La proprietà che esclude
La prospettiva fornita dall’analisi storica assume
sempre di più una potenza dirompente nei confronti delle strutture del
presente. Se il termine non fosse usurato, direi che essa è indispensabile per
dare fondamento a una visione rivoluzionaria. Dove il termine rivoluzionario
non ha il significato commerciale e di pronto uso della pubblicità o di qualche
slogan effimero del ceto politico. Né coincide col vecchio e ristretto sinonimo
di insurrezionale. Indica, piuttosto, lo sguardo
radicale, capace di mostrare il carattere di formazione storica delle
strutture del dominio. Il presente che accettiamo come una realtà data e
indiscutibile, quasi un dato di natura, è frutto di un processo storico, uno
svolgimento nel tempo che ha solidificato rapporti di potere fra uomini e
gruppi sociali rendendoli permanenti, trasformandoli in dati di partenza
fondativi della vita sociale. E perciò accettati da tutti come e
imprescindibili e immodificabili. Una
prospettiva storica, ad esempio, consente alla riflessione in corso sui beni comuni di mostrare la
genealogia della proprietà privata, il processo violento della sua formazione,
le pratiche di sopraffazione attraverso cui si è affermata. Se sappiamo
riandare con l’analisi alle origini di tale istituto fondamentale delle società
capitalistiche, se comprendiamo il processo della sua formazione, constatiamo
che esso perde l’aura di legittimità, quasi naturale e indiscutibile, con cui
domina e regola l’intero universo delle relazioni umane.
Il noto pamphlet di Ugo Mattei, pubblicato nella
benemerita collana Idola di
Laterza, Senza proprietà non c’è libertà: falso,[1] ci
ha offerto questa opportunità, e merita di essere ripreso proprio perché
ritorna sul tema della proprietà con una prospettiva storica di lungo periodo.
Consente di guardare a tale istituto non come dato di fatto, ma come processo.
Anche se il saggio di Mattei rafforza in chi lo legge la constatazione
recriminatoria che del grande tema della proprietà privata, non solo in Italia,
si occupano quasi solo i giuristi: pochi, eterodossi, coraggiosi studiosi del
diritto[2].
Certo, è stato storicamente il diritto a fondare la
proprietà privata, a trasformare un rapporto di forza e una appropriazione di
ricchezza in una legge protetta dal potere dello stato. Sono stati i giuristi a
dare forma normativa a un processo sociale che si è andato organizzando secondo
gerarchie dettate dai rapporti di forza. E appare perciò naturale che al
diritto spetti in primo luogo ritornare teoricamente e storicamente sui propri
passi. Ma non possiamo non osservare come la ricerca storica si tenga ben
lontana da questo campo, cosi come la sociologia e le altre scienze sociali.
In tali ambiti la proprietà privata appare
indiscutibile come il cielo azzurro o le neve bianca. Del pensiero economico,
ovviamente, non è il caso di parlare. Diventata, nelle sue forme dominanti, una
“tecnologia della crescita”, l’economia
al potere ha cessato di pensare e si limita ad applicare dispositivi automatici
finalizzati all’aumento del Prodotto Interno Lordo.[3] Deprimente
prova della superficialità subalterna dei saperi sociali del nostro tempo, che
non solo accettano un processo storico di appropriazione come un dato naturale
e indiscutibile, ma operano per la sua perpetuazione ed espansione in più
estesi domini della realtà.
Mattei rovescia la convinzione dominante secondo cui la proprietà privata fonda la libertà dei moderni, mostrando che essa nasce dalla privazione della
libertà di molti ad opera di una èlite di pochi dominatori: «all’origine della proprietà sta
il potere e a ogni potere corrisponde una soggezione,
ossia qualcuno più debole che, non avendolo, lo subisce. Tanto più libero è il
proprietario tanto meno lo è il non proprietario, sicché – anche sul piano
logico – l’asservimento può essere affiancato alla proprietà esattamente quanto
la libertà».[4] Ed
egli conia un geniale sintagma, un’espressione da far diventare di uso comune,
la «proprietà privante», come termine che esprime l’altra faccia e la natura
escludente della proprietà privata.
