Il valico di Allenby è un’esperienza di vita. Una di quelle
esperienze che mostrano quanto i dettagli siano cruciali quando si parla di
israeliani e palestinesi, e di Israele/Palestina. Un valico nel Territorio
palestinese occupato, tra Cisgiordania e Giordania, controllato e gestito dalle
autorità israeliane. È il valico attraverso il quale – sia in entrata sia in
uscita – debbono passare i palestinesi muniti di passaporto dell’Autorità
Nazionale Palestinese. A decidere se possono entrare o uscire, sono le autorità
israeliane, potenza occupante.
Da Allenby, possono passare anche gli internazionali, coloro
che sono in possesso di un passaporto europeo, americano, asiatico, comunque
non israeliano. E siccome il Medio Oriente è il mondo dove i dettagli regnano
sovrani perché hanno la loro importanza, Israele timbra i passaporti e la
Giordania, dall’altra parte di un lembo di deserto lungo un pugno di
chilometri, si rifiuta di timbrarli, i documenti. La ragione è chiara: timbrare
i passaporti vorrebbe dire riconoscere a quel valico la patente di frontiera,
confine, passaggio tra uno Stato sovrano e l’altro, tra Giordania e Israele. Ma
quella è Cigiordania, Palestina, e non è Israele.
Da Allenby è passata anche Susan Abulhawa, pochi giorni fa.
Lo scorso fine settimana. Scrittrice nota, famosa per un bestseller come Ogni
Mattina a Jenin, pubblicato anche in italiano nel 2011 da Feltrinelli. Nel
marzo scorso, è uscito il suo nuovo romanzo, Nel blu tra il cielo e il mare,
ambientato in un villaggio palestinese appena a nord dell’attuale Striscia di
Gaza, teatro di un massacro di palestinesi a opera della Brigata israeliana
Givati nel maggio 1948. Susan Abulhawa è palestinese. La sua famiglia è di
Gerusalemme, e quando era piccola ha vissuto tre anni nel più famoso
orfanotrofio della città, Dar El Tifl, nato per volere di una delle donne-icona
della storia recente palestinese, Hind al Husseini. Ha vissuto la giovinezza,
gli studi, il lavoro, la scrittura negli Stati Uniti, ed è cittadina americana.
Passaporto americano, identità palestinese.
Quel passaporto è veramente un passepartout: le consente di
tornare nella sua patria, nella sua terra, come lo consente a tanti palestinesi
che sulla loro terra possono mettere piede solo se hanno un documento ‘altro’.
Statunitense, italiano, tedesco, canadese… Basta che, attraverso questo
passaporto, i palestinesi non siano tali, almeno formalmente. Nessun rifugiato
palestinese, cacciato dalla sua terra nel 1948 o nel 1967, è consentito tornare
con il documento d’identità rilasciato dall’Unrwa, l’agenzia dell’ONU che da
oltre 60 anni si occupa di profughi palestinesi.
Dettagli, difficili da spiegare, ma fondamentali per capire
quello che succede. Susan Abulhawa, con il suo passaporto americano, si è
presentata al valico di Allenby, e quel passaporto ha mostrato alle autorità
israeliane. L’hanno interrogata, e la sua ‘conversazione’ la scrittrice l’ha
riportata sul suo profilo Facebook. Conversazione aspra, e paradossale, per chi
non ha mai vissuto questo tipo di conversazioni ad Allenby o all’aeroporto di
Ben Gurion. Per i palestinesi, è peggio. Lo hanno denunciato non solo le
associazioni di difesa dei diritti civili, internazionali, palestinesi,
israeliani, ma gli stessi giornalisti israeliani.
Una conversazione paradossale, sul suo numero di cugini. E le
battute finali. “Lei non sta rispondendo alle domande”. “Ma io ho risposto alle
domande”. “Non ha risposto nel modo che a me piace”.
Susan Abulhawa non ha potuto passare il valico di Allenby.
Non è entrata in Cisgiordania, Palestina. Le è stato vietato l’ingresso, e il
suo passaporto ha ora un timbro che lo mostra. Due righe spesse a pennarello, e
un timbro. È l’espulsione. Non è la prima volta che succede, a scrittori e
intellettuali. Stesso destino lo ha avuto Noam Chomsky, tanto per fare un
esempio noto.
La terra di Susan Abulhawa, ferita da decenni, giace appena
sopra il caldissimo valico di Allenby, un luogo colmo dei ricordi della fuga,
della guerra, del 1948. Dov’è il Pen International, pronto a difendere libertà
di espressioni ovunque? Dove sono gli intellettuali, qui e fuori? Sarà il caso
di porsi una domanda sui doppi standard delle libertà e sul l’indignazione a
corrente alternata di noi intellettuali, sempre a rischio di essere, di nuovo,
chierici?
Nessun commento:
Posta un commento