venerdì 14 agosto 2015

La preoccupazione del padre di famiglia – Franz Kafka

Alcuni dicono che la parola Odradek derivi dallo slavo e cercano di chiarire su questa base la formazione della parola. Altri invece ritengono che derivi dal tedesco, e che dallo slavo sia solo influenzata. L’incertezza di entrambe le interpretazioni però fa a buon diritto concludere che nessuna delle due sia corretta, anche perché nessuna permette di trovare un senso.
Naturalmente nessuno si occuperebbe di tali questioni se non esistesse davvero un essere che si chiama Odradek. A prima vista sembra un rocchetto piatto di filo, a forma di stella, e in effetti sembra anche avere del filo arrotolato; si tratta però solo di pezzetti di filo strappati, vecchi, annodati e anche ingarbugliati fra loro, di tipi e colori dei più disparati. Non è però solo un rocchetto, ma dal centro della stella spunta un piccolo bastoncino obliquo, e a questo bastoncino un altro se ne aggiunge ad angolo retto. Aiutandosi da un lato con quest’ultimo bastoncino e dall’altro con un raggio della stella, il tutto può stare in piedi come su due gambe.
Si sarebbe tentati di credere che una tale creatura abbia avuto in passato una qualche forma adeguata a uno scopo, e che ora sia semplicemente rotta. Ma sembra che non sia così; per lo meno non se ne trova alcun segno; non si vedono aggiunte o fratture che potrebbero far pensare qualcosa del genere; il tutto sembra certo insensato, ma nel suo genere concluso. D’altronde, non se ne può dire niente di più preciso, perché Odradek è straordinariamente mobile e non si lascia prendere.
Si intrattiene ora sul tetto, ora nelle scale, ora nei corridoi, ora nell’atrio. A volte non lo si vede per mesi; evidentemente si è trasferito in altre case; torna poi però invariabilmente in casa nostra. A volte, quando si esce dalla porta, sta proprio lì sotto appoggiato alla ringhiera delle scale, e viene voglia di parlargli. Naturalmente non gli si fanno domande difficili, ma lo si tratta – già la sua piccolezza induce a questo – come un bambino. «Come ti chiami?» gli si chiede. «Odradek», dice. «E dove abiti?» «Senza fissa dimora» dice, e ride; ma è solo una risata come la può emettere chi è senza polmoni. Suona all’incirca come il fruscio delle foglie cadute. Per lo più, con questo il colloquio finisce. D’altronde anche queste risposte non sempre si possono ottenere; spesso resta muto a lungo, come il legno di cui sembra esser fatto.
Mi chiedo inutilmente cosa avverrà di lui. Forse che può morire? Tutto ciò che muore ha avuto prima una specie di scopo, una specie di attività sulla quale si è logorato; questo non è il caso di Odradek. Forse dovrà allora un giorno rotolare ancora per le scale trascinando i suoi fili arrotolati fra i piedi dei miei figli, e dei figli dei miei figli? Certo, non fa danno a nessuno; ma questa idea, che possa anche sopravvivermi, mi dà quasi un dolore.


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