Da Lampedusa non si entra. Da Calais non si esce. Da Ventimiglia non si
passa. Dalla Serbia a Budapest si viaggia in vagoni piombati. A Ceuta e
Melilla, enclave spagnole in terra d’Africa, come al confine fra Bulgaria e
Turchia o al confine fra Ungheria e Serbia, si alzano reticolati e muri. Un po’
per volta l’Europa sta ritrovando le sue radici: confini inviolabili, egoismi e
pregiudizi nazionali e razziali, l’eredità di un secolo e mezzo di
colonialismo, le conseguenze di guerre dissennate a cavallo del terzo
millennio, gli effetti del pensiero unico occidentale in forma di liberismo
sfrenato. Il tunnel di Calais è una vivida metafora di tutto questo: pensato
per unire, è diventato una invalicabile barriera divisoria per chi non ha i
soldi del biglietto – anzi, una barriera fra chi i soldi ce li ha e chi no.
Scrivendo su un altro confine e un altro muro – quello fra Stati Uniti e
Messico, la scrittrice chicana Gloria Anzaldúa conclude: il confine “es una
herida abierta”, è una ferita aperta, dove il Terzo Mondo si strofina con il
Primo, e sanguina. Come il Rio Grande e il muro che lo costeggia, anche
Lampedusa, Calais, Ventimiglia sono ferite aperte, il sanguinante confine fra
un Primo Mondo sempre più selvaggio e un Terzo Mondo che non ce la fa più a
sopportare fame, guerra e dittature come destini ineluttabili e viene a
chiedercene il conto. Adesso questi due mondi non si strofinano più soltanto ai
confini fra loro, ma anche dentro l’Europa stessa, e la insanguinano tutta; ma
il senso è sempre quello: l’insopportabilità di un mondo in cui ricchezza e
risorse si ripartiscono in misura sempre più ingiusta e disuguale. Un tempo, di
queste ingiustizie si occupava la sinistra. Oggi, ci raccontano, sono finite le
ideologie; ma la lotta di classe continua, in forme insolite e drammatiche. Da
un lato, quella guerra di classe dei ricchi contro i poveri di cui ha scritto
eloquentemente Luciano Gallino (e di cui la vicenda greca è una variante
significativa). Dall’altro, la più antica lotta dei poveri per avere anche loro
quello che hanno i ricchi: l’immigrazione di massa è infine (ed è sempre stata)
proprio questo, l’arma estrema dei dannati della terra per un minimo di accesso
ai beni della terra su cui viviamo tutti. A differenza delle forme di lotta e
dei conflitti sociali del secolo scorso, questa lotta non è mossa dal progetto
di abbattere un sistema, ma dall’ansia di condividerlo; non dall’ostilità ma
dal desiderio, dal sogno, se non dall’amore idealizzato. Solo che siccome il
sistema che vorrebbero condividere è in realtà retto da egoismo ed esclusioni,
la richiesta di condivisione ne mette a nudo limiti e ipocrisie, impone
inevitabilmente il cambiamento e per questo l’Europa la percepisce come
invasione e minaccia e cerca in tutti i modi di fermarla. Ma fermare un simile
cambiamento epocale è come provare a fermare il mare con le mani. E’ difficile
dire come possiamo noi svolgere un ruolo in questa nuova lotta di classe . Il
lavoro di tante forme di volontariato e di intervento di base è prezioso,
aiuta, salva vite, crea rapporti; ma le dimensioni del dramma sono almeno per
ora superiori alle forze che può mettere in campo da solo. Io credo che
dobbiamo comunque tutti accettare che le nostre vite non possono continuare
uguali come se nulla fosse, magari con un po’ di tolleranza e benevolenza in
più. Né noi né i migranti ci possiamo salvare da soli: quelli che dicono “prima
gli italiani” non hanno capito che entrambi abbiamo bisogno delle stesse cose –
casa, lavoro, salute, scuola, diritti, tutte cose che i migranti cercano e che
noi stiamo un poco per volta perdendo, e che possiamo forse salvare e
recuperare insieme, per tutti. Dobbiamo ritrovare alla democrazia il suo
significato profondo, che non sta nella politica e nelle istituzioni ma nelle
anime: democrazia come solidarietà, come capacità di riconoscere nell’umanità
degli altri la nostra umanità stessa. C’è ancora qualcuno che lavora su questo?
Diceva un testo sacro del pensiero liberale: la mia libertà finisce dove
comincia quella del mio vicino: che è precisamente un invito a vedere il
vicino, specie si diverso e nuovo, come un limite alla propria libertà, come un
ostacolo e un potenziale nemico. Io credo che dovremmo riformularlo: la nostra
libertà comincia dove comincia la libertà del nostro vicino, i nostri diritti e
quelli dei migranti sono per sempre inseparabili, la libertà di tutti noi
finisce, e comincia, a Lampedusa, a Ventimiglia e a Calais.
Bellissimo articolo, grazie.
RispondiEliminaad Alessandro Portelli, naturalmente :)
EliminaD'accordo con Silvia Pareschi: articolo imperdibile: "il senso è sempre quello: l’insopportabilità di un mondo in cui ricchezza e risorse si ripartiscono in misura sempre più ingiusta e disuguale. Un tempo, di queste ingiustizie si occupava la sinistra. Oggi, ci raccontano, sono finite le ideologie; ma la lotta di classe continua, in forme insolite e drammatiche."
RispondiEliminaGrazie.
ormai sembra che solo gli zapatisti e papa Francesco dicano che il mondo va cambiato...
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