martedì 7 maggio 2013

Sull’utilità dell’applicazione delle nuove tecnologie alla didattica…- Anna Angelucci

E' innegabile che le nuove tecnologie rappresentino un’evoluzione nei processi di scrittura, archiviazione, informazione e comunicazione. Un adulto minimamente colto che le demonizzasse tout court risulterebbe ridicolo, come sarebbe ridicolo chiunque rimpiangesse l’inchiostro e il calamaio negando la praticità della biro. Tanto più se insegnante. Scrivere un testo, preparare un compito in classe o una mappa concettuale, formulare una programmazione o un progetto, inviare o chiedere informazioni, materiali o documenti e-mail, osservare e mostrare immagini e video: questi sono solo alcuni esempi delle tante attività inerenti al nostro lavoro che le nuove tecnologie hanno reso più agevoli. Senza contare le potenzialità offerte da Internet: trovare rapidamente in rete prove d’esame, riferimenti bibliografici e sitografici, notizie, articoli, interventi e testi implica indubbiamente il risparmio di un tempo che può essere più proficuamente occupato.
E' innegabile che le nuove tecnologie debbano costituire un supporto anche nell’attività di apprendimento: già sufficientemente abile nel copiare le versioni o leggere i riassunti dei testi on line (così come noi copiavamo dagli Avia Pervia o studiavamo sui Bignami), ogni studente del terzo millennio deve imparare ad accedere criticamente a Internet, deve conoscere i principali motori di ricerca, deve saper maneggiare i più efficaci sistemi applicativi, deve saper individuare e costruire una sitografia attendibile. E su questi aspetti della questione l’attenzione di docenti di tutte le discipline deve essere sempre vigile e costante. Ciononostante, non solo ritengo inutile servirmi di un portatile e di uno schermo o di una lavagna interattiva durante le mie lezioni ma, piuttosto, e proprio perché inutile, potenzialmente dannoso.
La vita delle nuove generazioni, non a caso definite dei “nativi digitali”, è radicalmente pervasa dalle nuove tecnologie. Il computer è sempre acceso sulle loro scrivanie, così come il display dei loro telefonini, magari silenziosi ma mai spenti, lo schermo televisivo nelle cucine e nei salotti delle loro case: la comunicazione si moltiplica, a scapito dell’esperienza. A scuola, e solo a scuola, usano i libri. Se io sostituisco la pagina cartacea con lo schermo, se sostituisco la mia voce che recita i versi di Dante con quella di un attore famoso, se io proietto una poesia sul muro e chioso il testo con un pennarello colorato sulla lavagna interattiva invece che sul libro non ho potenziato le loro capacità cognitive, non ho agito positivamente sulle loro modalità di apprendimento, che, per quanto riguarda la lettura, restano necessariamente legate alla percezione lineare e sequenziale della visione alfabetica. E se ho scelto i nuovi strumenti didattici multimediali della case editrici più scaltramente all’avanguardia, che mescolano suoni, immagini e parole, magari con un po’ di interattività, in un sapere che sembra efficacemente sinestetico ma è solo confusivamente multitasking, ho fatto un’operazione di puro marketing didattico, rendendo il testo in apparenza più fruibile proprio perché assimilato al codice semiotico dell’immagine, attualmente dominante nell’immaginario dei cantori postmoderni della scuola 2.0.
Non solo. Come afferma Raffaele Simone nel suo La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo (Laterza 2002) , la lettura e il libro chiamano in causa una forma specifica di intelligenza sequenziale: analitica (che distingue, cioè, idee e eventi nei loro componenti e stabilisce relazioni precise tra i diversi elementi evidenziati), referenziale (che indica persone, oggetti, entità e luoghi, assegnando a ciascuno un ruolo), strutturata (che colloca i dati nello spazio e nel tempo, collegandoli tra loro e con il contesto extralinguistico, in una rete di riferimenti in reciproca connessione), gerarchica (che tende, cioè, a dare ad ogni elemento un suo peso specifico nell’insieme, distinguendo posizioni e ruoli). Aggiungerei che la lettura e il libro, stimolando l’immaginazione e la possibilità di formulare ipotesi e inferenze nella solitudine e nella concentrazione dell’atto, favoriscono l’assunzione di un altro punto di vista, ampliano i confini della nostra visione del mondo, potenziano le nostre capacità simboliche e, infine, che nessuna slide, per definizione icastica e sintetica, può restituire sullo schermo la complessità di un ragionamento analitico accuratamente elaborato.

Dunque, non metterò i miei studenti e le mie studenti di fronte a uno schermo anche la mattina, anche durante una lezione di letteratura. Non li priverò della possibilità di toccare un libro, di sfogliarne e annusarne le pagine, di glossarlo con la loro matita o con il loro evidenziatore; non negherò loro la possibilità di desiderare di comprarne uno. Non li ingannerò assecondando le sirene della facilità e dell’attrattività e non allevierò loro la fatica di decifrare solo le parole e l’universo simbolico che possono evocare attraverso la lettura, la riflessione e l’analisi: strumenti impegnativi, faticosi, lenti, forse desueti, ma che costituiscono ancora il principale accesso alla conoscenza e alla rappresentazione del mondo.

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