Se c’è una cosa che la storia della “questione meridionale” ha
insegnato al Meridione (e al Settentrione) è che il paradigma sviluppista
metropolitano dalle magnifiche sorti e progressive ha platealmente fallito.
Dopo più di un secolo di studio della “questione” e tentativi di soluzione
attraverso la riduzione del cosiddetto “divario” – con interventi pesanti come
l’industria che si è abbattuta sulla Taranto magnogreca, sulla Bagnoli flegrea,
sull’Augusta federiciana – quel “divario” è ancora lì.
Se c’è una
cosa che la storia della “questione coloniale” ha insegnato al sud (e al nord)
del mondo è che la missione civilizzatrice europea è stata la madre di tutte le
menzogne. Dopo secoli di esplorazioni, missioni e insediamenti l’unico
risultato è stato quello di ridurre in schiavitù mezzo mondo e decivilizzare se
stessi anziché civilizzare gli altri. “L’orrore, l’orrore” gridava l’europeo
Kurtz nel cuore di tenebra del Congo conradiano.
E’ da queste
constatazioni – la prima paesologica, la seconda postcoloniale – che si è
partiti per decostruire le vecchie categorie concettuali sulle quali è stata
fondata per lungo tempo l’analisi della condizione del sud italiano e del
mondo.
Grazie alla
temporalità meridiana, il Mezzogiorno ha resistito passivamente all’ideologia
del progresso, quel progresso che è venuto da nord e ha dichiarato
sottosviluppato tutto ciò che non gli si conformava. Il binomio
sviluppo/sottosviluppo va denunciato per quello che è: un dispositivo
discorsivo che ha governato i
sud per l’intera modernità capitalista. Come si diceva già negli anni ‘70, la
presunta arretratezza non è che una funzione dello sviluppo capitalistico, una
condizione necessaria sia in tempi di crescita (come nel dopoguerra) sia in
tempi di decrescita infelice (come oggi).
Ne sa
qualcosa, adesso, tutta l’Europa mediterranea. Da quando la crisi morde, la
questione meridionale italiana è divenuta, infatti, una questione continentale.
A riprova del fatto che il gioco dello sviluppo e dell’arretratezza è stata la
scommessa della storia del capitalismo, il dualismo europeo attuale fra paesi
virtuosi (del nord) e paesi amorali (del sud) – ovvero i PIGS di cui parlano
gli esperti di econometria – affonda le radici nella storia della modernità.
Una storia fondata sul primato della whiteness europea
che ha sostenuto, parallelamente, sia l’espansione coloniale nel mondo non
bianco e sia il capitalismo industriale in quello bianco, con la precisazione
che più ci si avvicinava al nero dell’Africa più le popolazioni diventavano
rozze, incivili, arretrate (così anche per l’antropologo lombrosiano e
meridionale Niceforo), secondo una linea del colore ben conosciuta altrove.
A proposito di
Niceforo, oggi siamo tornati a posizioni di tipo ottocentesco, a veri processi
di razzializzazione. In “Der Spiegel International” nel luglio del 2012 si
poteva leggere: “Al Sud il problema reale non è la crisi economica e
finanziaria, è la corruzione, gli sprechi e il nepotismo”. Insomma, ci sono
popoli performanti e popoli meno performanti grazie o a causa della loro
condizione morale, che vengono accomunati in positivo o in negativo, guarda un
po’, in base alla posizione geografica.
Nell’agosto
del 1856, sul periodico inglese The Examiner, un
anonimo pubblicista lamentava: “costituzionali o dispotici, non fa differenza:
i dottori non sono soddisfatti dei vari governi turco, greco, italiano e
spagnolo, che per le loro mancanze versano in condizioni di salute pietose … E’
veramente incredibile il disprezzo con cui i settentrionali parlano dei
meridionali … come se fossero filosofi di un pianeta superiore che guardano con
disgusto alla condizione di una razza decaduta”.
Dopo un secolo
e mezzo, la narrazione, in realtà mai dismessa, della frattura “naturalmente”
esistente fra un nord avanzato e superiore e un sud arretrato e inferiore,
continua. Ieri, sotto l’egida della missione civilizzatrice o modernizzante,
oggi, sotto quella dell’austerità e della moralizzazione.
Il pensiero di
Franco Arminio e quello postcoloniale di tanti studiosi e artisti dell’altra
metà non occidentale del mondo interrompono questa narrazione. C’è un legame
silenzioso ma forte fra la paesologia e il postcoloniale: dopo secoli di
semi-colonialismo (per il sud italiano) e colonialismo tout-court (per il sud globale), l’una e l’altro
non credono più alla fandonia storicista (marxista o liberale che sia) del
progresso, l’una e l’altro denunciano i misfatti dell’imperio della modernità
singola, l’una e l’altro credono che, se di materialismo si deve rattare,
questi debba essere anche geografico e possibilmente commosso.
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