La primavera a scuola ormai non
viene annunciata dall'arrivo delle rondini, ma dall'attivismo dell'editoria, di
quella che guadagna soldi sugli eserciziari preparatori ai test invalsi, che,
come ogni docente e genitore sa bene, arrivano da tredici anni in marzo nelle
nostre scuole. Quest'anno insegno matematica in una seconda di scuola primaria,
classe destinataria delle prove. Ho sempre cercato di contrastare questi test
in ogni modo, dallo sciopero all'analisi critica, all'obiezione di coscienza.
Penso che la loro introduzione abbia fatto molti danni alla “cultura
scolastica” nazionale, spingendo molti insegnanti ad impoverire la propria
didattica, fornendo ad altri un alibi per continuare a farlo, in ogni caso
standardizzardo l'insegnamento per renderlo funzionale alla preparazione dei
test. Per alcuni anni ho anche sperato che il movimento anti-test raggiungesse
il suo scopo, l'abolizione delle prove. Oggi mi rendo conto che l'obiettivo
attualmente credibile è più modesto: mantenere in vita la critica, continuare
ad applicare la ragione pedagogica di fronte ai fondamentalisti dei test,
praticare una didattica della discussione, continuare a scioperare.
Però un problema si pone.
Quello dell'atteggiamento verso la testificazione della didattica da tenere con
le mie giovani allieve e allievi. Questa testificazione infatti permea ormai la
società, decide degli accessi universitari, impregna orrendamente i manuali
scolastici e spesso viene usata nella selezione del personale. Se il compito
del pensiero critico – filosofia, sociologia dell'educazione, pedagogia -
rimane quello di operare un'analisi priva di indulgenza della reificazione
connaturata in queste prove, quello mio in classe non può più limitarsi ad un
aggiramento, all'obiezione di coscienza o allo sciopero. Se il test è la forma
della didattica conformista del XXI secolo, il mio compito sarà quello di
provare a costruire una didattica critica di questi test, che aiuti gli allievi
e le allieve a comprenderne i limiti e a difendersene in futuro. Non è facile,
d'accordo; ma limitarsi ad evitare i test è troppo poco. Proviamo.
Come ho proceduto? Mi sono
scaricato l'opera omnia dell'invalsi di matematica, dal 2003, per la seconda
classe. L'ho letta, l'ho salvata in pdf. I quesiti, lo sappiamo, non sono
diversi da una parte di quelli che troviamo nei libri di testo o che prepariamo
noi stessi per esercitazioni e compiti. La critica didattica all'invalsi non si
appunta quasi mai su quel singolo problema o su quella particolare operazione,
ma sulle modalità di lavoro e sulle procedure di risoluzione che vengono
prescritte in esso (oltre alla ingenua pretesa di valutare, attraverso quelle
risposte, allieve, docenti e tutto il sistema scuola nazionale). L'Invalsi
chiede individualismo, rapidità, fornisce risposte predeterminate, non accetta
soluzioni che escano dagli schemi previsti, esclude a priori la discussione e
ogni accezione dialogica, interdice le domande. Incardinato in questi vincoli
metodologici, qualsiasi esercizio di matematica cambia aspetto e diventa un
percorso di addestramento alla rapidità e al ruolo esecutivo, una celebrazione
dell'approccio individuale, un attacco al pensiero critico o divergente. Allora
ho pensato di provare a proporre quelle stesse prove scardinando i
principi-guida dell'invalsi. Mi ha aiutato snapshot, la funzione presente ormai
nella maggior parte dei lettori di files pdf che permette di carpire immagini
per riutilizzarle in altri contesti. Così ho cominciato a ricucinare
l'archivio-invalsi.
Il primo passo è stato quasi
rituale. Formati vari gruppi ho consegnato ad ognuno un quesito, privato delle
risposte predeterminate, e ho chiesto di leggerlo insieme, di discuterlo, di
formulare le ipotesi di risposta che ritenevano possibili. Dopo la riflessione
iniziale potevano anche vedere la risoluzione proposta dai compagni che li
avevano preceduti e alla fine, con calma, se ne è discusso insieme. La
risoluzione cooperativa dei quesiti e la possibilità di confrontarsi mi
parevano essenziali per vincere l'idea di un sapere che si costruisce da soli,
in lotta contro il tempo, in isolamento o magari in competizione con le
compagne e i compagni. L'esperimento ha funzionato bene. L'abbiamo ripetuto
alcune volte, facendo emergere dalla riflessione dei bambini la risposta o le
risposte, magari anche errate, ma formulata dal loro lavoro intellettuale e dal
confronto e sostenute dalla loro argomentazione, e non prescelte tra quelle
fornite precotte dal tecnico invalsi. Sia chiaro: confrontarsi e cooperare per
ottenere una risposta condivisa è un lavoro difficilissimo, bisogna provare e
riprovare, con pazienza; abbiamo iniziato, continueremo con costanza.
