare chiunque si trovava per strada e perquisire cantine e pianerottoli in cerca di manifestanti. Un vero rastrellamento! Si sentivano raffiche di mitra e i feriti si contavano a decine (anche se il numero esatto non si conoscerà mai in quanto molti preferirono curarsi a casa per non rischiare l’arresto nda)».
Bilancio finale: 300 fermati e 47 arrestati, portati questi ultimi direttamente nel carcere di Padova.
«Il Giornale di Vicenza» tanto per non smentirsi scrive: «42 arrestati a Valdagno dopo le devastazioni e la drammatica sfida alle forze dell’ordine».
Proviamo a contestualizzare.
Dalla Marzotto alla Pirelli, alla Fiat: prende il via vigorosamente un ciclo di lotte che per forme, contenuti, qualità segnano una svolta. L’autunno caldo del 1969 sarà il momento culminante (azzoppato, se non proprio stroncato, con la strage di Stato del 12 dicembre) di questa nuova fase. Nel ’68 alla Pirelli (vedi il CUB) si ricorre a scioperi interni, di reparto, rallentamento e autoriduzione della produzione, modifica di fatto delle condizioni di lavoro.
Questo il quadro generale.
Anche Vicenza si mobilitava. Nei giorni successivi al 19 aprile si svolsero azioni di picchettaggio e boicottaggio davanti al “Fuso d’oro” (proprietà di Marzotto) in corso Palladio. Distribuimmo un volantino dove Domenico Buffarini (PSIUP, reduce da Valle Giulia) aveva estrosamente disegnato un pugno chiuso che usciva dalla ciminiera di una fabbrica stringendo una chiave inglese con varie scritte:
POLIZIA AL SERVIZIO DI MARZOTTO – ESTENDIAMO LA LOTTA CONTRO I PADRONI E IL LORO STATO – BOICOTTARE “FUSO D’ORO” E I “JOLLY HOTEL”.
Con gli inevitabili risvolti. Alcuni fermi e una dura carica dei carabinieri che apparvero d’improvviso nella galleria delle vetrine (se ne stavano chissà da quanto tempo acquattati nel cortile interno), una massa nera brulicante che ci inseguì (i pochi rimasti in strada dopo una decina di fermi) quasi fino in piazza dei Signori. Ricordo la giovanissima morosa di Alberto G. disperata, in lacrime, dopo che lui era stato fermato e portato in questura.
PARANTESI RUMORIANA
Un inciso e un salto di qualche mese. Arriviamo al 23 dicembre 1968, sempre a Vicenza.
Il Natale era alle porte e presumibilmente faceva freddo parecchio (ah, gli inverni di una volta!). A Palazzo Trissino – Comune di Vicenza – era in agenda un incontro tra Mariano Rumor, capo del governo e i sindaci vicentini. Partecipava anche il vescovo Zinato.
Nel frattempo il centro storico della città del Palladio veniva invaso da decine di bandiere vietcong (quelle del FLN: blu, rosse e con la stella). Spuntavano clandestine sul monumento a Garibaldi, sui fili del tram, sulle impalcature…
All’arrivo di Rumor un lancio di uova (vorrei, ma non posso onestamente, definirlo “fitto”… diciamo moderatamente intenso) che però non colpiscono l’illustre democristiano ma solo la scorta. Fuga precipitosa dei lanciatori che temono di essere stati identificati (uno di buona famiglia trascorse, beato lui, oltre un mese ad Asiago nella seconda casa di amici benestanti; altri si affidarono alla provvidenza…). A conti fatti le uova lanciate furono circa una decina. Sui giornali del giorno dopo apparve la foto di Rumor uscito incolume da un “agguato” mentre intratteneva soavemente i sindaci democristi.
Una ventina di giorni prima, il 2 dicembre 1968, la polizia aveva ucciso due braccianti (e causato una cinquantina di feriti) sparando durante una manifestazione ad Avola. Anche a Vicenza c’era stata una manifestazione di protesta e successivamente la distribuzione di volantini in memoria di Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona.
IL RUOLO DI POMPIERE DELLA CISL
Arriva il 1969 e la lotta continua.
Dò la parola a un sindacalista comunista che aveva preso parte se pur marginalmente alla rivolta: «Nel 1969, dopo due scioperi dichiarati dalla CGIL, si arrivò all’occupazione della fabbrica su proposta della CISL, forse preoccupata per la possibilità di una seconda rivolta operaia. Rivolta che avrebbe potuto avere effetti dirompenti in tutta la provincia dove i tradizionali meccanismi di mediazione e controllo vacillavano vistosamente».