Com’è noto, il monumento storico-teorico cui si
rifanno i critici della proprietà privata e tanti teorici dei beni comuni è il capitolo 24 del Primo libro del Capitale di Marx
dedicato alla Cosiddetta accumulazione originaria.[5] Mattei
lo riprende anche in questo testo, dopo averne trattato nel suo Manifesto sui beni comuni.[6] In
effetti Marx, tramite una
superba sintesi storica, disvela in una cinquantina di
pagine finali del suo libro, l’insieme dei processi da cui nasce il moderno
capitalismo nel paese in cui questo si afferma nel modo più completo. Dopo aver
mostrato, tramite numerosi capitoli di analisi, che cosa esso effettivamente è,
nella fabbrica e nella società britannica del suo tempo, come opera questo modo
di produzione e come esso ristrutturi radicalmente la vecchia società
preindustriale, Marx sente il bisogno di spiegare in che modo si è storicamente
formato e affermato. Lo deve fare anche per sbaragliare le mitologie costruite
sulle sue origini dagli economisti volgari del suo tempo, che anche allora,
come oggi, abbondavano sulla scena pubblica.Il capitalismo, ricorda Marx,
finisce col trionfare essenzialmente, grazie alla privazione dei mezzi di produzione della grande
massa dei contadini inglesi (yeomen) da parte della piccola nobiltà. Ad essi viene
sottratta, tramite forme varie di esproprio, il possesso della terra e la casa
(cottage) venendo quindi posti in una condizione di
totale illibertà, nell’impossibilità di decidere sulla propria vita. Privati
dei mezzi con cui sino ad allora avevano vissuto, ad essi restavano due strade:
il vagabondaggio nelle città del Regno o il lavoro nelle manifatture. Nel
frattempo i vecchi e nuovi proprietari chiudevano le terre con recinti, anche
quelle che erano state comuni (commons), e
fondavano le aziende a salariati, cominciando con l’allevamento delle pecore
merinos. I processi di espropriazione messi in atto dalla nobiltà cadetta con
il movimento delle recinzioni (enclosures), a
partire dal XVI secolo, non sono altro che la fondazione della proprietà
privata dei pochi e l’esclusione e la perdita della libertà sostanziale dei
molti. Si trattò di un processo sociale di aperta violenza, di una violenza
sanguinaria descritta da Marx con impressionante ricchezza documentaria, benché
distribuito in un processo secolare. Marx non a caso cita l’Utopia di Tommaso Moro, un testimone del XVI
secolo, che mostra le scene miserevoli di carovane di famiglie espropriate,
costrette ad abbandonare i loro villaggi e racconta, con surreale sarcasmo,
dello strano «paese in cui le pecore mangiano gli uomini».[7] Com’è
ormai noto a chi si occupa di tali questioni, questo vasto processo di confisca
di terre pubbliche, ecclesiastiche e contadine, su cui si fonda la moderna
azienda capitalistica, ha ricevuto una rilevante legittimazione teorica da uno
dei fondatori del pensiero politico moderno, John Locke.
Nel Secondo trattato sul governo (1690)
Locke afferma che «qualunque cosa l’uomo rimuova dallo stato in cui la natura
l’ha lasciata, mescola ad essa il proprio lavoro e vi unisce qualcosa che gli è
proprio, e con ciò la rende sua proprietà. Rimuovendola dallo stato comune in
cui la natura l’ha posta, vi ha connesso con il suo lavoro qualcosa che esclude
il comune diritto degli altri uomini».[8] Immaginare
nell’Inghilterra del XVII secolo un originario stato di natura, dove un
solitario individuo, del tutto libero, si appropri di terre selvagge col
proprio lavoro, costituisce una evidente costruzione ideologica, un racconto
mitico, che serviva a legittimare il vasto movimento di espropriazione allora
in corso nelle campagne. E naturalmente aveva un valore più generale
soprattutto per dare dignità legale al saccheggio nelle colonie americane. Ma
Locke segna una svolta rilevante nella formazione del pensiero moderno anche
per un altro aspetto. Come ha osservato uno studioso tedesco, Hans Immler, in
una vasta ricerca che meriterebbe una traduzione italiana, Natur in der ökonomischen Theorie[9], Locke non solo fonda, con la sua teoria del
valore-lavoro le basi giuridiche della «proprietà privata pre-borghese», ma
svaluta la natura «come selvaggia e sterile se è bene comune» mentre stabilisce
che è l’«appropriazione privata che le dà valore»[10].
