giovedì 11 aprile 2013

Bambino per sempre - Cristovão Tezza

un romanzo che tratta del rapporto padre-figlio e prima ancora della paternità.
poi è anche riferito a una storia vera e il bambino ha la sindrome di Down, ma è sopratutto un bel romanzo che coinvolge chi legge.
così spero per voi - franz




un libro come questo corre un rischio peggiore del silenzio: quello di passare per il racconto compassionevole di un caso patologico. Cosa che forse gli procurerà una nicchia di mercato, ma non gli farà giustizia in quanto pezzo di letteratura. “Bambino per sempre”, del brasiliano Cristóvão Tezza, parla infatti di un tema delicato: l’handicap. “Una storia vera”, sottolinea l’editore italiano, probabilmente in cerca delle nicchie di cui sopra. Vi si narra la nascita di un figlio con sindrome di Down e, fin qui, si è detto tutto e niente, se non si aggiunge che Tezza è uno scrittore di razza e che “il figlio eterno” (così il titolo originale) è una bellissima riflessione sulla paternità che va ben oltre il patologico/patetico…
per Tezza il figlio è motivo di riflessione, fra le tante, sul Tempo. Di fronte a un essere a cui manca proprio tale cognizione, votato ogni giorno alla maledizione di un eterno ritorno più vicino a Peter Pan che a Nietzsche, il padre si ritrova alle prese con la scelta esistenziale. Niente di tutto ciò che non è stato sarebbe potuto essere, dirà a un certo punto. La scelta è solo una, non c’è un altro tempo che si dipana su di questo. È un po’ come dire: “Possiamo immaginare tante vite, ma non rinunciare alla nostra”, parole di Giuseppe Pontiggia in chiusura di “Nati due volte”, romanzo sulla sua esperienza col figlio disabile. Altro tema in comune fra i due libri (arrivando, per una certa proprietà transitiva delle trasposizioni cinematografiche, a “Le chiavi di casa”, film di Gianni Amelio ispirato a Pontiggia) è quello della vergogna. Il figlio, in quanto immagine e somiglianza del padre (anche qui la religione non fa altro che sublimare esperienze correnti), esalta o umilia la vanità genitoriale che in esso vorrebbe rispecchiarsi. Pratica spinosa, specie in un periodo come quello in cui la “politeness” linguistica era un problema remoto e il linguaggio della scienza tradiva la sua matrice imperialistica. John Langdon Haydon Down i suoi pazienti li aveva chiamati mongoloidi e qualcuno ancora li considera eredi di un’infamia.

Che tipo di mentalità definisce una sindrome secondo la somiglianza con i tratti di una etnia? – si chiede Tezza abbozzando forse un sorriso. – L’uomo britannico come misura di tutte le cose”.

L’albero che si riconosce nelle sue radici è un archetipo antico, e la sua rivisitazione nella coppia padre/figlio handicappato, in cui il secondo finisce per migliorare la sensibilità letteraria del primo, è un tratto già felicemente delineato da Kenzaburo Oe, sia in Un’esperienza personale che nel lungo racconto Insegnaci a superare la nostra pazzia, solo che lo scrittore giapponese aveva reso fin da subito, quasi, l’esistenza del figlio con una grave malformazione cerebrale e l’accettazione della sua diversità tra i motivi ricorrenti e fondamentali della sua opera, mentre Tezza ha dovuto far passare vent’anni prima di riuscire a parlarne. E la metafora che utilizzò in un saggio Kenzaburo per spiegare come la sua visione del mondo passasse attraverso «il corpo e lo spirito del figlio idiota», e che chiamava in causa il cielo e il mare dipinti da Magritte all’interno delle «cavità delle forme umane», è in fondo valida anche per Bambino per sempre, pur se introiettata solo alla fine dal protagonista, e comunque finisce per illuminare retrospettivamente tutto il romanzo….

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