Rileggendo l’appunto azzardo una domanda: perché non li fabbricano più sindacalisti così?
A ormai quindici giorni dall’inizio dell’occupazione, l’8 febbraio a Vicenza gli studenti dichiarano uno sciopero di solidarietà. Penso di poter rivendicare qualche responsabilità nella sostanziale, per quanto modesta, riuscita di quello all’Istituto magistrale (governativo nella dicitura originale) D. G. Fogazzaro. In batteria con Giorgio Bordin (all’epoca figiciotto, in anni successivi attore e per un periodo perfino repubblicano) e Gianni Cadorin (in seguito anarchico) riuscimmo a tener fuori alcune classi. Quasi al completo la mia, la 3a E.
Credo in quella occasione di aver avuto un breve alterco con il futuro sindaco Variati che era, mi pare, in 2° E. Era forse già seguace di Rumor e avrebbe preferito entrare. Fatalmente, alla prima occasione per il sottoscritto e per Alfredo Zaniolo, scattò una sospensione.
Con l’evidente intento di svuotare la protesta il prefetto chiedeva una “tregua” di 90 giorni. Nel frattempo gli operai occupanti avrebbero dovuto sgomberare ma la proposta venne rispedita al mittente.
Fra i molteplici interventi a sostegno degli operai va registrato quello dei partigiani delle Formazioni Garemi. In un volantino del 9 febbraio 1969 scrivevano: «…gli stabilimenti Marzotto sono stati salvati più volte dalla distruzione, durante l’ultima guerra, grazie all’intervento dei partigiani. Ciò avvenne per due volte nell’estate del 1944, quando alcune azioni partigiane fecero rallentare in vari modi il ritmo della produzione nelle fabbriche Marzotto, riuscendo così a convincere gli alleati a rinunciare ai bombardamenti a tappetto che essi avevano progettato su Valdagno (il prodotto che usciva dalla Marzotto andava infatti ad alimentare il potenziale bellico dei tedeschi). La terza volta fu nei giorni della Liberazione, dal 25 aprile al 29 aprile, quando il pronto intervento dei partigiani a difesa delle fabbriche impedì che i tedeschi nella loro ritirata, potessero far saltare le enormi cariche di tritolo che in precedenza avevano collocato agli angoli degli stabilimenti più importanti della nostra provincia, quelli di Marzotto compresi. Marzotto questi fatti dovrebbe ricordarseli bene anche se, in quei giorni cruciali, preferì scapparsene da Valdagno e rifugiarsi a Vittorio Veneto (….). Si capisce bene che quegli stabilimenti non furono salvati per fare un servizio ad una dinastia che si era fin troppo compromessa col fascismo e aveva la sua buona parte di colpa per i mali che affliggevano il Paese. Ma i partigiani (…) avevano coscienza che con quegli stabilimenti salvavano un capitale immenso, tanto utile per dare lavoro a migliaia di operai e per favorire la ripresa economica del Paese (…). I Marzotto hanno dimenticato però che, loro malgrado, c’è stata in Italia una lotta di Liberazione che ha risvegliato le coscienze dei lavoratori. Nonostante le rappresaglie, le intimidazioni, il paternalismo dei padroni, i lavoratori oggi hanno coscienza dei loro diritti e li vogliono. La via per poterli ottenere è la lotta, quella stessa che voi avete scelto con tanta decisione (…)».
Pina, all’epoca giovane operaia, poi militante di Lotta Comunista, mi aveva comunque confermato il ruolo della CISL nel disinnescare possibili sollevazioni proletarie: «L’occupazione durò un mese, ma in forma chiusa senza contatti aperti con l’esterno. Di fatto, gli operai erano asserragliati in fabbrica. Nelle trattative emerse la proposta del delegato sindacale e di reparto, eletto da tutti i lavoratori. Nel febbraio del 1969 non sembrò un “contentino”, ma una vittoria significativa. E così anche il diritto all’assemblea – durante l’orario di lavoro con la presenza del sindacato – che venne subito dopo. In realtà il recupero della rivolta era già avviato».
Dopo l’accordo alla Marzotto, in tutto il vicentino si sviluppò un ampio movimento per rivendicare i diritti sindacali sul luogo di lavoro. Alla Lanerossi (10mila dipendenti) la Filtea provinciale dichiarò uno sciopero in contrapposizione a CISL e UIL per il decadimento delle Commissioni interne e per l’elezione del Consiglio.