La natura in sé è un bene inutile, solo il lavoro che se ne appropria, la trasforma in ricchezza. Una costruzione
culturale che oggi, dopo diversi secoli di sfruttamento capitalistico, si corre
il rischio di accettare come vera. Ma basta uno sguardo storico di lungo
periodo per capire la sua sostanza di costrutto ideologico. In realtà, assi
prima del XVII secolo, per i lunghi millenni precedenti, gli uomini sono
sopravvissuti sulla terra e si sono moltiplicati in virtù della produzione spontanea della natura,
delle sue abbondanti risorse, non prodotte da alcun lavoro: acqua, bacche,
radici, frutta, animali. Per millenni il lavoro, così come già lo intendeva
Locke – cioé come un processo di valorizzazione del “capitale” terra – non è
mai esistito. Al suo posto, prima che nascesse l’agricoltura, c’era una pura e
semplice attività umana di raccolta e di predazione delle risorse esistenti.[11]
Come oggi ci appare evidente il saccheggio del mondo
vivente, e i problemi ambientali che ne seguiranno, hanno qui la loro prima,
sistematica legittimazione. Si potrebbe dire che Locke elabori i principi
costituivi, la normazione teorica della predazione delle risorse naturali come
processo di valorizzazione tramite un astratto e mitico lavoro umano.
Per la verità Marx – che ha uno sguardo meno
eurocentrico di quanto normalmente gli si attribuisce – sa che il processo di
formazione del capitalismo si svolge su scala globale, anche se ha il suo
centro in Inghilterra. La proprietà privata non si fonda solo attraverso il
movimento delle recinzioni e l’espulsione sistematica dei contadini dalle loro
terre e da quelle comuni. L’esercito di proletari privi di risorse per vivere –
e perciò necessitati a sopportare il pesante lavoro di fabbrica
nell’Inghilterra del XVIII secolo – era nato anche in altro modo, per lo meno
nelle colonie inglesi. Egli ricorda, ad esempio, nel capitolo di cui trattiamo,
un processo oggi obliato di appropriazione privata non di terre e beni, ma
addirittura di uomini, alla base della formazione del capitalismo. Grazie al
trattato di pace di Utrecht con la Spagna, nel 1713, l’Inghilterra estese
lucrosamente il suo già avviato mercato
di schiavi, prima praticato con l’Africa e i paesi delle Indie
Occidentali. Da allora essa «ottenne il diritto di provvedere l’America
spagnuola di 4.800 negri all’anno, fino al 1743. In tal modo veniva anche
coperto ufficialmente il contrabbando inglese. Liverpool è diventata una città
grande sulla base della tratta degli schiavi che costituisce il suo metodo di accumulazione originaria» [12].
Uno dei grandi centri urbani della rivoluzione industriale, orgoglio del
capitalismo trionfante, era figlio anche di quel cristianissimo commercio con
le Americhe che era la vendita di forza-lavoro in schiavitù. Giovani africani
strappati ai loro villaggi e condannati a una breve vita di fatiche disumane.
Il capitalismo di allora non disdegnava la “proprietà privata” degli uomini,
venduti come prodotti coloniali nelle aziende schiavistiche del Sudamerica.
