La chiamavano la lady di ferro. Sembrava quasi un complimento e
magari ne andava fiera. In realtà era una donna terribile e non averla definita
in modo corretto ha fatto sì che non si percepisse il suo essere un’assassina.
Parliamo di Margaret Thatcher, premier britannica negli anni Ottanta, la donna
che ha fatto grandi danni alla Gran Bretagna distruggendo il welfare a favore
del liberismo più sfrenato. La donna-premier che ha ordinato che morissero di fame dopo lunga agonia
Bobby Sands e altri nove prigionieri politici nord irlandesi alle cui proteste
rispondeva che “i carcerati non rappresentano nessuno e
non hanno diritto di essere ascoltati”. La donna che alla sua nomina di Primo
Ministro aveva dichiarato “dove regna la disperazione
porterò la speranza.” E il mondo delle istituzioni aveva finto di
crederle. L’etichetta di “democrazia” ha coperto e copre tuttora le peggiori
nefandezze, basti vedere Israele come esempio paradigmatico di questa
affermazione.
La
Thatcher pensava che la morte dei prigionieri politici sarebbe stata la fine
delle rivendicazioni dell’IRA, ma si sbagliava. Così come si sono sbagliati
finora tutti gli statisti israeliani, dai vecchi terroristi sanguinari come
Begin, poi diventato Primo Ministro di Israele, ai nuovi razzisti come
Lieberman o Bennet.
“Sono un prigioniero politico perché sono l’effetto di una guerra
perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero,
schiacciante, non voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra” aveva scritto Bobby Sands nei pezzetti
di carta igienica che riusciva a far uscire dal carcere, quando aveva iniziato
la forma di lotta nonviolenta – che lo avrebbe portato alla morte – per
rivendicare i diritti dei prigionieri politici che lottavano per l’indipendenza
della loro terra.
Ma la “lady di ferro” li
scherniva, i carcerieri li massacravano e la più antica democrazia d’Europa non
perdeva “per così poco” la sua definizione di nazione democratica, grazie a
quella complicità mondiale tra i potenti della terra che supera anche le loro
stesse rivalità. Le supera quando il nemico non ha altri padrini che la
solidarietà umana e politica dei movimenti di piazza.
Ora nelle
carceri israeliane sono ben 1600 i prigionieri in sciopero della fame. Non fa
riflettere questo numero?
No,
non solo non fa riflettere, ma non fa neanche notizia se è vero – come è vero –
che alla conferenza stampa convocata dall’Ambasciata palestinese a Roma non si
è presentato neanche un giornalista. Neanche uno! Non
fa notizia ciò che non si vuole dire, né ciò che “non si può” dire. E sappiamo
molto bene quanto la stampa mainstream sia addomesticata tra bastone e carota,
al punto che piuttosto che mettere a rischio la propria carriera (spesso
peraltro misera) molti giornalisti preferiscono autocensurarsi. Per
questo è
di fondamentale importanza l’uso dei social, per questo chi ha fatto simbolici
digiuni ad acqua e sale e li ha condivisi sul web supplisce alla mancanza
dell’informazione mainstream. Per questo è importante la stampa
libera online. Poi, quando ormai la notizia sarà comunque arrivata, non potrà
più essere ignorata neanche da Tv e quotidiani a libro paga.
Ma fino al momento in cui
questo articolo viene redatto, neanche la disgustosa reazione israeliana allo sciopero della fame ha
fatto notizia in Italia. Dai giornali israeliani si è
appresa la notizia della reazione allo sciopero, ma solo i social media l’hanno
rilanciata. E’ stata una reazione di un razzismo e di una ferocia degna della
più abietta sub-cultura in stile Ku Klux Klan. Sappiamo che la feccia di
quel tipo è trasversale ad ogni nazione e ad ogni credo, ma il particolare
gravissimo per uno Stato che si dice democratico, è che le stesse esternazioni
le ha fatte il Ministro della Difesa Avigdor Lieberman, il quale ha
tranquillamente affermato, sapendo di avere il favore di gran parte del popolo
israeliano, che per lui i prigionieri dovrebbero essere lasciati morire di
fame.
