lunedì 3 agosto 2015

Susan Abulhawa: ingresso respinto nella sua Palestina – Paola Caridi

Il valico di Allenby è un’esperienza di vita. Una di quelle esperienze che mostrano quanto i dettagli siano cruciali quando si parla di israeliani e palestinesi, e di Israele/Palestina. Un valico nel Territorio palestinese occupato, tra Cisgiordania e Giordania, controllato e gestito dalle autorità israeliane. È il valico attraverso il quale – sia in entrata sia in uscita – debbono passare i palestinesi muniti di passaporto dell’Autorità Nazionale Palestinese. A decidere se possono entrare o uscire, sono le autorità israeliane, potenza occupante.
Da Allenby, possono passare anche gli internazionali, coloro che sono in possesso di un passaporto europeo, americano, asiatico, comunque non israeliano. E siccome il Medio Oriente è il mondo dove i dettagli regnano sovrani perché hanno la loro importanza, Israele timbra i passaporti e la Giordania, dall’altra parte di un lembo di deserto lungo un pugno di chilometri, si rifiuta di timbrarli, i documenti. La ragione è chiara: timbrare i passaporti vorrebbe dire riconoscere a quel valico la patente di frontiera, confine, passaggio tra uno Stato sovrano e l’altro, tra Giordania e Israele. Ma quella è Cigiordania, Palestina, e non è Israele.
Da Allenby è passata anche Susan Abulhawa, pochi giorni fa. Lo scorso fine settimana. Scrittrice nota, famosa per un bestseller come Ogni Mattina a Jenin, pubblicato anche in italiano nel 2011 da Feltrinelli. Nel marzo scorso, è uscito il suo nuovo romanzo, Nel blu tra il cielo e il mare, ambientato in un villaggio palestinese appena a nord dell’attuale Striscia di Gaza, teatro di un massacro di palestinesi a opera della Brigata israeliana Givati nel maggio 1948. Susan Abulhawa è palestinese. La sua famiglia è di Gerusalemme, e quando era piccola ha vissuto tre anni nel più famoso orfanotrofio della città, Dar El Tifl, nato per volere di una delle donne-icona della storia recente palestinese, Hind al Husseini. Ha vissuto la giovinezza, gli studi, il lavoro, la scrittura negli Stati Uniti, ed è cittadina americana. Passaporto americano, identità palestinese.
Quel passaporto è veramente un passepartout: le consente di tornare nella sua patria, nella sua terra, come lo consente a tanti palestinesi che sulla loro terra possono mettere piede solo se hanno un documento ‘altro’. Statunitense, italiano, tedesco, canadese… Basta che, attraverso questo passaporto, i palestinesi non siano tali, almeno formalmente. Nessun rifugiato palestinese, cacciato dalla sua terra nel 1948 o nel 1967, è consentito tornare con il documento d’identità rilasciato dall’Unrwa, l’agenzia dell’ONU che da oltre 60 anni si occupa di profughi palestinesi.
Dettagli, difficili da spiegare, ma fondamentali per capire quello che succede. Susan Abulhawa, con il suo passaporto americano, si è presentata al valico di Allenby, e quel passaporto ha mostrato alle autorità israeliane. L’hanno interrogata, e la sua ‘conversazione’ la scrittrice l’ha riportata sul suo profilo Facebook. Conversazione aspra, e paradossale, per chi non ha mai vissuto questo tipo di conversazioni ad Allenby o all’aeroporto di Ben Gurion. Per i palestinesi, è peggio. Lo hanno denunciato non solo le associazioni di difesa dei diritti civili, internazionali, palestinesi, israeliani, ma gli stessi giornalisti israeliani.
Una conversazione paradossale, sul suo numero di cugini. E le battute finali. “Lei non sta rispondendo alle domande”. “Ma io ho risposto alle domande”. “Non ha risposto nel modo che a me piace”.
Susan Abulhawa non ha potuto passare il valico di Allenby. Non è entrata in Cisgiordania, Palestina. Le è stato vietato l’ingresso, e il suo passaporto ha ora un timbro che lo mostra. Due righe spesse a pennarello, e un timbro. È l’espulsione. Non è la prima volta che succede, a scrittori e intellettuali. Stesso destino lo ha avuto Noam Chomsky, tanto per fare un esempio noto.
La terra di Susan Abulhawa, ferita da decenni, giace appena sopra il caldissimo valico di Allenby, un luogo colmo dei ricordi della fuga, della guerra, del 1948. Dov’è il Pen International, pronto a difendere libertà di espressioni ovunque? Dove sono gli intellettuali, qui e fuori? Sarà il caso di porsi una domanda sui doppi standard delle libertà e sul l’indignazione a corrente alternata di noi intellettuali, sempre a rischio di essere, di nuovo, chierici?

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