Ma Marx ci ha fornito anche altri strumenti analitici,
non meno rilevanti di quelli affidati al celebre capitolo del Capitale. Anzi, sotto il profilo teorico essi appaiono
oggi fondamentali per comprendere i meccanismi nascosti di autoriproduzione
della ricchezza e delle forme asimmetriche della sua appropriazione. In alcuni
passi dei Grundrisse egli ricorda non i
processi storici del passato, ma i meccanismi profondi di formazione e di
perpetuazione della proprietà sotto la forma moderna della produzione della
ricchezza industriale: « la proprietà – il lavoro altrui, passato o oggettivato
– si presenta come l’unica condizione per un ulteriore appropriazione di lavoro
altrui». Vale a dire, per uscire dal linguaggio astratto ed “hegeliano” di
Marx, le macchine, la fabbrica stessa, costruite da altri operai (lavoro altrui) non appartengono ai lavoratori, ma sono
proprietà dell’imprenditore e si presentano agli operai stessi come la
condizione obiettiva, naturale, che dà loro da vivere, tramite un ulteriore
sfruttamento del loro lavoro. Il
capitalismo non crea solo merci, ma riproduce e allarga i rapporti di
produzione, ingigantisce cumulativamente le gerarchie di potere, rende la
proprietà privata un dato di natura che si autoalimenta. « Il
diritto di proprietà – continua Marx – si rovescia da una parte (quella del
capitalista) nel diritto di appropriarsi del lavoro altrui, dall’altra (quella
dell’operaio) «nel dovere di rispettare il prodotto del proprio lavoro e il
proprio lavoro stesso come valori che appartengono ad altri», cioé come
proprietà privata del capitalista.[13] È
questa asimmetria originaria di potere, su cui si fonda il rapporto
capitalistico di produzione, a diffondere la proprietà privata come architettura
generale della società. Essa, trasformandosi in denaro, fabbriche, palazzi,
terre, centri commerciali, e dunque “cose” di un paesaggio “naturale” occulta
costantemente il lavoro che li ha generati.Tale metamorfosi del lavoro
trascorso trova poi la legittimazione del diritto e la difesa armata dello
stato, presentandosi come una solidificazione geologica indiscutibile.
Ma occorre a questo punto una considerazione storica
preliminare importante, decisiva per comprendere il successo storico del
capitale. Occore infatti riconoscere che l’accettazione sociale del dominio
proprietario – reso prima di tutto possibile dai rapporti asimmetric ie
cumulativi tra detentori dei capitali e proletari, tra ricchi e poveri, dai
nudi rapporti di forza tra queste due classi – è risultata storicamente
vittoriosa anche e forse soprattutto grazie al successo economico che essa ha
conseguito rispetto ai modi di produzione precedenti. Benché una analisi
storica sistematica non dovrebbe trascurare la forza di principio d’ordine
sociale che la proprietà privata ha finito col rappresentare nelle società
dell’Occidente, elemento di regolamentazione tra individui e classi e al tempo
stesso presidio di stabilità. Una stabilità che l’elaborazione ideologica della
cultura dominante ha saputo fare universalmente introiettare come esaltazione
dell’interesse dei singoli individui.
Oggi dovrebbe apparire evidente che la vittoria del modello
proprietario nella formazione delle società contemporanee è
inscindibile dal successo produttivo del capitale.
L’azienda capitalistica a salariati a un certo punto è risultata più efficiente
delle singola piccola coltivazione contadina o della bottega artigiana. La
piena disponibilità per il singolo capitalista di una massa di lavoratori
formalmente liberi, messi al servizio di macchine sempre più efficienti,
costretti per l’intera giornata a uno sforzo psicofisico sistematico, ha avuto
come risultato una crescente produzione di ricchezza. La massa senza precedenti di beni che
usciva dalla fabbrica capitalistica è diventata storicamente la giustificazione
universale della legittimità di quella forma di appropriazione privata del
lavoro altrui. Il successo generale sul piano strettamente produttivo
conquistava ai capitalisti il plauso generale della società. Lo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo, l’assoggettamento al lavoro della grande massa della
popolazione, venivano nascosti dall’efficienza della macchina. Tanto più che la
crescita della ricchezza generava altri ceti sociali esterni alla fabbrica,
destinati a elaborare un nuovo immaginario, quello del progresso generale della
società, che finiva coll’occultare il segreto motore dello sfruttamento operaio
che ne costituiva il fondamento.
