domenica 19 gennaio 2020

Non secoli, ma decenni, nel frattempo torniamo ai sacrifici umani - Nino Lisi




Un giorno di molti anni fa, diciamo del novembre del 1989, sentii dire da un mio collega, con riferimento al Muro di Berlino andato in pezzi: <se qualcuno pensasse che avendo il Comunismo perso abbia vinto il Capitalismo, sbaglierebbe>.
Attribuii quella frase   all’ottimismo della volontà, al non volersi dare per vinti. In qualche modo mi rianimò, perché   con l’incubo di un regime totalitario   andava   scomparendo anche il sogno, che aveva animato milioni di esseri umani, di un mondo in cui libertà e giustizia sociale non fossero in alternativa e dove uomini e donne fossero eguali e libere/i.
Pensavamo, il mio collega ed io, che quel sogno non dovesse scomparire per sempre, ma solo l’incubo e magari non solo quello.
Gli anni successivi sembrarono smentire la previsione del mio collega. Con il Toyotismo e la Globalizzazione il Capitalismo era sulla cresta di tutte le onde; si profetizzava la riduzione delle povertà e l’espansione in tutto il mondo del benessere. Crescita e Sviluppo divennero parole mitiche che suscitavano entusiasmo e speranze. Anche gran parte della sinistra fu abbacinata da questi miti e pensando impossibile qualsiasi alternativa fidò nella “globalizzazione dei diritti”. La parte della sinistra che non cadde in quella trappola cadde in un’altra, lasciandosi ingannare dall’ illusione di “poter lanciare sabbia negli ingranaggi” della Globalizzazione. Fu così che la sinistra, tutta intera, pose le basi della propria scomparsa e quando il nuovo modo di produrre scompaginò gli assetti sociali trasformando le vecchie figure sociali e producendone di nuove, si smarrì. I deboli, i perdenti, gli esclusi non trovarono più in essa rappresentanza politica.
La Globalizzazione avanzava impetuosa in groppa ad una sfrenata competizione senza però che   alla Crescita si accompagnava in pari misura la occupazione ed il benessere. Aumentava il PIL (altro mito imperante) ma anche la povertà ed andava emergendo qualcosa di inedito: non si era poveri solo non avendo lavoro ma lo si era pur avendo un’occupazione. I diritti, poi, non si andarono   estendo a chi non ne aveva, ma venivano ridotti a chi li aveva.
Che ciò potesse accadere solo pochi, anzi pochissimi, lo avevano previsto anche ricordando la lezione del Club di Roma sui limiti dello sviluppo. Ma non furono creduti e quando Latouche spiegò che un’altra economia sarebbe stata possibile e – malauguratamente la chiamò decrescita – fu sbeffeggiato.
Quando gli effetti negativi della Globalizzazione non potettero essere più ignorati, in   quello che era rimasto della sinistra, ci fu chi parlò di crisi del Capitalismo. Ma un certo Warren Buffett, che nella graduatoria delle persone più ricche al mondo occupava la terza posizione, lo smentì clamorosamente affermando che negli ultimi vent’anni si era combattuta una grande lotta di classe e che l’aveva vinta la sua parte. Era il 2011.
Qualche anno dopo i media annunciarono che l’uno per mille della popolazione del mondo   possedeva tanta ricchezza quanta ne possedeva il restante novecentonovantanove per mille. Come crisi dunque non era tanto male. La previsione fatta dal mio collega nel 1989 era dunque smentita: il Capitalismo aveva vinto.
E’ vero: aveva, ha vinto; ma non dura. Lo sostiene Giorgio Ruffolo, economista, in un libro del 2009 intitolato “Il Capitalismo ha i secoli contati”, in cui   spiegava che se è vero che, malgrado ne sia stata preconizzata più volte la fine, il Capitalismo appariva    ben vivo e vegeto, non per questo lo si poteva ritenere eterno.
Condivido l’assunto del libro, ma non il titolo. Non pare si tratti di secoli ma di decenni.
Due motivi sostengono questa previsione.
La concomitanza in diverse parti del mondo di lotte sociali che assumono l’aspetto e la sostanza di ribellioni denuncia che il peso delle diseguaglianze e della povertà sta divenendo insostenibile e gli assetti sociali sono vicini al punto di rottura. Masse di diseredati cercano sopravvivenza in paesi lontani dai propri e varie “bombe sociali” si formano in diverse zone del mondo. Prima o poi uno scoppio globale ci sarà. Non tra secoli, ma prima.
L’altro motivo è la tenuta ambientale. Perché essa venga meno catastroficamente non occorrono secoli, ma solo anni, a quel che quasi tutti gli scienziati sostengono, dato che i sintomi ci sono già.