Sempre per la cronaca: con un leggero anticipo di venti giorni il 9 aprile lo Stato celebrò a modo suo il primo anniversario della rivolta di Valdagno. Ammazzando due persone inermi, un operaio e una insegnante, nel corso delle proteste scoppiate a Battipaglia contro la chiusura di un paio di stabilimenti. I feriti furono oltre 200, la metà per arma da fuoco.
UNA DONNA DI NOME TINA
Tornando al vicentino, il volantino dello sciopero (***) alle Magistrali fu “galeotto” nel farmi conoscere Tina Merlin (****) la grande giornalista che aveva denunciato in anticipo la tragedia del Vajont, purtroppo inascoltata come Cassandra.
Nel febbraio 1969, qualche giorno dopo lo sciopero mi recai, sempre in autostop, a Valdagno alla fabbrica occupata. Portavo la mia testimonianza, appunto il volantino di solidarietà degli studenti dell’istituto magistrale di Vicenza. A Valdagno ne lasciai alcune copie agli operai di guardia, un pochetto diffidenti devo dire. Certo «non era l’occupazione delle fabbriche del 1921 – pensavo – ma insomma era già qualcosa». E tornai a Vicenza in autostop. A darmi un passaggio fu proprio Tina Merlin (partigiana, giornalista dell’Unità) che mi aveva intravisto parlare con gli operai. Ovviamente consegnai anche a lei copia del volantino che poi inserì nel suo libro «Avanguardia di classe e politica delle alleanze» (Editori Riuniti, 1969). Ormai la lotta della classe operaia di Valdagno era divenuta di rilevanza nazionale .
Del viaggio ricordo soprattutto un suo auspicio: «Voi giovani vedrete realizzarsi i nostri sogni, quelli del vostri genitori…un mondo meno ingiusto» (cito a memoria, ovviamente). Sembrava convinta e non posso fare a meno di pensare a quanto sarebbe delusa vedendo il disastro attuale.
In ogni caso la sua testimonianza rimane esemplare, salda. A futura memoria. La immagino ancora giovane, impavida staffetta partigiana, fra un rastrellamento e un posto di blocco nazifascista, magari un poco pistolera… all’assalto del cielo.
Naturalmente la rivolta di Valdagno non era sbocciata improvvisamente, così dal nulla.
Vediamo qualche precedente.
Sin dal 1967 c’era stata mobilitazione contro l’aggravamento dei carichi e dei ritmi, a causa del passaggio da un sistema paternalistico-manifatturiero a una nuova organizzazione del lavoro, impostata dall’Ufficio Tempi e metodi, da poco impiantato, che introduceva ampi elementi di fordismo.
Come mi spiegò circa quindici anni fa un responsabile della Camera del lavoro di Vicenza (potrebbe essere stato Coldagelli, ma non ci giurerei) «Costituì sicuramente un traumatico giro di vite per i lavoratori. Organizzazione scientifica del lavoro che comportava il raddoppio immediato del numero dei telai assegnati a ogni operaio. Decisioni che alimentarono la protesta. La rivolta del 19 aprile fu quindi sia contro il vecchio paternalismo, con l’abbattimento della statua, sia contro i nuovi sistemi di sfruttamento della rinnovata organizzazione capitalistica del lavoro».
Per la “Rivoluzione” restiamo sempre in lista d’attesa. Per quanto improbabile, non si sa mai…
(*) Tonino Miccichè, operaio e militante di Lotta continua, venne assassinato da Paolo Fiocco, guardia giurata e iscritto alla Cisnal, nell’aprile 1975 alla Falchera di Torino. Su di lui in “bottega” si può leggere Ogni volta che torna aprile
di Giulio Stocchi. Dall’arringa dell’avvocato Bianca Guidetti Serra al processo contro Fiocco: «Freddezza e efferatezza raramente sono cosi evidenti, c’è la volontà di uccidere. Arriva con la pistola infilata nei pantaloni. Ha indossato il soprabito per coprirla. E’ tranquillo, per non destare sospetti. In lui ansia di vendetta e rancore acuto. E’ un assegnatario, privilegiato rispetto agli altri che sono occupanti. Ha due box e li difende con pervicacia non accettando la proposta motivata degli altri. Di fronte ha un giovane lavoratore che aiuta e si batte per dare una casa a chi è senza». Condannato prima a 19 anni di carcere, poi in appello a 13, il fascista Fiocco ottenne la semilibertà nel gennaio 1981. Venne addirittura scarcerato già nel 1982. Niente male per un omicida.