È qui da ricercare indubbiamente una delle basi
dell’egemonia del capitale nell’epoca della sua affermazione e del suo trionfo
sulla vecchia società, nel XIX secolo. L’elaborazione
di un grande racconto di progresso dell’umanità, accompagnata dalle
condizioni di libertà formale del lavoro, ha coperto la gigantesca privatizzazione
del lavoro umano verificatesi nel corso dell’età contemporanea. E occorre
aggiungere che i maggiori autori che hanno elaborato il racconto del progresso
sono stati gli storici. Tutta, si può dire, la produzione storiografica
sull’età contemporanea, anche quella di ispirazione marxista, è orientata dal teleologismo progressista. Nella narrazione della nostra epoca la
freccia del tempo corre in maniera più o meno trionfante in una sola direzione:
dall’arretratezza della società preindustriale ai fasti dell’odierna modernità.
Non a caso, la pagina di Marx sull’accumulazione
originaria, in cui si racconta di un secolare processo di espropriazione, è
stata trattata dagli storici come una premessa della cosiddetta “rivoluzione
agricola inglese”. E questo in ragione del fatto che, mentre i contadini
venivano trasformati in salariati, la produzione agricola conosceva incrementi
di produzione senza precedenti. Quegli storici, infatti, hanno esaltato i
processi di liquidazione delle strutture feudali e hanno guardato come a un
progresso generale l’avanzare del capitalismo nelle campagne.[14] Perfino
un grande storico come Marc Bloch deplorava lo «scandalo del compascuo», vale
dire la disponibilità dei contadini di portare le proprie pecore nel fondo del
barone dopo i raccolti.[15] La
piena disponibilità della terra da parte del proprietario veniva infatti
considerata come condizione per un suo più efficiente uso e i vecchi rapporti comunitari visti come
un impaccio al pieno sviluppo delle forze produttive. Ma questo
atteggiamento apologetico nei confronti dei vincitori – che sorregge tutta la
storiografia contemporanea – è figlia anche dell’ambivalenza
di Marx, che deplora l’espropriazione dei contadini, ma ammira la
borghesia rivoluzionaria impegnata a distruggere il vecchio mondo. Una
ammirazione, tuttavia, legata alla visione teleologica delle creazione delle
basi sociali di una rivoluzione prossima ventura, capace di liberare finalmente
e per sempre il lavoro salariato. Marx esaltava la borghesia capitalistica
perché il suo successo costituiva la base per un superiore assetto di
uguaglianza e di libertà umana. Il fatto che questo non si sia realizzato ci
rende oggi liberi da quel provvidenzialismo E ci dovrebbe consentire una
visione storica nella quale il processo della modernizzazione appaia sotto una
luce diversa da quella sinora tracciata. Un nuovo racconto sia per quanto
riguarda la sorte del lavoro, sia per ciò che concerne la natura, le risorse,
gli equilibri degli ecosistemi, beni comuni dell’umanità, il cui saccheggio
privato è stato tenuto nascosto dalla rappresentazione storica e dalla sua
nascosta teleleogia.
La natura comune
Oggi, naturalmente, appare sommamente difficile, se
non impossibile, scorgere nel paesaggio delle città contemporanee le tracce del
lavoro che ne hanno edificato le strutture. I grattacieli, le fabbriche, i ponti
e le strade, le banche, le abitazioni, le aziende agricole, i centri
commerciali appaiono tutti frammenti di un paesaggio di cose, e dunque un
principio di realtà indiscutibile in cui si svolge naturalmente la nostra vita.
Non appare più possibile scorgere la privatizzazione del lavoro umano che le ha
fatto sorgere. E mettere oggi in discussione la titolarità di questa ricchezza
solidificata in forme di cose, trasformata in eredità storica, comporterebbe un
tasso di violenza sociale inimmaginabile, e dunque politicamente non
praticabile. D’altra parte, occorre riconoscere che la ricchezza generale
prodotta dal capitalismo riscatta in parte le inique modalità storiche in cui
essa è stata generata. Anche
se tante, troppe generazioni di lavoratori non ne hanno goduto, le lotte
operaie del XX secolo hanno reso possibile una sua ampia redistribuzione, che
ha toccato i ceti popolari e vaste fasce di popolazione.
