Questa volta non risponderò ad personam,
parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente
rimproverato due mie frasi: «I poveri hanno sempre ragione», scritta alcuni
mesi fa, e quest’altra: «il rimedio è la povertà. Tornare indietro? Sì, tornare
indietro», scritta nel mio ultimo articolo.
Per la prima volta hanno scritto che sono “un
comunista”, per la seconda alcuni lettori di sinistra mi accusano di fare il
gioco dei ricchi e se la prendono con me per il mio odio per i consumi. Dicono
che anche le classi meno abbienti hanno il diritto di “consumare”.
Lettori, chiamiamoli così, di destra, usano la
seguente logica: senza consumi non c’è produzione, senza produzione
disoccupazione e disastro economico. Da una parte e dall’altra, per ragioni
demagogiche o pseudo-economiche, tutti sono d’accordo nel dire che il consumo è
benessere, e io rispondo loro con il titolo di questo articolo.
Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non
ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli
sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più
profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo:
noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i
consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in
provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti
dei prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di
capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la
crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina
aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero
scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano
concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di
accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo
alla povertà.
Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori
di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di
destra.
Povertà è una ideologia, politica ed economica.
Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non
superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà
e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la
salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le
motociclette, le famose e cretinissime “barche”.
Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente
conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la
qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si
compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti
gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia,
imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla
sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare
la produzione.
Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in
modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la
pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere
questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a
rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono
utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più
distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un
cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola
cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del
linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè
colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose
perché non ha più povertà.
Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota
di Carosello (vediCarosello e poi vai a letto, è
la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del
proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostra paese è un
solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano,
comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro
non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili
alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di
astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire:
ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita,
questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a
ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno
l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di
gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti
costeranno meno col passare degli anni.
Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non
necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori.
Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli
“etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici
assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto
tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non
soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a
oggetto di consumo superfluo.
I giovani “comprano” ideologia al mercato degli
stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci
sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono
più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i
loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi
sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a
cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”,
la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando
parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del
superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi
l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la
differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai
partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone laboutique ideologica
e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita
del grand marché aux puces ideologico e politico di questi
anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e
disperati figli del consumo.
La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere
le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei
consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione
di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto
perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.
Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una
ideologia perché è più bella (oltre che più “corretta”, come dice la
linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e
giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell’Armata Rossa
disegnata da Trotzky nel 1917, l’enorme cappotto di lana di pecora grigioverde,
spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso
cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e
popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare
sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a
impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della
ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le
pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene
personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo
capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro
paese.
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