Ci sono dei momenti e dei
punti in cui talvolta fa capolino il volto abietto della nostra civiltà.
A saperlo
scorgere dietro il velo degli abbellimenti verbali e dei ragionamenti
contorsionistici. Una civiltà nata all’insegna del venerando e venerabile principio di libertà, propugnato
pensando a tutt’altro; alla tutela della proprietà, del privilegio possessivo.
Si cominciò nel ‘600, quando la libellistica che promuoveva l’idea di libero
mercato servì a dare forma decorosa e disinteressata agli appetiti dei circoli
finanziari anglo-francesi, determinati a entrare nel lucroso business della
tratta schiavistica; a quel tempo regolata oligopolisticamente dalle patenti
regie.
Esperimento
manipolativo del comune sentire ripetuto innumerevoli altre volte, ma sempre a
vantaggio degli interessi di pochi: dalla propaganda nazionalistica, con cui
venne spezzata l’unità del fronte operaio che si riconosceva
nell’internazionalismo, arrivando alle odierne campagne anti-tasse per
sbaraccare il sistema di welfare,
rendendo – come si suol dire – il ceto medio “cornuto e mazziato”.
Un mood argomentativo
che ritroviamo – paro paro – nelle torsioni concettuali a difesa della presunta
libertà di scelta in ambito scolastico, dietro cui si nasconde un’aggressione
al principio costituzionale che attribuisce al settore pubblico il compito di
concretizzare il diritto
all’istruzione; uno dei punti della presenza statuale particolarmente
esposto all’opera di sbaraccamento dei diritti fondativi della cittadinanza.
Operazione perseguita con una faccia tosta degna della celebre massima di La Rochefoucault: “l’ipocrisia è
l’omaggio che il vizio rende alla virtù”.
Con effetti
quasi comici, a cominciare dall’assunto: “chi meglio delle famiglie può operare
la scelta in materia di indirizzo scolastico dei propri figli?”. C’è da ridere
a questo quadretto di padri e madri assurti a certificatori della qualità
didattica al tempo in cui si assiste alla catastrofe della genitorialità, alla rinuncia del
proprio ruolo da parte di adulti sempre più disattenti e – comunque, per lo più
– privi di strumenti di giudizio per scelte che vadano più in là di un percorso
facilitato; che non crei grattacapi a padri e madri (chiamandoli a
responsabilità che non possono/intendono assumersi) e gratifichi l’allievo del
facile quanto sospirato diploma.
Ancora più
da ridere la primazia attribuita al privato in quanto livello di prestazione, in quanto
monetizzata. Una superstizione che attribuisce eccellenze a vanvera (come nella
sanità milanese, dove alla gente venivano asportati organi sani per incassare
ticket e si moriva arsi vivi nelle camere bariche). Chi scrive ricorda
benissimo il proprio percorso educativo, largamente svolto in istituti
religiosi (due anni di asilo presso le suore Marcelline e dieci dai Barnabiti;
con liberatoria fuga al liceo classico in una scuola pubblica), dove gli
insegnanti risultavano o in tonaca (generalmente riempitivi) oppure personale
sottopagato (a elevato tasso di frustrazione); selezionato al risparmio per far
quadrare i conti secondo i criteri propri di un’impresa rivolta al profitto. Lo stesso criterio per cui
la privatizzazione della sicurezza (NeoLib)
negli aeroporti americani venne considerata responsabile di quegli arrivi
incontrollati di terroristi autori degli attacchi dell’11 settembre.
Tornando al
tema: i genitori (abbienti) orientati alla scelta scolastica nel privato
parlano di qualità e – dunque – di libertà. Ma che cosa si vuol dire
effettivamente sciacquandosi la bocca con questi alati concetti? Coltivare
relazioni, ecco a cosa si pensa. Ossia spedire i figli in un ambiente
selettivo, dove conoscere e frequentare buone amicizie; che verranno utili per
ottenere favori futuri. La stessa visione miope per cui le famiglie italiane
scelgono la via liceale e
considerano quella tecnico-professionale“una
seconda scelta di ripiego”, a prescindere dalle vocazioni/attitudini dei
ragazzi.
Nella logica
di quel tipico capitalismo di relazione italiano, che si puntella attraverso il
meccanismo dei favori. Una scelta di status, che prescinde completamente dalla
preparazione a esercitare ruoli effettivi, anticamera del processo di ricastalizzazione della società
in atto. Perché dopo tanto parlare di “società aperta” stiamo veleggiando verso
realtà sempre più “chiuse”. Grazie anche a professionisti della paura che oggi
danno il peggio di loro sul tema dell’immigrazione. E questa è solo un’altra
faccia delle monete svalutate che stiamo battendo.
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