Ma oggi
siamo entrati in una fase storica in cui il problema della proprietà e dei beni
comuni acquista una nuova attualità, a causa di una duplice dinamica, sempre più
dispiegata. Da una parte infatti, il
capitalismo cerca sempre più di impossessarsi privatamente, a fini di profitto,
di ambiti di realtà sinora inesplorate. Si pensi alle appropriazioni e
brevettazione di piante e semi da
parte delle aziende biotecnologiche negli ultimi anni.[16] Il
mondo vivente è oggi un terreno di caccia in cui scovare nuove fonti di
profitto. Ma è anche il caso di risorse vitali per la vita umana trasformate in
merci preziose nel giro di qualche decennio. Si pensi all’acqua, oggi definito l’oro blu
del nostro tempo.[17] Eppure
allorché è sorto il pensiero politico moderno, quando è stata sistemata in un
quadro coerente la società capitalistica al suo sorgere, l’acqua appariva priva
di valore. Nella sua Inquiry sulla Ricchezza delle nazioni, Adam Smith, poteva
legittimamente affermare che «Nulla è più utile dell’acqua, ma difficilmente
con essa si comprerà qualcosa, difficilmente ne può avere qualcosa in cambio.
Un diamante, al contrario ha difficilmente qualche valore d’uso, ma in cambio
di esso si può ottenere una grandissima quantità di altri beni».[18] Oggi
la situazione appare quasi capovolta e una risorsa come l’acqua, inseparabile
dal diritto degli individui alla sopravvivenza, appare carica di valore
economico come mai in tutta la storia precedente. E diventa evidente che
proprio il suo ingresso nel processo di valorizzazione del capitale, il suo
divenire merce, mentre la strappa definitivamente dalla condizione di res nullius, cosa di nessuno, la disvela agli occhi
delle popolazioni come un bene comune drammaticamente scarso e perciò conteso.
Siamo entrati, per dirla con le parole di uno storico statunitense
dell’ambiente, James Moore, in una fase di «fine della natura a buon mercato».[19] Le
risorse naturali, sempre più scarse per effetto della crescita della
popolazione mondiale e dello sfruttamento sempre più vasto e sistematico,
tendono ad apparire sempre meno quali “fattori di produzione”, appartenenti a
questo o a quel paese, a questa o a quella corporation privata,
e sempre più quali fonti indispensabili per la sopravvivenza di tutti. La loro
sempre più stringente necessità generale le restituisce all’ambito originario
dei beni comuni.
L’altra dinamica, a questa indissolubilmente connessa,
che fa emergere intorno a noi un paesaggio di beni comuni prima nascosto è il
processo ormai dispiegato di squilibri
ambientali che colpisce non solo isolate realtà, ma l’intero
pianeta. Di giorno in giorno appare sempre più evidente che la natura non
sopporta un utilizzo privato e distruttivo delle sue risorse, non regge più il
saccheggio a cui il capitalismo la sottopone in forme crescenti da almeno tre
secoli. Ma la specifica novità del nostro tempo è che la natura tende ad
apparire sotto gli effetti squilibranti dell’azione umana, sempre meno
divisibile in singole risorse sfruttabili: l’acqua, la terra, l’aria, le
piante, ecc. Essa sempre più appare come una totalità indivisibile e
intimamente connessa, e sempre di più, dunque, come un common globale.
Guardiamo quel che ormai da tempo avviene intorno a
noi, nelle nostre città. Noi oggi scopriamo quello che sino a qualche decennio
fa non eravamo quasi capaci di scorgere: il legame sistemico tra il cielo e la
città. Siamo costretti a misurare la qualità dell’aria che
in essa si respira, e a prendere atto della sua manipolazione, insieme privata
e collettiva, a scopi produttivi e di varia altra natura. Il sorgere di un
rischio per la salute umana, esploso in maniera allarmante negli ultimi
decenni, ha fatto emergere quale bene comune una risorsa vitale irrinunciabile,
un elemento naturale da tutti ignorato per millenni in quanto illimitato e
relativamente integro. L’aria oggi è diventato un common. Noi tutti respiriamo l’aria che ci circonda
senza pensare ai nostri polmoni, ma anche senza badare al fatto che essa è
natura, che da essa dipende la nostra vita, e certamente senza chiederci a chi
giuridicamente appartiene. Ma l’apparire della scarsità di questa risorsa, la
sua violazione e alterazione (che corrisponde a una appropriazione privata dei
singoli) la fa emergere quale elemento naturale che rende possibile l’esistenza
di tutti, illumina il suo carattere di bene collettivo e indivisibile.
