venerdì 28 agosto 2015

Noe, esautorato dal comando il capitano Ultimo. Coordinava indagini su mafia, politica e coop - Pino Corrias

La comunicazione del generale Del Sette all’ufficiale che arrestò Riina e coordinava le inchieste del Noe: niente più funzioni di polizia giudiziaria. Salta il 4 agosto dopo l'intercettazione Adinolfi (Gdf)-Renzi pubblicata il 10 luglio

Astutamente nascosta nelle pieghe più calde dell’estate una lettera del Comando generale dei carabinieri datata 4 agosto spazza via il colonnello Sergio De Caprio, nome in codice Ultimo, dalla guida operativa dei suoi duecento uomini del Noe, addestrati a perseguire reati ambientali, ma anche straordinari segugi capaci di scovare tangenti, abusi, traffici di denari e di influenza. Uomini che stanno nel cuore delle più clamorose inchieste di questi ultimi anni sull’eterna sciagura italiana, la corruzione.
La lettera che liquida Ultimo è perentoria. La firma il generale Tullio Del Sette, il numero uno dell’Arma. Stabilisce che da metà agosto il colonnello De Caprio non svolgerà più funzioni di polizia giudiziaria, manterrà il grado di vicecomandante del Noe, ma senza compiti operativi. Motivo? Non specificato, normale avvicendamento. Anzi: “Cambiamento strategico nell’organizzazione dei reparti”. Cioè? Frazionare quello che fino ad ora era unificato: il comando delle operazioni.
Curiosa l’urgenza. Curioso il metodo. Curioso il momento, vista la quantità di scandali e corruzioni che il persino presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha definito “il germe distruttivo della società civile”.
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Scontata la reazione di De Caprio che in data 18 agosto, prende commiato dai suoi reparti con una lettera avvelenata contro i “servi sciocchi” che abusando “delle attribuzioni conferite” prevaricano “e calpestano le persone che avrebbero il dovere di aiutare e sostenere”. Lettera destinata non a chiudere il caso, ma a spalancarlo in pubblico.
Eventualità non nuova nella storia dell’ex capitano Ultimo, quasi mai in sintonia con le alte gerarchie dell’Arma che non lo hanno mai amato. Colpa del suo spirito indipendente, della sua velocità all’iniziativa individuale. Di quella permanente difesa dei suoi uomini e dei suoi metodi di indagine da entrare in collisione con i doveri dell’obbedienza e della disciplina. Già in altre occasioni hanno provato a trasformarlo in un ingranaggio che gira a vuoto. Fin dai tempi remoti dell’arresto di Totò Riina – gennaio 1993 – che gli valse non una medaglia, ma la condanna a morte di Cosa nostra, poi un ordine di servizio che lo estrometteva dai Reparti operativi, poi un processo per “la mancata perquisizione del covo” da cui uscì assolto insieme con il suo comandante di allora, il generale Mario Mori. Per non dire di quando provarono a metterlo al caldo tra i banchi della Scuola ufficiali, a privarlo della scorta – anno 2009 – riassegnatagli dopo la rivolta dei suoi uomini che si erano raddoppiati i turni per proteggerlo.
Ripescato dal ministero dell’Ambiente, messo a capo del Noe, Sergio De Caprio ha trasformato i Nuclei operativi ecologici a sua immagine, macinando indagini, rivelazioni. Oltre a molti e sorprendenti arresti, da quelli di Finmeccanica ai più recenti per gli appalti de L’Aquila.
L’elenco è lungo come un film. Si comincia dai conti di Francesco Belsito, quello degli investimenti della Lega Nord in Tanzania e dei diamanti, il tesoriere del Carroccio che a forza di dissipare milioni di euro come spiccioli, ha liquidato l’intero cerchio magico di Umberto Bossi. Poi Finmeccanica. Con il clamoroso arresto di Giuseppe Orsi, l’amministratore delegato del gruppo e di Bruno Spagnolini di Agusta, indagati per una tangente di 51 milioni di euro pagata a politici indiani per una commessa di 12 elicotteri. E ancora. L’arresto di Luigi Bisignani indagato per i suoi traffici di informazioni segrete e appalti per la P4, coinvolti gli gnomi della finanza e della politica, spioni, e quel capolavoro di Alfonso Papa, deputato Pdl, che aveva un debole per i Rolex rubati.
Poi le ore di confessioni di Ettore Gotti Tedeschi il potente banchiere dello Ior, interrogato sulle operazioni più riservate della banca vaticana dietro le quali i magistrati ipotizzavano il reato di riciclaggio. Le indagini sul tesoro di Massimo Ciancimino seguito fino in Romania; quelle su una banda di narcotrafficanti a Pescara, e persino quelle recentissime su Roberto Maroni, il presidente di Regione Lombardia, accusato di abuso di ufficio per aver fatto assumere due sue collaboratrici grazie a un concorso appositamente truccato. Per finire con le inchieste sulla Cpl Concordia, la ricca cooperativa rossa che incassava appalti in mezza Italia, distribuiva consulenze, teneva in conto spese il sindaco pd di Ischia, Giosi Ferrandino, e per sovrappiù comprava vino e libri da un amico speciale, l’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema. Inchieste in cui compaiono anche due sensibilissime intercettazioni, tutte pubblicate in esclusiva dal Fatto lo scorso 10 luglio.
La prima – 11 gennaio 2014 – è quella tra Renzi e il generale della Gdf Adinolfi, nella quali l’allora soltanto leader del Pd svelava l’intenzione di fare le scarpe a Enrico Letta per spodestarlo da Palazzo Chigi. La seconda – 5 febbraio 2014 – è quella relativa a un pranzo tra lo stesso Adinolfi, Nardella (allora vicesindaco di Firenze), Maurizio Casasco (presidente dei medici sportivi) eVincenzo Fortunato (il superburocrate già capo di gabinetto del ministero dell’economia) in cui si faceva riferimento a ricatti attorno al presidente Napolitano per i presunti “altarini” del figlio Giulio. Tutto vanificato ora per il “cambiamento strategico nell’organizzazione dei reparti”. Motivazione d’alta sintassi burocratica che a stento coprirà gli applausi della variopinta folla degli indagati (di destra, di centro, di sinistra) e la loro gratitudine per questa inaspettata via d’uscita che riapre le loro carriere, mentre chiude quella di Sergio De Caprio.
Eventualità non del tutto scontata, visto il malumore che in queste ore serpeggia dentro l’Arma, e vista la reazione (furente e non del tutto silenziosa) dell’interessato che trapela dalla lettera inviata ai suoi uomini, una dichiarazione di guerra, travestita da addio.
Da il Fatto Quotidiano del 21 agosto 2015
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