giovedì 29 aprile 2021

Ecatombe in mare mentre noi parliamo d’altro, la Ue non sia una fortezza - Oreste Pivetta

Centotrenta morti annegati di fronte alla Libia, mentre in Italia ci si accapiglia sulle riaperture sì sulle riaperture no, su come distribuire duecento miliardi, una parte dei settecento e cinquanta miliardi del cosiddetto Next Generation Eu che sono poi solo un anticipo rispetto ai mille e oltre miliardi del Quadro finanziario poliennale 2027, europeo naturalmente, mentre si litiga sull’ora in cui andare a cena o sulla licenza di aperitivo, si invoca l’intervento di schiere di psicologi per sanare lo spirito dei giovani incrinato dall’impossibilità della frequenza scolastica, si grida alla “liberazione” perché una zona arancione verrà promossa a gialla… Qualcuno osserverà: quanta demagogia, che cosa c’entrano quei morti con le nostre giuste pretese, con i nostri ricchi progetti, con le future attese, con il pil che s’alzerà di botto. Forse non c’entrano proprio nulla: stiamo scrivendo di mondi separati, noi qua loro là. Questa è la vita, questa è la realtà, come ci richiamano i titoli di alcuni quotidiani, che magari non dimenticano l’ennesima sciagura, ma con fermezza e con ampiezza ci spiegano che per loro conta altro.

I titoli dei giornali

Prendete Repubblica. Sotto la testata “Cento migranti morti. Le Ong: colpa dell’Europa”, il titolo grande e grosso ci riporta alle questioni che ci preoccupano davvero: “Il big bang dei 5Stelle”. Non aspettavamo altro. Il “popolo” italiano non attendeva altro.
Prendete Il fatto: “Vitalizi, due sberle/ al corrotto Formigoni”. Si direbbe: giustizia è fatta, ci siamo levati un peso.
Prendete il Corriere: “Virus: così riapre l’Italia”. Un sospiro di sollievo: libertà, libertà… Foto notizia: “La nostra nave in un mare di corpi”. Testimonianza dei soccorritori.
Prendete Libero: niente (foto notizia a pagina dieci).
Ovviamente devo citare il Manifesto: “Strage di Stati”. E la Stampa: “Il mare della nostra vergogna”. Mi pare che in senso politico e in senso morale colgano il significato di quanto è accaduto.

Quanto è accaduto non è il caso di un giorno. E’ una lunga storia che somma migliaia e migliaia di vittime, non solo gli annegati, anche i malati, i bambini senza scarpe, gli attendati sotto la neve nei campi profughi immersi nel fango ai confini con i paesi del benessere, i vecchi che trascinano a stento qualche bagaglio, gli abbandonati che dormono sotto qualche portico, gli schiavi dei campi che sopravvivono nelle baracche, i bastonati, i picchiati, gli affamati… Quanti sono? Non sappiamo contarli. Li vediamo? Possibilmente no, perché “non è mai colpa nostra”, anche se “noi” siamo i governi che questo mondo esprime.

Europa senza una strategia

La responsabilità è degli “Stati”, come ricorda il Manifesto. Più precisamente la responsabilità è dell’Europa, che sta a guardare, che non sa proporre una strategia unitaria, che mette una pezza qui e una là, che in trenta o quarant’anni non è riuscita individuare una strada. Non è accoglienza, non è rifiuto. E’ perenne conflitto di interessi, è ipocrisia. Il Giornale di Sallusti rispolvera un’espressione che gli è cara: “L’ecatombe buonista…”, ispirato evidentemente da Salvini (“… altro sangue sulla coscienza dei buonisti”, i buonisti che “di fatto agevolano gli scafisti” ) e monta la polemica contro chi organizza i soccorsi, contro chi crede nell’ospitalità e nella solidarietà.

Ma il Giornale, nella sua nauseante attenzione al cortile, trascura il termine vero, “ecatombe”, che, buonisti o no, mette angoscia e vergogna e che rimanda alla miserabile cultura del privilegio da salvaguardare, dell’autodifesa, della paura, che conosciamo da molto tempo, quando sulle nostre spiagge o giù di lì comparvero i “vu cumprà”, quando dalle carrette arrugginite sbarcarono sulle coste pugliesi migliaia di albanesi o dall’orizzonte di Lampedusa si avvicinarono alla costa i primi barconi (con i primi cadaveri). “Ecatombe” rimanda anche al deserto della politica, senza voce, senza autorevolezza, senza piani, senza condivisione. Si potrebbe rifare il percorso della “nostra politica”, dagli eroici moti leghisti capeggiati da Bossi e dall’indimenticabile Borghezio alla difesa delle nostre coste esercitata dal capitano Salvini. Ricostruire servirebbe. Vado alla fine di una eventuale ricostruzione, ricordando da quanto tempo si trascina la discussione sullo jus soli. I giovani, che ne avrebbero il diritto, saranno intanto diventati madri e padri.

Sarebbe pure utile non dimenticare la storia della migrazione, senza per forza ricorrere a tempi lontani, ad epoche antiche, alla fuga dall’Italia verso le Americhe o al dopoguerra nel vecchio continente. Basterebbe appunto risalire ai nostri ultimi trent’anni: uno sguardo all’Italia, uno sguardo agli altri paesi che stanno ai nostri confini, per un bilancio d’umanità ma anche di scelte che non hanno quasi mai superato l’occasione.

La catastrofe umanitaria

Il nostro presidente del Consiglio a Tripoli ha proposto un accordo globale, che aiuterà la Libia a ritrovare forse stabilità, che riguarderà economia, infrastrutture, energia, ha proposto il rafforzamento della guardia costiera libica, lo smantellamento dei campi di detenzione, la possibilità di rimpatri (anche attraverso incentivi economici), corridoi umanitari per chi avrebbe diritto d’asilo. Ma nessuno può pensare che l’Italia da sola possa far fronte a quella che non è difficile definire “catastrofe umanitaria”. Le definizioni spiegano la storia: siamo passati dalle metafore aggressive, tipo invasione, ondata, tsunami, alla resa dei conti della “catastrofe”. Di fronte alla catastrofe l’Europa tutta dovrebbe battere un colpo, dopo quelli battuti in ritirata negli anni passati, l’ultima volta nel 2019, quando le navi militari europee impegnate davanti alle coste libiche ripiegarono nei loro porti d’origine e la missione Sophia si chiuse tristemente, grazie al premuroso impegno dell’allora ministro Salvini e del primo governo Conte.

I morti annegati dell’altro giorno, ultimo per ora quadro di una sofferenza che è difficile immaginare da casa nostra e che forse proprio per questo ci pare lontana e ci lascia indifferenti, chiedono qualche cosa di più della pietà dell’ora dopo o del giorno dopo. Ricordiamo Alan Kurdi, il bambino, il corpicino immobile sulla spiaggia, 2 settembre 2015. Mai più, si era detto. Quante altre volte?
Una domanda ancora: può prosperare l’Europa del Recovery plan alla maniera di una fortezza che si affaccia sul Mediterraneo diventato una tomba? la fine di questa tragedia non è una 
condizione del progresso europeo, che quei miliardi dovrebbero consentire?

da qui

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