Sono non pochi gli ambiti in
cui le alterazioni ambientali disvelano il carattere nascosto di bene comune
delle risorse naturali, per via della loro indispensabilità alla vita di tutti. Si pensi alla terra fertile, alla stabilità del
territorio, alla biodiversità naturale, ecc.[20] Oggi
noi scopriamo, in maniera specificamente significativa in Italia, che il
territorio delle nostre città e delle loro periferie non può più essere
edificato e manomesso secondo gli interessi privati dei singoli. La sua
integrità non può più essere subordinata alla piena disponibilità di chi vanta
la proprietà privata di un suo singolo frammento. Oggi sappiamo, con maggiore
pienezza e con più ricca esperienza di qualche anno fa, che costruire,
cementificare, sottrarre aree di verde all’ecosistema
territorio finisce col produrre danni generali che investono
l’intera comunità. Ogni frammento di verde sottratto al territorio di una
qualche zona corrisponde alla perdita di una “spugna” capace di assorbire
l’acqua piovana durante le grandi piogge, rappresenta una diminuzione
dell’effetto di contenimento delle polveri sottili prodotte dalle attività
urbane, accresce l’instabilità del suolo e degli abitati, altera il microclima
del luogo perché sostituisce natura vivente (erbe, alberi) con materia inerte
che assorbe e genera calore. Ma in generale, costruire un edificio in un
qualunque luogo di un paese intensamente antropizzato comporta l’alterazione
evidente di interessi generali, a fronte dei quali la proprietà privata di un
singolo pezzo di territorio appare sempre più priva di diritti individuali da
rivendicare.
Infine, il clima,
altro common finora nascosto. Lo scenario climatico che
le conoscenze scientifiche del nostro tempo hanno squadernato davanti a noi ci
mostrano oggi un altro aspetto di legame sistemico tra la città, i suoi attori
naturali, e il più vasto spazio planetario. Le città ci fanno sperimentare la
nuova mondialità del locale. Mai come oggi esse erano apparse così nitidamente
quali punti interconnessi di una rete a scala globale. Com’è largamente noto, è
lo smog cittadino, sono gli scarichi urbani e i fumi industriali per produzioni
destinate alle città a determinare una percentuale rilevante di immissione di
gas serra nell’atmosfera.Tutte le città del mondo, centri energivori di varie
dimensioni e potenza, consumano in maniera crescente petrolio e carbone,
alterando il clima atmosferico, surriscaldando il nostro comune tetto di
abitanti della Terra. Il riscaldamento globale, potremmo dire, senza forzare
molto le cose, è figlio del metabolismo urbano.[21] E
dunque se le attività produttive e il movimento dei singoli oggi arrivano a
intaccare gli equilibri di ciò che appariva, sino a pochi decenni fa, così
incommensurabilmente lontano – l’atmosfera – un nuovo e più vasto common appare davanti a noi, destinato a
condizionare la proprietà privata di tutti e il suo libero uso. Essa non più
essere considerata ciò che finora è stata, la discarica res nullius dove ognuno poteva gettare i propri
fumi e veleni.Il suo diventare il tetto comune dell’umanità è destinato a
cambiare molte cose nella storia a venire delle nostre società.
Note al testo
[1] Laterza, Roma-Bari.
[2] Si vedano alcuni esempi in P.
Grossi, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di
proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè
Milano, 1977; S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi
sulla proprietà privata, il Mulino, Bologna, 1981 (e varie
edizioni successive); P. Maddalena, Il territorio bene comune degli
italiani, Donzelli, Roma, 2014.
[3] P. Bevilacqua, Saperi umanistici e saperi scientifici per ripensare il mondo,
in P. Bevilacqua (a cura di), A che serve la storia? I saperi
umanistici alla prova della modernità, Donzelli, Roma, 2011, p.10 e
ss.