Ma siccome la disumanità,
unita alla ferocia di chi sa che resterà impunito non ha limiti, sono varie le
esternazioni di rappresentanti istituzionali di Israele che hanno raggiunto
picchi da denuncia. E’ grave che i media siano rimasti distratti, perché la
conoscenza di tali dichiarazioni è fondamentale per capire quale grave rischio
stia correndo la cosiddetta democrazia israeliana, visto che non c’è sanzione,
ma al contrario plauso per affermazioni quali quella del parlamentare della
Knesset Oren Hazan, che dileggia con feroce ironia le legittime proteste
dei prigionieri dicendo che possono morire anche tutti, tanto “le prigioni sono
sovraffollate, mentre sulla terra c’è posto per tutti i loro cadaveri”.
Se questo esprimono ministri e
parlamentari di uno Stato definito democratico, è naturale che la feccia,
compresa probabilmente quella fatta di leggiadre bambine invitate nel 2014 a
scrivere insulti sui missili mortali destinati ai loro coetanei a Gaza,
aggiunga odio a odio, invocando addirittura l’uso del gas e dei campi di
sterminio nei confronti dei palestinesi. Quel “mai più” invocato da Primo Levi ha finito per avere la sua
reinterpretazione in un “mai più per noi, popolo eletto”, ma i palestinesi sono un’altra cosa!
Ma cosa chiedono i prigionieri
politici che stanno mettendo consapevolmente a rischio la propria vita,
esattamente come fecero Bobby Sands e gli altri ragazzi irlandesi lasciati
morire per decisione della Thatcher? Chiedono ciò che non dovrebbe neanche
essere chiesto in uno Stato realmente democratico se, come già affermato oltre due
secoli da Voltaire, il grado di civiltà di uno Stato si giudica dalle sue
prigioni.
Dunque imporre trattamenti
degradanti, rinchiudere centinaia di persone senza capo d’accusa, consentire
percosse e torture diverse ai prigionieri, privarli dell’assistenza dei loro
avvocati, delle visite dei loro familiari, lasciarli morire di tumore
incatenati e senza cure, privarli dei più elementari diritti stabiliti dal
Diritto universale e dalle varie normative della legalità internazionale a
partire dalle Convenzioni di Ginevra, tutto questo non solo mostra la vera faccia di Israele, ma mette nella
giusta luce la nobiltà di una protesta come quella lanciata da Marwan
Barghouti, in galera da 15 anni e accolta da quasi 1.600 detenuti, che sanno
che forse questa forma di lotta segnerà la fine della loro vita.
Ma la
speranza dei detenuti è quella di conquistare la solidarietà di tutte le
fazioni palestinesi dentro e fuori le galere israeliane e l’attenzione del
mondo. Se
il silenzio dei media verrà rotto dai social attivi nel web, forse ce la
faranno. Il “Comitato palestinese per i prigionieri” chiede che si faccia
pressione su Israele affinché accolga le richieste legittime dei detenuti.
Ma non basta. Israele è paese
occupante e questo il mondo democratico non può sottacerlo o tollerarlo. Ne va
della democrazia di tutti. Questo lo sanno bene i
leader dello sciopero, i quali hanno rilasciato un comunicato in cui chiedono
al popolo palestinese, sia in Palestina che nella diaspora, di scatenare
la sua rabbia contro l’occupazione e di bloccare le ambasciate israeliane in
tutto il mondo, di organizzare presidi ovunque possibile, sia dentro che fuori
dalla Palestina.
Intanto si sa che la Lega
Araba ha finalmente chiesto all’ONU di aprire immediatamente un’inchiesta
internazionale sulle violazioni commesse da Israele nelle sue carceri. Intanto
il governo israeliano sta cercando medici disposti a praticare l’alimentazione
forzata, pur sapendo che è vietata dalle convenzioni internazionali e in
particolare dal protocollo di Malta del 1991, che la considera una forma di
tortura.
Se
i prigionieri ce la faranno, Israele sarà comunque sostenuto dai suoi
protettori internazionali, ma la sua immagine ne uscirà macchiata. Se non ce la
faranno, perché Israele può contare sul sostegno del Presidente degli Usa e di
tanti altri paesi alleati, alcuni di loro cominceranno a morire, ma l’immagine
di Israele sarà comunque compromessa. Ciò che ormai non
si potrà più nascondere sarà la superiorità morale dei prigionieri politici, i
quali interpreteranno il ruolo che la storia gli assegna: quello di
rappresentanti di un popolo oppresso da un paese occupante, armato e potente
contro il quale si batte chi lotta per la giustizia. Da qui il motto del loro
sciopero: Dignità e Libertà.
(L’articolo di Patrizia Cecconi è stato pubblicato anche da Pressenza)
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