Insomma sembra proprio che il Capitalismo sia come il famoso legnaiolo che sta segando il ramo sul quale è seduto.  Pare dunque arrivato il momento di dare ragione al mio collega e voltare pagina.
Una dimostrazione evidente l’abbiamo in Italia. A Taranto.
Una sequenza di decisioni arrendevoli, di scelte sbagliate sino ai limiti della stupidità, inanellate durante 25 anni hanno fatto sì che si esacerbassero le due contraddizioni strutturalmente presenti sin dall’inizio in quella fabbrica, al punto di non essere più risolvibili, né eliminabili: produzione/ambiente; lavoro/salute.
Ora non c’è soluzione. O si chiude o si continua a distruggere l’ambiente e compromettere la salute. Quegli impianti possono solo produrre contemporaneamente acciaio, inquinamento e tumori. Tant’è che per cercare di salvare capre e cavoli, per provare cioè a modificare i forni almeno in parte senza spegnerli si è ricorsi al famoso “scudo penale” per garantire a chi li gestisse che la magistratura non li potesse perseguire. Il che ha significato dare atto che gestendoli non si può non compiere un reato, perché la motivazione secondo la quale lo scudo servisse a non far ricadere su innocenti i reati commessi in precedenza da altri è di una eclatante assurdità.   E’ noto a chiunque abbia una pur minima nozione di Diritto che la responsabilità penale è personale e solo pensare che qualcuno possa essere non dico condannato ma solo inquisito per colpe commesse da altri è semplicemente un’aberrazione. Il ricorso ad argomentazioni assurde ed aberranti mina la saldezza stessa dello Stato di Diritto. Se è lo Stato a sospendere l’applicazione delle proprie norme e a ricorrere ad artifici per evitarne l’applicazione pone in crisi esso stesso il sistema di regole che rende tutti i suoi cittadini e le sue cittadine eguali davanti alla Legge e nessuno al disopra di Essa. Rischia cioè di non essere più uno Stato di Diritto.
Dunque secondo la logica del sistema economico e nel rispetto delle sue compatibilità, a Taranto una soluzione non si trova se non contraddicendo la logica dello Stato di Diritto. La situazione è dunque dimostrazione lampante su piccola scala che il sistema economico fondato sul Capitalismo è ingovernabile nel rispetto del Diritto e della sostenibilità sociale ed ambientale.
Ne è prova che anche se si trovassero i fondi (per esempio ripetendoli dai Riva che si sono arricchiti a prezzo di questo sconquasso) per garantire salari e stipendi ai lavoratori di Taranto impiegandoli, con le dovute cautele e protezioni, nella trasformazione della fabbrica con tecnologie non così disastrose e nella   bonifica dell’intera area cittadina, non si potrebbero spegnere i forni se non a prezzo di costi economici e sociali altissimi. Non sarebbero in ballo solo i posti di lavoro a Taranto ed in altri impianti collegati, bensì anche il collasso dell’intero settore industriale utilizzatore dell’acciaio dislocato su tutto il territorio nazionale, in particolare nel Centro-Nord. L’ipotesi è pressoché impossibile.
Ed allora? Pare che non ci sia scampo. E’ molto probabile perciò che ci si adatterà ad operare il risanamento degli impianti – nei limiti in cui sarà possibile realizzarlo –   senza interrompere la produzione nelle condizioni date, continuando quindi a produrre acciaio, inquinamento e 1500 tumori all’anni, sapendo che una consistente percentuale di essi avrà inevitabilmente esiti letali. In tal caso uno scudo penale anche se un po’ meno indecente giuridicamente del precedente, dovrà essere ripristinato.
Così sull’altare dell’economia del Paese, moderno Moloch, andranno immolate alcune migliaia di vite umane, senza parlare dell’ambiente. Con impianti ed imprese saranno però salvaguardate anche le fonti di reddito di molte decine di migliaia famiglie.
Non c’è scampo.
Ma per lo meno non lo si nasconda. Lo si dichiari apertamente, perché tutti e tutte se ne prenda coscienza e la consapevolezza collettiva porti il coraggio e l’inventiva necessari per girare davvero pagine e costruire un’economia che non distrugga ambiente, vite e speranze, non crei diseguaglianze e povertà, ma renda possibile una società di persone eguali e libere. Ci vorrà del tempo, ci vorranno molti sacrifici e tantissimo impegno. Ma non è impossibile.

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