Come secondo passo mi sono
concentrato sulle risposte. L'invalsi generalmente limita le possibilità di
risposta a 4, fornendole già preconfezionate. Non essendo in classe, i tecnici
invalsi non si rendono conto della differenza profonda che corre tra la scelta
di una risposta già formulata e la formulazione di una risposta. È evidente che
per chi vuole contare delle risposte e trarre da esse delle percentuali
statistiche, avere quattro tipologie è utile: semplifica, incasella
forzatamente i ragionamenti delle bambine e dei bambini e quindi illude gli
elaboratori dei dati di avere a disposizione quantificazioni corrispondenti
alla realtà di pensiero di chi ha fatto il test. Invece, appena si tolgono
queste quattro uscite predeterminate, ci si accorge di due elementi cruciali:
da una parte il pensiero risolutore si muove in brughiere ben più sterminate e
contraddittorie di quelle ipotizzate dai signori invalsi; dall'altra, le
risposte predeterminate – soprattutto per i più piccoli – costituiscono un
invito potente e nefasto ad esautorare il proprio ragionamento.
Così, per fare i conti con
queste riflessioni, ho provato a seguire due principi in apparenza contraddittori.
Da una parte ho voluto iniziare
ad insegnare cosa sono le prove a risposte multiple (una delle mille formule di
strutturazione della didattica che però stanno assumendo un'importanza enorme
in quest'epoca proprio in virtù della loro semplice codificabilità),
organizzando però le attività non in funzione di un'astratta e per me inutile
raccolta dei dati, ma tarando le difficoltà sulle capacità dei bambini della
mia classe e sulla opportunità di presentare le difficoltà legate a questa
forma di esercizio in maniera progressiva e razionale didatticamente, cioè
facendo fare semplici prove non invalsiane in cui le risposte tra cui scegliere
fossero due, fossero univoche, fossero funzionali all'apprendimento progressivo
del format e non all'estrazione di dati “in vivo”.
Dall'altra parte nella pratica
didattica ho usato spesso le prove presenti nell'archivio invalsi, ma togliendo
quasi sempre le risposte dai quesiti che mi piacevano e che proponevo alla
classe. Insomma: mica mi pagano per produrre statistiche, mi pagano per
insegnare a risolvere, e quelle risposte predeterminate avrebbero limitato
fortemente le potenzialità didattiche dell'esercizio.
L'effetto è conosciuto ad ogni
insegnante: si moltiplicano le tipologie di risposta, mostrando quanto varie
siano le strade scelte per la risoluzione dai bambini e quanto poco
incasellabili a priori siano le tipologie di errore. Certo, non lo si può fare
ogni giorno, la fatica della correzione e della ristrutturazione della
didattica sulla base degli errori sarebbe improba; ma fatto qualche volta
all'anno su alcuni quiz invalsi aiuta a mantenere viva nella nostra mente di
insegnanti quanto sia limitata la semplificazione che ci vorebbero imporre.
Poi però ho fatto fatica a
trattenermi. Se potevo presentare i quiz invalsi senza le rispostine
predeterminate, perché non fare un passettino di più e togliere anche le
domandine predeterminate? Anche in questo caso colpisce subito il
piacevolissimo senso di apertura e la sensazione di entrare in terre
inesplorate. Infatti in seconda classe il contratto didattico è già molto
forte, ma le forme attraverso le quali ottemperarvi sono ancora legate ai
limitati protocolli sperimentati nella didattica. Ad esempio: se assegno un
“problema” sanno che solitamente formulare un'operazione risulta apprezzato dai
maestri, quindi bambine e bambini cercano di soddisfare questa predilezione dei
docenti anche a prescindere dalla necessità. Ma se si lascia nell'indistinto la
richiesta, la situazione problematica si ricarica inaspettatamente di possibili
interpretazioni, e le bambine e i bambini sono ricondotti indietro al processo
di comprensione. E le informazioni da trarre dalle situazioni prospettate
crescono in maniera esponenziale, mostrandoci come si comporta la razionalità
infantile quando le briglie dell'ammaestramento si allentano... Insomma, più
faticoso, spiazzante, ma pieno di stimoli per intervenire nella didattica in
maniera appropriata, e pieno si sollecitazioni per i bambini che non hanno
schemi facili cui aderire in automatico.
Una prova consisteva nel
presentare quattro coppie di figure geometriche, una dentro l'altra, da
scegliere in base alla coerenza della descrizione con solo una di esse.
