poi è anche riferito a una storia vera e il bambino ha la sindrome di Down, ma è sopratutto un bel romanzo che coinvolge chi legge.
così spero per voi - franz
…un libro come questo corre un rischio peggiore
del silenzio: quello di passare per il racconto compassionevole di un caso
patologico. Cosa che forse gli procurerà una nicchia di mercato, ma non gli
farà giustizia in quanto pezzo di letteratura. “Bambino per sempre”, del
brasiliano Cristóvão Tezza, parla infatti di un tema delicato: l’handicap. “Una
storia vera”, sottolinea l’editore italiano, probabilmente in cerca delle
nicchie di cui sopra. Vi si narra la nascita di un figlio con sindrome di Down
e, fin qui, si è detto tutto e niente, se non si aggiunge che Tezza è uno
scrittore di razza e che “il figlio eterno” (così il titolo originale) è una
bellissima riflessione sulla paternità che va ben oltre il patologico/patetico…
…per Tezza il figlio è
motivo di riflessione, fra le tante, sul Tempo. Di fronte a un essere a cui
manca proprio tale cognizione, votato ogni giorno alla maledizione di un eterno
ritorno più vicino a Peter Pan che a Nietzsche, il padre si ritrova alle prese
con la scelta esistenziale. Niente di tutto ciò che non è stato sarebbe potuto
essere, dirà a un certo punto. La scelta è solo una, non c’è un altro tempo che
si dipana su di questo. È un po’ come dire: “Possiamo immaginare tante vite, ma
non rinunciare alla nostra”, parole di Giuseppe Pontiggia in chiusura di “Nati
due volte”, romanzo sulla sua esperienza col figlio disabile. Altro tema in
comune fra i due libri (arrivando, per una certa proprietà transitiva delle
trasposizioni cinematografiche, a “Le chiavi di casa”, film di Gianni Amelio
ispirato a Pontiggia) è quello della vergogna. Il figlio, in quanto immagine e
somiglianza del padre (anche qui la religione non fa altro che sublimare
esperienze correnti), esalta o umilia la vanità genitoriale che in esso
vorrebbe rispecchiarsi. Pratica spinosa, specie in un periodo come quello in
cui la “politeness” linguistica era un problema remoto e il linguaggio della
scienza tradiva la sua matrice imperialistica. John Langdon Haydon Down i suoi
pazienti li aveva chiamati mongoloidi e qualcuno ancora li considera eredi di
un’infamia.
Che tipo di mentalità
definisce una sindrome secondo la somiglianza con i tratti di una etnia? – si
chiede Tezza abbozzando forse un sorriso. – L’uomo britannico come misura di
tutte le cose”.
…L’albero che si riconosce nelle sue radici è un archetipo antico,
e la sua rivisitazione nella coppia padre/figlio handicappato, in cui il
secondo finisce per migliorare la sensibilità letteraria del primo, è un tratto
già felicemente delineato da Kenzaburo Oe, sia in Un’esperienza
personale che nel
lungo racconto Insegnaci a superare la nostra pazzia,
solo che lo scrittore giapponese aveva reso fin da subito, quasi, l’esistenza
del figlio con una grave malformazione cerebrale e l’accettazione della sua
diversità tra i motivi ricorrenti e fondamentali della sua opera, mentre Tezza
ha dovuto far passare vent’anni prima di riuscire a parlarne. E la metafora che
utilizzò in un saggio Kenzaburo per spiegare come la sua visione del mondo
passasse attraverso «il corpo e lo spirito del figlio idiota», e che chiamava
in causa il cielo e il mare dipinti da Magritte all’interno delle «cavità delle
forme umane», è in fondo valida anche per Bambino per sempre, pur se
introiettata solo alla fine dal protagonista, e comunque finisce per illuminare
retrospettivamente tutto il romanzo….
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