[4] Mattei, Senza proprietà non c’è libertà, cit.
[5] K. Marx, Il Capitale, Libro primo.Traduzione di D. Cantimori,
introduzione di M. Dobb, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 777-836
[6] U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Leterza, Roma-Bari,
2011. Ma si veda anche, con più attenzione agli aspetti ambientali
dell’appropriazione G. Ricoveri, Beni comuni vs. merci,
Jaca Book, Milano, 2010. E, per un approccio pluridisciplinare, P. Cacciari (a
cura di), La società dei beni comuni, Carta,
2010.
[7] Marx, Il capitale, I, cit. p.783
[8] J. Locke, Il secondo trattato sul governo, introduzione di
T. Magri, traduzione di A. Gialluca, BUR, Milano, 1998, p. 97.
[9] H. Immler, Natur in der ökonomischen Theorie, vol. I, Vorklassik-Klassik-Marx, vol. II,
Phisiocratic-Herrschaft der Natur, Westedeutscher Verlag,
Opladen, 1985, pp. 79-87.
[10] Ibidem, p.87.
[11] La tendenza ad applicare le
categorie dell’economia politica anche alle più remote fasi dell’umanità, a
valutare il valore della natura secondo i criteri dell’economia di mercato, è
stata a lungo molto diffusa. Cfr. P. Bevilacqua, Demetra e Clio. Uomini e
ambiente nella storia, Donzelli, Roma, 2001, pp. 4-6 e p. 85 e ss.
[12] Marx, Il Capitale, cit. p. 822.
[13] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, presentazione,
traduzione e note di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze ,1970, vol. II, p. 78.
[14] Ma è stato provato che la
“rivoluzione agronomica” in Inghilterra, vale a dire l’associazione di cereali
e leguminose con conseguente aumento delle rese produttive, era stata già
praticata dai contadini sin dal XV secolo (R.C. Allen, Le due rivoluzioni agrarie, 1450-1850, «Rivista di
storia economica», 1989, n. 3.
[15] M. Bloch, I caratteri originali della storia rurale francese, Einaudi,
Torino, 1873.
[16] Si veda, per il processo di
globalizzazione come appropriazione privata – entro una letteratura sempre più
estesa – V. Shiva, Il bene comune della terra,
Feltrinelli, Milano, 2006. Sull’appropriazione scientifica del vivente,
cfr. M. Cini, La scienza nell’era dell’economia della conoscenza; G.
Tamino, Il riduzionismo biologico tra tecnica e ideologia; E.
Gagliasso Luoni, Riduzionismi: il metodo e i valori,
in C. Modonesi, S. Masini, I. Verga, Il gene invadente:
Riduzionismo, brevettabilità e governance dell’innovazione biotech,
introduzione di M. Capanna, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2006; sulle imprese
biotech, M. De Carolis, La vita nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
[17] M. Barlow e T. Clarke, La battaglia contro il furto mondiale dell’acqua: come non esserne
complici, Arianna Editrice, Bologna, 2009.
[18] A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni,
Mondadori, Milano, 1997, I, p. 17.
[19] J. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a
buon mercatoi, introduzione e cura di Gennaro
Avallone, Ombre corte, Verona, 2015. Sul rapporto tra capitalismo e risorse
della terra, sotto il profilo teorico, J. Bellamy Foster, B. Clark, R. York, The ecological rift. Capitalism war on the earth,
Monthly Review Press, New York, 2010.
[20] Su quest’ultimo aspetto cfr.
C. Modenesi e G. Tamino (a cura di), Bio diversità e beni comuni, introduzione
di M. Capanna, Jaca Book, Milano 2010.
[21]Sul riscaldamento globale che gode
ormai di una bibliografia sconfinata, cfr essenzialmente V.Ferrara e
A.Farruggia, Clima istruzioni per l’uso.I fenomeni, gli
effetti,le strategie, Edizioni ambiente, Milano 2007;
N.H.Stern, The economics of climate change: the Stern
review, Cambridge University Press, Cambridge 2007. Per dati più
aggiornati si possono consultare in rete i rapporti periodici dell’Intergovernamental
Panel on Climate Change ( IPCC)
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