(**) Arzignano 1972. Potere Operaio aveva detto di no, non si doveva andare. La mobilitazione alla Pellizzari era nata in difesa del posto di lavoro, una lotta considerata di retroguardia. Ma a noi quattro non ce ne fregava un cazzo. Le notizie parlavano di barricate, di un paese sotto assedio, di centinaia di persone, operai con le loro famiglie, a presidiare le strade. Come accadeva contemporaneamente nel Bogside a Derry. In quel di Arzignano arrivarono addirittura a circondare una colonna di gipponi della Celere che incautamente era entrata in paese e non riusciva più a uscirne. Bastava e avanzava. Partimmo appunto in quattro (Alberto, Tiziano, Umberto e io) come i cavalieri dell’Apocalisse, stipati nella 500 di Alberto.
Impensabile arrivarci dalle strade principali a causa dei posti di blocco. Ma per stradine bianche collinari secondarie, anche una caresà ricordo, giungemmo di soppiatto in prossimità del paese per poi proseguire a piedi. Alla sera rientrammo a Vicenza facendo il percorso inverso. Così per tre giorni di seguito, finché grazie alle trattative sindacali e ai cedimenti si giunse a un compromesso poco onorevole che lasciò l’amaro in bocca alla maggioranza delle maestranze. La rabbia era tanta, la consapevolezza (sta per: coscienza di classe anticapitalista) pure. Ricordo alcuni operai – e non tutti giovani, anche uno che era stato partigiano – che avendoci individuato come presunti maoisti non esitarono nel proporci di partecipare a qualche “azione diretta” eclatante (non scendo in particolari, ma veramente “eclatante”…). Forse saggiamente il futuro ambientalista Fazio (che ricordavo medico m-l a Velo d’Astico) li riportò a più miti consigli. Casualmente incontrai anche quell’operaio di Valdagno che il 19 aprile di quattro anni prima aveva rischiato di venir lapidato dai carabinieri mentre si rifugiava sotto un ponte dell’Agno. Con un gesto esplicito battè la mano su una tasca mormorando «ma stavolta xe meio che no i ghe prova gnanca…». Vai a sapere. Conservo un’immagine cupa e livida dell’ultimo rientro. Eravamo già in alto, sulle colline e dal paese invaso dalle ombre della sera si alzavano colonne di fumo nero dai copertoni che bruciavano. Insieme alla rabbia, bruciavano anche alcune barricate: piuttosto di demolirle in molti preferirono darle alle fiamme. Da qualche parte nel mondo, sepolto sotto la cenere di mille sconfitte, forse quel fuoco brucia ancora e attende. Spero.
(***) Per chi fosse eventualmente interessato il volantino «Gli studenti del “Fogazzaro” in sciopero, Vicenza 8 febbraio 1969» si trova a pagina 225 del libro citato. Lo avevo scritto nella sede del PSIUP di Vicenza insieme all’allora compagno, poi democristiano, Alfredo Zaniolo con la supervisione, in parte censoria, di Domenico Buffarini, dirigente pisiuppino. Riporto la conclusione: « Operai! Gli studenti non vi esprimono solo la loro solidarietà, ma vi portano il contributo cosciente della loro lotta contro il comune nemico, il capitalismo! Uniti, studenti e operai possono costruire un mondo nuovo! Uniti, studenti e operai possono diventare padroni del loro destino! A Valdagno, a Vicenza, nel Veneto, in tutta Italia studenti ed operai uniti nella lotta». Belle parole senz’altro. Perfino commoventi. Ancora attuali? Quien sabe… E comunque «per come la vedo io, la lotta continua…» (cercatevi la fonte della citazione).
(****) Tina Merlin era nata a Trichiana (Belluno) nel 1926. Partigiana durante la guerra di Liberazione, dal 1951 al 1967 era stata corrispondente dell’Unità da Belluno. Per i suoi articoli in cui denunciava la realizzazione della diga del Vajont e i rischi di una catastrofe (come poi puntualmente avvenne) venne denunciata e processata per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. In seguito fu corrispondente dell’Unità da Vicenza. Mi capita spesso di paragonarla a un’altra donna esemplare, Rachel Carson, l’autrice di «Silent Spring» (1962) cioè «Primavera silenziosa». Un analogo destino: aver previsto e anticipato i drammi dell’inquinamento e venir per questo derisa e umiliata.

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