Presentando solo le coppie e chiedendo loro una descrizione si ricostruisce la
ricchezza del pensiero infantile (e la possibilità poi di intervenire in
maniera mirata). Uno di questi disegni presentava un rettangolo e al suo
interno un quadrato (che è anche un rombo) ruotato di circa 30°. Ho chiesto di
colorare di verde il rettangolo e poi ho chiesto di descrivere il tutto. Chi
chiama la figura interna “rombo”, chi la chiama “quadrato”, chi “triangolo”,
confondendosi lessicalmente; ma comunicare la rotazione è il vero problema. Qui
si attivano risorse approssimative, ma di una certa efficacia: “un quadrato a
rovescio bianco”, “c'è un rettangolo con un quadrato storto sembra una chiave
inglese”, “il rombo è leggermente storto e i lati sono seghettati [ho dovuto
prendere atto che sulla fotocopia i segmenti del quadrato-rombo erano
irregolari, e che il piccolo osservatore ha utilizzato ciò che aveva imparato
nello studio delle foglie per segnalare questa particolarità; particolarità
trascurabile solo se da adulti selezioniamo le risposte preventivamente in base
al nostro concetto di geometria ben formato, mentre chi sta apprendendo non sa
se questo aspetto sia o no da ritenersi trascurabile – magari potrebbe poi
risultare uno dei fondamenti di una geometria seghettata, solo parzialmente
euclidea], “c'è un rettangolo con dentro un rombo (quadrato storto)”, “un
triangolo [confusione di nomenclature con l'altra figura] meso male detro a un
retangolo verde e groso”, “e dentro c'è un quadrato bianco e storto”, “sembra
una macchina fotografica con un rombo con un prato d'erba”.
Qui il pensiero infantile
riacquista la sua complessità e parziale irriducibilità allo sguardo
computazionale dello statistico. Tra questi citati tutti hanno chiaro il
prerequisito “dentro”, la rotazione viene percepita da molti, alcuni trovano un
modo per comunicarla, alcuni sottolineano la differente dimensione, alcuni
attivano paragoni con la realtà per descrivere meglio. Anche un quiz invalsi,
tolto dalla sua routine e dalla sua gabbia metodologica, può trasformarsi in
avventura.
Ma gli interventi attuabili
sono veramente tanti. Ad esempio: le prove richiedono l'uso della biro (credo
nera); nel nostro percorso ho ovviamente lasciato usare le matite perché
lavoriamo ancora con quelle, e non ho interdetto l'uso dei colori. Fare disegni
spesso serve alla risoluzione, e colorarli serve al proprio benessere, al
piacere di fare un bel lavoro (c'è un bambino che quando facciamo dei pallini
li trasforma sempre in faccine e li colora, perché proibirlo?). Ma a volte per
risolvere alcuni quesiti – o per comprendere situazioni – è anche utile usare materiali
– cubetti, stecchini, monete, disegnare e ritagliare... Ciò che per l'invalsi
può solo risultare una perdita di tempo o un pericoloso inquinamento del test,
per la nostra didattica si rivela uno strumento indispensabile alla cui utilità
cerchiamo ogni giorno di educare le bambine e i bambini.
Affrontare un quesito con la
possibilità di “costruire” le domande e le risposte facendo uso di ciò che
veniva ritenuto utile è la strada principale dell'insegnamento. Ad esempio,
affrontare i quesiti sui cubi (costruzioni riprodotte in prospettiva di cui
veniva richiesto di valutare il numero di pezzi usato) senza la possibilità di
usare i cubetti in legno o i dadi per ricostruire le strutture proposte diventa
assurdo. Eppure le prove invalsi sono “somministrate” con tempi ristretti, non
c'è possibilità di “perdere tempo” prendendo i cubetti per verificare
un'ipotesi, né di fare disegni che possano aiutare a comprendere il quesito e
tantomeno di farli per soddisfare il piacere di disegnare.
E la riflessione potrebbe
continuare, ma mi fermo qui. Parafrasando un grande del passato, potrei
affermare che quando la forma del test con risposte prefissate prende il
sopravvento e diventa la didattica di Stato e la via maestra all'apprendimento,
allora lo stesso modo di pensare dei bambini (e dei loro insegnanti) tende a
degenerare, e si comincia ad applicare questa formula anche nel lavoro
intellettuale in cui non sarebbe richiesto il procedimento tipico dei test.
L'approccio efficace nei test diventa la matrice del pensiero in generale. Il
pensiero perde così la sua autonomia, anche se si crede addirittura più
efficace ed oggettivo; esso perde la capacità (che non è una funzione naturale
dell'intelletto, ma prende forma storicamente) di guardare la realtà e i
problemi senza rinunciare alla libertà del proprio sguardo.
Per non rinunciare a questa
libertà chiudo proponendo una sorta di breviario per affrontare l'invalsi in
sede didattica disinnescandone le potenzialità riduzioniste. Un
contro-protocollo del non-somministratore, per far crescere anticorpi nelle
giovani menti.
1) Togliere le risposte.
2) Togliere le domande.
3) Lavorare anche a coppie e in
piccoli gruppi, per sperimentare il vantaggio del lavoro cooperativo.
4) Discutere ogni volta che si
riesce: prima, durante e dopo la risoluzione.
5) Lasciare possibilmente tutto
il tempo necessario.
6) Se si affrontano le risposte
prefissate multiple: valorizzare le risposte non previste.
7) Incoraggiare il disegno, sia
quello funzionale alla risoluzione dei quesiti, sia quello funzionale al
piacere di disegnare.
8) Suggerire o valorizzare le
simulazioni, l'uso degli oggetti, le teatralizzazioni che possono aiutare a
trovare le risoluzioni.
9) ...e, per le maestre e i
maestri, scioperare il giorno della prova.
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